Articoli / Blog / In spagnolo | 10 Marzo 2019

Temes d’avui – Celibato: un approccio

Temes d’Avui è una rivista catalana nata nel 1997. Nel suo sito, la rivista si presenta così: “offre supporti per la famiglia e la vita cristiana. Di ispirazione cattolica, promuove un cultura di dialogo rispettoso con le altre posizioni”. Qualche mese fa sono stato contattato per un articolo sul celibato che è stato pubblicato, in lingua catalana, per il numero di 58 (febbraio 2019) della rivista, interamente dedicato alla vocazione dei laici. A fondo pagina l’articolo in catalano

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Se scrivo che una donna ama un uomo, che un uomo ama una donna, che una donna ama una donna, che un uomo ama un uomo, non è detto che stiamo parlando di sesso, né nel sacramento del matrimonio né fuori. Magari stiamo parlando di amicizia e proprio per nulla di unione sessuale perché ciò che unisce, propriamente, è l’amore, non il letto. Il talamo è materia matrimoniale ma l’amore non è tutto matrimoniale. Però, diciamo la verità, se scrivo «che un uomo ama, che una donna ama» quasi tutti pensano all’amore matrimoniale, a quello sessuale, e quasi nessuno all’amicizia, vero? Questa semplice considerazione aiuta a capire perché sia così difficile pensare a un celibato spiegato secondo la logica dell’amicizia e non secondo quella della sponsalità. Sebbene l’amicizia sia universalmente riconosciuta “in astratto” come la forma di amore più alta, in pratica è la relazione più rara e anche più sottovalutata. Quante volte accade che un genitore chieda alla figlia se è fidanzata con un certo ragazzo e, di rimando, si sente rispondere scocciata che “no, siamo solo amici”. Oppure, quando un amore naufraga, si dice: “ci siamo lasciati ma siamo rimasti amici”. Se quando parlassimo di amore pensassimo più facilmente all’amicizia, quello che vorrei dire riguardo al “celibato apostolico” si capirebbe meglio. Perché noi diciamo che «l’amore è tutto» ma non ci crediamo, questo è il problema. Invece è proprio vero che «tutto è tutto» e non è questo sì e questo no: è tutto. Invece noi diciamo «tutto» per dire tutto quello che ci serve, tutto quello che è previsto, tutto quello che pensavo. In questo senso il libro Come Gesù, parlando di celibato, non parla solo di celibato, ma aiuta a riscoprire il significato dell’amicizia, della civiltà, della cultura. E quindi delle parole.

Cristo afferma il valore del matrimonio, ripristina l’originaria indissolubilità e la simmetria dei ruoli tra marito e moglie e ne fa un sacramento dove il rapporto tra lo sposo e la sposa diviene immagine della relazione tra Gesù e la Chiesa. D’altra parte però Egli non si sposa: questo significa che le strade per essere santi sono due: il matrimonio e il celibato. Può essere, mi sono chiesto, che il celibato abbia una propria reale autonomia concettuale, che sia possibile parlarne senza fare riferimento al canone della sponsalità o che, invece, sia pur sempre in qualche modo riconducibile al matrimonio? Perché in genere il celibato nella Chiesa viene spiegato con il paradigma della sponsalità: ma d’altra parte la mia vocazione al celibato, che precede quella al sacerdozio essendo io membro numerario dell’Opus Dei, non è stata mai spiegata con quel canone: non l’ho fatto io con me stesso né l’hanno fatto gli altri. La mia esperienza esistenziale, cioè, è l’incontro di una realtà ecclesiale in cui è possibile per dei laici darsi a Dio nel celibato senz’altra consacrazione che quella battesimale e senza riferimenti alla sponsalità. Cimentarsi con essa significa immediatamente mettersi in contatto con l’umile certezza di cui è pervasa: sapere di essere, dopo il celibato dei religiosi e dei sacerdoti, un altro dono – un dono diverso – di Cristo alla sua Chiesa. Perché la vocazione al celibato propria della vita religiosa viene prevalentemente spiegato attraverso il senso del richiamo escatologico e del rendere visibile la sponsalità della Chiesa dinnanzi a Cristo; inoltre, il celibato del sacerdote ha soprattutto il senso di simboleggiare Cristo-Sposo dinnanzi alla Chiesa-Sposa. Entrambi questi modelli, quindi, si rifanno all’archetipo della sponsalità.
Poiché nel Dio cristiano la sostanza di ogni spiegazione è l’amore, cercare il senso – il perché – del celibato cristiano vuol sempre dire ricondurlo all’amore: ora, se noi desideriamo trovare un amore che non sia quello matrimoniale, rimane solo l’amore dell’amicizia. Gli altri amori infatti, padre e figlio, fratello e sorella, passano sempre, come quello del marito e della moglie, per la vita sessuale: invece l’amicizia è proprio quell’amore che prescinde sempre dal sesso. Ecco quindi l’altro canone disponibile per spiegare il celibato in modo autonomo rispetto all’archetipo sponsale: l’amicizia.

