Articoli / Blog | 22 Maggio 2024

Blog – Wim Wenders, i giorni perfetti di un monaco taoista

Questa recensione contiene spoiler

Nel 2019 la casa editrice Diarkos mi propose di scrivere un libro per i giovani che li orientasse nel mondo delle religioni. Nacque così Le religioni spiegate ai giovani opera che mi spinse a studiare culti e credenze che ignoravo: tra esse c’era il taoismo, la cui conoscenza è stata illuminante nella visione di Perfect Days. A mio parere senza dubbio Hirayama, il geniale protagonista, altri non è se non una sorta di versione laica del monaco taoista. Questa religione, molto diffusa in Cina, Vietnam, Corea e – per l’appunto – Giappone non è molto conosciuta in occidente e non è strano che molti recensori non se ne siano avveduti.

Esiste un personaggio secondario del film, che qualcuno ha definito “un barbone un po’ tocco” che, invece, è il calibro su cui misurare l’intera storia. Viene inquadrato più di una volta. Appare, per esempio, quando è abbracciato a un albero o cerca di intercettare pienamente la luce del sole. Hirayama ha, con quello che senza dubbio è un monaco taoista, un rapporto di venerazione e di delicato rispetto.

I pareri positivi – peraltro condivisibili – che registro sul capolavoro di Wim Wenders insistono soprattutto sulla poesia della quotidianità, dei piccoli gesti, dell’essenziale. Il messaggio del film sarebbe che la vita semplice scandita dall’ordine che cura le piccole cose può dar senso all’esistenza. In realtà il regista tedesco dice molto di più: ovvero che la scelta religiosa radicale rende felice e luminosa l’intera vita. Il Taoismo esorta a lasciar fare alla natura spingendo ad essere modesti, altruisti, umili, miti, tolleranti e pacifici. In questo modo si giungerà dove ci sono gli spiriti eterni, oltre le ombre con le quali il film gioca nel finale. La natura va assecondata ed accarezzata. Questo vale per tutte le forme di vita, non solo per gli alberelli quando sono nel loro momento più fragile ed esile.

Nelle scelte del protagonsita appaiono i tratti essenziali di ogni grande forma religiosa.
La povertà in primo luogo, raccontata attraverso il rapporto di Hirayama con la sorella. Quest’ultima, una ricchissima capitalista, va a riprendere la figlia che si era rifugiata dallo zio dopo una lite con lei. L’unica spiegazione possibile è che proprio quella vita sia stata abbandonata dallo strepitoso Koji Yakusho in ragione di una scelta di povertà così radicale da fargli lasciare anche il rapporto con il padre.
Ci sono poi la modestia, il pudore e probabilmente il celibato. Lo si capisce da molti particolari, soprattutto dallo sguardo ammirato che la nipote riserva allo zio. C’è soprattutto la scelta narrativa di far passare tutte le età al vaglio della saggezza del monaco: e questi accarezza con amore la vita che Wenders gli fa conoscere in tutte le sue fasi. C’è il bambino, ci sono i fidanzati, c’è la nipote (che forse, come lo zio, non si sposerà), c’è la proprietaria del bar che, lasciata dal marito, canta di essere stata costretta alla prostituzione. C’è la persona disabile, c’è l’anziano, c’è il marito che aveva abbandonato la donna del bar e che, malato di tumore, vuole riconciliarsi con lei prima di morire.

Ci siamo noi, infine, che non smetteremmo mai di guardare un film così

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