Agi – Trecentomila uomini e un tramonto
Vent’anni fa moriva Fabrizio De André e io oggi ho telefonato a un mio amico. Genovese. Perché ho vissuto sei anni della mia vita a Genova e, per coincidenza, nella stessa casa del fratello Mauro, l’avvocato, il brillante professionista. Ma Faber non credeva nelle coincidenze, aveva la passione per l’astrologia e gli oroscopi, per cui provo a guardare questa piccola cosa preziosa come se fosse, per me, non un caso ma una chiamata.
Erano gli anni ’80 e non ho ricordi particolari di lui se non che una volta, si diceva fosse passato da quelle scale con Dory Ghezzi: avevano visto una donna bionda, e di certo doveva essere lei. Quindi l’altro era Fabrizio.
Leggo, vedo e sento tanto in queste ore su di lui, il mitico Faber, ma non mi ci ritrovo nei paroloni. È proprio quello che accade quando scopri che il tuo amico d’infanzia, l’hai perso di vista ed è diventato un premio Nobel. Negli anni ottanta, quarant’anni fa, non ascoltavo De André perché era “anarchico e pacifista” o per le sue idee su Gesù. A quell’epoca avevo già pensato alla possibilità di essere prete ma non lo dicevo. Frequentavo l’università laica, civile, normale. Vivevo a Genova e amavo quei cuori, quei luoghi, quelli celebrati dalla “Litania” di Giorgio Caproni. E ascoltavamo Fabrizio De André e cantavamo Fabrizio De André. La Canzone di Marinella, Geordie, quello “con il privilegio raro di morire impiccato ad una corda d’oro”. E Via del Campo, in ambiente cattolico più citata per “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior” che per il meretricio del quartiere Prè.
Fabrizio De André è stato per la mia vita una suggestione come quella dei capelli biondi di Dory Grezzi. Un mistero da dove derivi la certezza di averli incontrati perché i capelli biondi non connotano nessuno: un mistero tuttavia forte come una convinzione che nessuna forza o ragionamento è in grado di scalfire.
Mille, duemila, trencentomila persone vedono un tramonto meraviglioso senza guardarlo, passano accanto a un uccellino morto caduto e calpestato senza fermarsi perché non se ne accorgono. Poi sopraggiunge la trecentomillesima e uno e si ferma. Tocca lieve con la punta della scarpa quel corpicino, si china a guardarlo mentre la folla continua a camminare facendo solo lo sforzo di girare al largo, prende un’aluccia e ricovera il morto sotto una siepe, per celebrare un funerale superfluo per tutti, indispensabile per chi si è fermato. Da questa sosta, nasce l’urgenza. Per me di scrivere, per De André di cantare. Un peso terribile perché si sente il compito di raccontare ai trecentomila che prima sono passati senza fermarsi, quello che non hanno visto, il dovere dell’incanto. Mostrare l’unicità di quello che nessuno ha notato non come un rimprovero ma come un dono. Leggo che Fabrizio De André ha dovuto combattere per molti anni la sua dipendenza dall’alcol. Sono certo di non andare lontano se individuo le ragioni di quella lotta, nello sforzo per sopravvivere al dovere di comunicare, cantandole, cose che nessuno nota. Per palesare quello che a noi tutti era nascosto ma, nonostante ciò, una mattina ce lo siamo trovati sulle labbra e nel cuore. E abbiamo canticchiato per strada.