A quale modello si riconduce il celibato apostolico, come san Josemaría Escrivá chiamava quel celibato che, non essendo sacerdotale, tuttavia nulla aveva a che vedere con la consacrazione religiosa? Cito non a caso il Fondatore dell’Opus Dei perché nelle mie riflessioni – che partono dalla mia vita – ho considerato che questo santo abbia avuto un ruolo profetico rispetto a questo nuovo modo di vivere. A mio parere egli ha avuto quella capacità interiore di ascolto, di percezione e di sensibilità spirituale che gli hanno consentito di cogliere il mormorio impercettibile dello Spirito Santo, di assimilarlo, di farsene fecondare e di offrirlo al mondo. I verbi che scelgo per raccontare quanto avvenuto in san Josemaría, sono rivolti a descrivere più un divenire storico – una vita di celibato vissuta da decine di migliaia di persone – che l’elaborazione di una teoria sistematica. Tra le parole del Fondatore dell’Opus Dei in proposito, quelle che da sempre ho trovato più suggestive sono laddove esorta a volgere lo sguardo all’apostolo Giovanni, quello che per la liturgia è stato il quarto evangelista, l’apostolo vergine che Gesù ha amato con amore di predilezione. “Come ridevi, schiettamente, quando ti consigliai di porre i tuoi verdi anni sotto la protezione di San Raffaele! Perché ti conduca, come il giovane Tobia, a un matrimonio santo, con una moglie buona, bella e ricca – ti dissi scherzando. E poi, come sei rimasto pensoso, quando aggiunsi il consiglio di metterti anche sotto il patrocinio dell’apostolo adolescente, Giovanni: se mai il Signore ti chiedesse di più.” (Cammino, 360). Queste espressioni non sono un aforisma tra gli altri ma raccolgono un insegnamento costante. San Josemaría Escrivá già nel 1935 suggeriva di contemplare il quarto evangelista per capire meglio il celibato apostolico: “…y san Juan, el Apostol virgen, amadisimo de Cristo, para que os enseñe el camino de un celibato apostolico fecundo” (Istruzione per l’Opera di san Raffaele 9.1.35 n. 124 in Pedro Rodriguez, Camino Edición crítico-histórica, Rialp, Madrid 2002, p. 524).

La Chiesa è la Sposa di Cristo pertanto, in senso generale, ogni cristiano è “sposa di Cristo”. Non importa che sia celibe o sposato, laico o sacerdote o religioso. Un padre e marito con numerosi figli è, in questo senso, “sposa di Cristo” né più né meno di una monaca di clausura. Poiché però Gesù stabilisce due modi di arrivare in Cielo, il matrimonio e il celibato, mi sembra riduttivo, allorché si entra nello specifico del celibato apostolico, voler illustrare il secondo con il primo dicendo che il celibato è un particolare tipo di «sposalizio».
È senz’altro una bella spiegazione dire che il celibato mostra «fin da qui la vita che sarà» ma ce n’è un’altra, anch’essa molto bella, ed è che il Verbo è vergine. È vergine fin da sempre e per sempre, e tale è rimasto anche nell’Incarnazione. Ma cosa significa dire che Gesù è rimasto celibe, cioè non si è sposato, cioè è rimasto vergine perché Egli, che ha la stessa verginità del Padre nell’eternità, ha voluto mantenersi così anche nel tempo? Dice san Gregorio di Nissa: «Abbiamo bisogno di molta acutezza per poter comprendere l’eccellenza di questa grazia, che si contempla insieme al Padre incorruttibile. E ciò che è paradossale (paradoxon) è che si trovi la verginità in un padre che ha un figlio e che lo ha generato senza passione alcuna. E la verginità si contempla anche nell’Unigenito di Dio, dispensatore dell’incorruttibilità, e risplende allo stesso modo nella purezza e nell’assenza di passioni nella sua generazione: e ancora una volta si presenta lo stesso paradosso, cioè un Figlio conosciuto nella verginità. E la stessa forma si contempla nella purezza essenziale ed incorruttibile dello Spirito Santo, perché nominando la purezza e l’incorruttibilità non si indica altro che la verginità» (De Virginitate, 2,1-11: SC 119, pp. 262-264).

