Articoli / Blog / Le interviste | 17 Ottobre 2019

Blog – L’intervista integrale a Carlo Petrini

Su Agi è uscita una sintesi dell’intervista a Carlo Petrini di cui è possibile qui leggere qui il testo integrale

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Se due anni fa mi avessero detto che avrei dato del tu al Papa gli avrei detto: sei impazzito? La contingenza della vita ha anche queste belle sorprese… conoscendo Papa Francesco ho conosciuto un uomo straordinario, del quale non solo condivido le idee ma anche lo stile, il modo di porsi, inoltre, in questi quattro anni, poiché la prima telefonata è del fine settembre 2013.
Gli avevo mandato il libro di Terra Madre. Dopo una quindicina di giorni, ero a Parigi, arriva una telefonata con la dicitura Numero sconosciuto – io pensavo fosse Repubblica – è invece c’era una voce che mi ha detto: “Sono Papa Francesco”, e da lì è iniziata l’avventura. Ci siamo sentiti e incontrati diverse volte. Per esempio lui mi aveva parlato della Laudato Si prima di scriverla. Poi accadde che don Sciortino, il direttore di Famiglia Cristiana, mi chiedesse di fare l’Introduzione all’enciclica per la pubblicazione della San Paolo, e così io ho potuto farla in ventiquattro ore. A febbraio 2020 uscirà un libro, a due mani, in cui racconterò del mio rapporto con il Papa.

Come è cominciata l’avventura del Sinodo?
Io ho saputo del Sinodo prima che venisse annunciato. Ero ad una udienza con altri cinque persone riguardo alla trasmissione condotta da Marco Pozza per TV2000 su Il Padre Nostro. C’era Umberto Galimberti, c’era Pif, e altri. Dovevo commentare il versetto “dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Dopo la trasmissione siamo andati dal Papa. Sapevo che il Pontefice doveva andare a Puerto Maldonado era per questo gli avevo portato un nostro libro di Slow Food su “L’arca del gusto in Perù“, e quindi c’era un intero capitolo sui prodotti dell’Amazzonia. Io sapevo che al Papa sarebbe interessato perché dietro ai prodotti ci sono le popolazioni. E così è stato. Finito l’ incontro mi ha preso in disparte e mi ha detto: “convocherò un sinodo panamazzonico“. E io ho detto: “straordinaria questa idea!”.
Dopo un po’ di tempo, prima del viaggio, mi ha mandato privatamente i discorsi che intendeva fare, affinché io potessi dargli dei suggerimenti. Capisce che fiducia incredibile? Farsi dare dei suggerimenti da un agnostico. Oltretutto, io, tra le altre cose sono giornalista: pensi che opportunità avevo di fare uno scoop. Poi ci sono stati altri incontri e in uno di quelli mi ha detto che aveva intenzione di invitarmi al Sinodo.

A proposito del discorso al Sinodo vuole approfondire quanto ha detto a proposito dell’importanza, per l’ecosistema, del raccoglitore, cioè, nel caso dell’Amazzonia, dell’indigeno. Il raccoglitore di oggi, invece, a causa dell’agricoltura industriale, è una persona distante da quello specifico ecosistema, che non ne sa nulla
Ormai nella nostra tradizione, gli ultimi “raccoglitori” rimasti sono i raccoglitori di funghi, in qualche misura anche i cacciatori: se l’operazione del raccogliere viene fatta con rispetto, gli ecosistemi vengono tutelati non distrutti. Gli indigeni delle popolazioni amazzoniche hanno perfettamente il senso del tempo di quando deve venire il frutto: nel mio intervento al Sinodo volevo rompere l’idea che l’indigeno fosse “un primitivo”: non è affatto così! Essi mantengono l’ambiente. Per quattro anni Slow Food ha finanziato un ospedale di indios nel cuore del Brasile: e abbiamo aiutato i missionari a cucinare per gli indigeni, non la pasta, il riso, le cose all’occidentale, ma i loro piatti, le loro cose. Pensi che nelle stanze dell’ospedale al posto dei letti avevano steso le amache: l’unico rapporto che ovviamente non è stato possibile mantenere è stato il rapporto col fuoco, perché non era possibile accendere il fuoco nelle stanze dell’ospedale. E c’era un missionario che aveva coltivato un frutteto e si arrabbiava perché gli indigeni, quando vedevano i frutti, si comportavano come in Amazzonia, cioè li andavano a prendere: e io ho detto al missionario, tu educali facendoglieli assaggiare. Da allora, noi di Slow Food, quando cataloghiamo questi prodotti, mettiamo in evidenza le loro particolarità rispetto alla raccolta.

Quindi l’indigeno mantiene l’ecosistema e si fa mantenere dall’ecosistema. Perché invece l’agricoltura industriale accumula
Sì. Accumula, non sa governare il limite, esagera le produzioni, non ha un rapporto vivo con la natura. E questo dimensione in cui la relazione non viene mantenuta ma serve per accumulare esperienze e sensazioni è qualcosa di comune al nostro tempo. Questo è stato il primo ragionamento che feci con Papa Francesco proprio in quella prima telefonata di cui le ho parlato.
Come le dicevo in quel dialogo parlando di Terra Madre siamo venuti a considerare che 10.000 di storia dell’agricoltura sono stati governati dall’economia della sussistenza. Negli ultimi tre secoli invece è nata l’economia dell’accumulazione, quella del capitale, quella che è nata con la Rivoluzione Industriale. È nata da quando è stato detto al contadino: tu non sei più un contadino, sei “un imprenditore agricolo”. Devi lavorare in modo da mettere da parte dei soldi e poi reinvestire: e così l’agricoltura della sussistenza è stata svilita. Io non ho un rimpianto rispetto all’agricoltura della sussistenza, ho un rimpianto rispetto al “non accumulo”. Noi stiamo studiando un’economia della sussistenza del XXI secolo, dove è possibile mantenere gli agi della nostra vita ma superando la mentalità dell’accumulo.
Invece l’economia dell’accumulo ha avuto il sopravvento e questo ha distrutto l’agricoltura, ha distrutto i contadini che guadagnano pochissimo. In quella conversazione telefonica il Papa mi interruppe parlandomi di sua nonna: “mia nonna diceva che nel sudario non ci sono le tasche” e io aggiunsi allora cosa diceva una cuoca delle Langhe.
Faceva delle raviole meravigliose ma cucinava solo per di giorno. Allora io le dicevo: perché non tieni aperto la sera? Oltretutto la sera vengono i giornalisti, potresti farti conoscere, aumentare la tua clientela. E lei mi rispondeva “non voglio essere la più ricca del camposanto”. Molti a questa frase sorridono e non capiscono. In questa affermazione della contadina, non c’era il desiderio di non lavorare alla sera. Lei, alla sera, lavorava, ma in altro modo. Si dedicava alla famiglia, magari preparava le conserve che le servivano il giorno dopo. Quella contadina aveva un altro concetto di economia. Quell’economia è quella che andremo a studiare ad Assisi, a marzo, con il convegno “L’economia di Francesco”: perché se l’economia dell’accumulazione è quella che ci ha condotti a questo punto dovremo pur studiare un altro paradigma. Verranno fior di studiosi come Luigino Bruni, Zamagni, Suor Alessandra Smerilli, Becchetti: in Italia abbiamo degli studiosi di primo ordine. Un scuola di pensiero tutta cattolica di cui il mondo laico ha tantissimo bisogno.

Nel suo intervento di lunedì lei ha anche detto che il mondo non si sta rendendo conto di quanto sta accadendo a proposito dell’ambiente. Lei dice, in pratica, che noi siamo distanti da quanto stiamo facendo. Si riproduce in noi, su larga scala, quella distanza rispetto all’ecosistema mondo di cui abbiamo parlato all’inizio quando abbiamo parlato degli indigeni e dei contadini che non ci sono più
È così. Anche se è vero che questo meccanismo della responsabilità è partito, è troppo lento per ottenere effetti significativi, in grado di invertire la rotta.
Io credo che il portato culturale e politico della Laudato Si, che è straordinario, non è stato capito compiutamente dal mondo laico e in buona parte non è stato capito neppure dal mondo cattolico.
Nel suo intervento conclude auspicando che la salvezza venga dai poveri, dalle donne e dai giovani. Come legge il fenomeno dei giovani e di Greta Thunberg? Il Papa gliene ha parlato, le ha detto che cosa ne pensa?
Il movimento che ha in Greta il suo simbolo è l’unica vera bella notizia che c’è e si pone come richiesta alla politica. Il Papa, quando ha incontrato Greta le ha detto “vai avanti, vai avanti”. Il pontefice, parlandone con me, ha dato una valutazione positiva del Friday For Future. Dice: meno male che ci sono questi giovani che rivendicano quello che è giusto rivendicare; ripete “è il mondo dei giovani che giustamente si sta mobilitando”. Questo me lo ha detto proprio in modo specifico.

Il tema “cibo” che diventa tema “ambiente” è trasversale, non è di sinistra o di destra. Per questo Carlo Petrini è un uomo “trasversale”: che in un certo senso è di sinistra ma che anche viene candidato da Vittorio Sgarbi come suo ideale Presidente del Consiglio.
L’amico Sgarbi dice questa cosa provocatoriamente, io quando parla ho sempre paura di quello che potrebbe dire (ride), ma, seriamente parlando, la sua valutazione è un’altra. Lui è entusiasta di aver visto che io ho fatto dei prodotti agricoli e del patrimonio alimentare, un elemento di riscatto economico e di autorevolezza culturale.
Quando noi di Slow Food abbiamo cominciato, vent’anni fa. Ci veniva rimproverato di essere fuori dal mondo. Ci dicevano: ma che senso ha parlare della cipolla di Tropea, dell’aglio di Caraglio: ebbene, oggi non esiste paese o città italiana che non vanti i propri prodotti. È avvenuto qualcosa di inimmaginabile. Significa che quella pera, quella cipolla, è diventato il prodotto identitario di quella microeconomia, un prodotto che la gente sente propria con lo stesso orgoglio con cui sente propria un’opera d’arte, o un monumento di quel territorio.

Lei ha detto che confida nei poveri, come persone in grado di comprendere le ricchezze della microeconomia. Ma non di rado i prodotti etichettati “Slow food” hanno prezzi che non sono alla portata dei più poveri…
I prodotti di Slow Food non sono né cari né elitisti. È una nomea infondata che ci accompagna fin dagli inizi e che va smantellata. Noi di Slow Food siamo per la qualità ma al contempo diciamo che la qualità è un diritto di tutti non solo di pochi: per questo noi mai sosteniamo prodotti inarrivabili. È ovvio che ogni prodotto abbia un suo costo e questo comporta che il prezzo debba essere giusto. Detto questo è anche doveroso dire che il problema dello spreco alimentare è trasversale, di tutti, non solo dei ricchi. Molto spreco alimentare è fatto anche dai ceti medio bassi. Se noi imparassimo a non sprecare – e questo vale sia per i ricchi che per i poveri – saremmo in grado di riconoscere un prezzo più equo anche per il contadino. La politica non deve cadere nella demagogia. In Italia un contadino guadagna 7 centesimi al chilo per le carote, come può essere che ai pastori sardi vengano promessi venti centesimo al litro per il latte? Ci dimentichiamo che la gente povera fatica a pagare 1 euro al litro per il latte? Noi cerchiamo di fare qualcosa di serio accorciando la filiera, con i “mercati della terra”, i “mercati di campagna amica” e ci sforziamo di creare un rapporto più serio e onesto tra il produttore e il cittadino.
Io parlo di cittadino, non di consumatore. A me non piace usare la parola consumatore perché è una parola nata dopo la Rivoluzione Industriale. A me la parola consumatore ricorda una malattia, la consunzione, no, no. Invece amo parlare di cittadino, cioè di una persona cosciente e responsabile. Se facilitiamo il dialogo tra cittadino e produttore, tutto migliora. Se il cittadino conosce il lavoro che c’è dietro un prodotto e in qualche modo ne vuole essere parte attiva, lui deve sapere che va pagato il giusto. Questa, non la demagogia, è secondo me è la strada per sanare situazioni di enorme ingiustizia.
Noi – parlo a livello mondiale – abbiamo una umanità che soffre patologie da iperalimentazione e un’altra umanità che soffre la fame. Di fronte a questa forbice, noi dobbiamo prendere atto che il nostro sistema alimentare è criminale. Questi due volti, se visti a livello di politica planetaria, esigerebbero una visione che comporta azioni di contrazione e azioni di convergenza. È nel concertare queste operazioni dove si palesa la difficoltà a portare avanti una politica veramente di alto profilo. Perché è giusto portare avanti una politica di contrazione per chi ha avuto troppo e una politica di convergenza per chi ha avuto poco. Ma la politica stenta a fare questo ragionamento. Preferisce essere populista verso i poveri per poi non ottenere nulla. Invece il respiro delle politiche di convergenze coordinate con le politiche di contrazione dovrebbero entrare nel nostro DNA politico.
Faccio l’esempio della carne. Per mille motivi stiamo facendo delle campagne volte a diminuire il consumo di carne. Per mille motivi, ambientali e sanitari. Quando io sono nato, gli italiani consumavano pro capite 40 kg di carne all’anno, erano gli anni ’50 e ’60. Oggi siamo a 90 kg pro capite, è troppo. Ma questa campagna di riduzione della carne, può essere proposta ai nostri fratelli dell’Africa sub-subsahariana che consumano 5 kg all’anno a testa? Ecco cosa significa contrazione e convergenza. Dirò di più. Con l’esempio della carne si capisce che la contrazione non è una mortificazione ma è una benedizione. Sia per la salute che per un rapporto etico con il cibo che per un rapporto intelligente con la nostra agricoltura

Che aria tira al Sinodo? Sono sorrisi di maniera davanti al Papa o c’è una vera adesione convinta?
La mia sedia è tra gli indigeni, le donne, i missionari di base. Io non sono tra i padri sinodali che io vedo, ma solo dall’alto. Posso dire che tra i padri sinodali una parte è decisamente a favore di un cambiamento, un’altra parte ho l’impressione che auspichi tempi più lenti di assorbimento, e un’altra parte è contro. Però c’è generalizzata, nell’aria, la voglia di cambiare. Tutte le donne presenti – dalle suore alle laiche – finiscono il loro intervento con “è ora di cambiare”, come Greta: il finale è identico sia che parlino di pastorale, sia che parlino di ambiente e di ingiustizia sociale, sia che parlino del diritto alla loro cultura, alla loro lingua, e alla loro cosmogonia.

Le faccio come ultima, una domanda su Gesù. Perché secondo lei perché moltissime parabole di Gesù sono a contenuto agricolo? Perché parla così tanto di pastori e di pescatori?
Perché noi siamo vivi grazie al cibo. Io ho dedicato la vita a questo. Il cibo è energia per la vita. Il cibo è relazione. Il cibo è amore. Questo è nella natura delle cose. Noi, quando nasciamo, non vediamo, non ascoltiamo, ma d’istinto, con le labbra cerchiamo il seno. Io trovo questo di una forza incredibile. Slow Food ha dedicato una vita a questo. Ha dovuto anche mettere dei paletti alla moda, tremenda, di fare dell’alimentazione uno show. Perché al dunque è la differenza tra la parola e l’esempio, che è il motivo per cui noi possiamo credere alla forza dei poveri. Un cuoco, un contadino, devono essere leader nell’esempio, non nella parola. La potenza dell’esempio. L’esempio è potente. Se non fosse per la forza dell’esempio dire che gli ultimi saranno i primi è solo uno slogan, belle parole: invece, grazie alla tremenda forza dell’esempio, noi dobbiamo riconoscere che gli ultimi – cioè i poveri, le donne, i giovani – hanno dalla loro, la potenza dell’esempio. Ed è quello che spiazza i parolai. Perché l’esempio trascina.