Si può capire quanto intende Gregorio di Nissa se si riflette su un particolare uso che – per lo meno in italiano – facciamo della parola “vergine”. Questo aggettivo non indica solo l’inesperienza sessuale ma anche l’integrità e la pienezza di vita. Per esempio, quando compriamo dei DVD nuovi, chiamiamo questi dischetti “vergini”. In questo caso non c’è nessun riferimento alla vita sessuale. Ci riferiamo piuttosto all’integrità, ad un’esistenza piena e nuova: insomma alla vita colma. Nella vita qui ed ora, quando ci si dona, inevitabilmente qualcosa va perso e diminuito. In questa vita essere nuovo significa essere integro ma per il cristianesimo, nella fede, non è così. Gesù dice “a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello” (cfr. Mt 5,40) ed è chiaro che, in prima istanza, se io do la mia tunica al bisognoso ne rimango privo: cioè darsi significa “rovinarsi”. Però so che, misteriosamente, in prospettiva di fede non è così. Se la tunica è quella senza cuciture di Gesù (cfr. Gv 19,23), quando essa viene offerta e donata, proprio perché costitutivamente unica e “senza cuciture”, essa non si spezza ma si moltiplica. Miracolosamente rimane non solo integra e intatta – cioè vergine – ma anche “aumentata”. Viene in mente il pane spezzato della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Ecco la Vita del Padre. Il Padre dona la vita, dona sé stesso, pienamente e consustanzialmente al Figlio e in maniera partecipata alla sua creazione, e ciò non comporta nessuna compromissione dell’integrità. Nessun venir meno. Tutto cioè nasce dalla comunicazione della pienezza di vita. «Incorruttibilità» significa infatti assenza di composizione, quindi appunto “pienezza”, «pienezza di vita». Poiché il Figlio viene generato dalla pienezza di Vita del Padre che non solo «ha» la Vita ma «è» la Vita, questa generazione è verginale. Quindi «pienezza di vita» e «verginità» hanno lo stesso senso. «Come infatti il Padre ha la vita in sé stesso così ha concesso al Figlio di avere la vita in Se Stesso» (Gv 5, 26). Il Padre genera il Figlio senza il concorso di nessun altro principio, cioè verginalmente, e così «anche il Figlio dà la vita a chi vuole» e opera come il Padre: «Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole» (Gv 5, 21).

Bisogna riconoscere tuttavia che tutto ciò rimane per noi in grandissima parte un mistero incomprensibile. È molto più semplice capire il senso della verginità se si pensa che in questa vita la totalità della donazione va sempre legata all’esclusività. Una moglie si dà tutta al marito perché si dà solo a lui, e vale il reciproco. Chi voglia scegliere un modo di vivere per cui può darsi potenzialmente a tutti, a chiunque, deve scegliere la verginità, cioè di non darsi sessualmente a nessuno. Essere disponibili sessualmente per chiunque significa essere prostitute, cioè il contrario della verginità.

Rimane un ultimo tassello ed è comprendere che il principio formale per cui scelgo di vivere lo stesso celibato di amicizia di Gesù è l’amicizia con Lui.
Immaginiamo due amici, due ragazzi, che abbiano lavorato tutto l’anno per mettere da parte il denaro per regalarsi un viaggio estivo. Giunge il mese di giugno e a uno dei due avviene una disgrazia: i suoi genitori muoiono in un incidente ed egli, primogenito di quattro figli, si vede nell’obbligo di rimanere a casa. L’altro, nonostante il primo lo esorti a portare ugualmente a termine il progetto della vacanza, decide “per amicizia” di rinunciare e di aiutarlo ad affrontare ciò che la vita gli ha messo dinnanzi. Non esiste nessun obbligo da parte del secondo, nessun impegno, nessuna necessità: egli si comporta così liberamente, perché vuole. Per amicizia, appunto.
Quando parlo di essere discepoli di Cristo rimanendo per amicizia con Lui celibi come Lui, intendo qualcosa di simile a quanto ho appena raccontato con un esempio.
Forse non è balzato immediatamente agli occhi, ma quella che ho appena argomentato è la descrizione che corrisponde all’apostolo adolescente, Giovanni, il discepolo amato dal Signore: è la spiegazione del perché mi ha sempre colpito il chiaro riferimento all’apostolo Giovanni di san Josemaría – l’apostolo vergine e adolescente, così lo chiamava – quando parlava del celibato apostolico.

Mi sono sempre chiesto perché l’autore del quarto Vangelo indicasse se stesso in questo modo: amato, preferito. Che senso avrebbe farlo se tra lui e il Signore fosse intercorsa solo una relazione, sì particolare, ma in fin dei conti qualsiasi, come avverrebbe se si trattasse di mera simpatia umana? Gente come Girolamo e Cassiano, Agostino ed Efrem erano convinti che il particolare amore di Gesù per Giovanni nascesse dalla scelta di essere come il Maestro anche nell’aspetto del celibato, scelta che non è per nulla chiara negli altri apostoli. Proprio questa unicità di Giovanni starebbe, secondo alcuni, all’origine della predilezione che Cristo aveva per lui: il discepolo prediletto sarebbe quello che, come i celibi di cui sto parlando, avrebbe scelto di assomigliare al Maestro anche nel suo essere celibe. Vuole essere come Gesù in qualcosa che, come ricorda Paolo ai Corinti quando parla delle vergini (cfr. 1 Cor 7,25), non è tassativo e necessario per essere cristiani. La scelta di Giovanni sarebbe all’origine del particolare amore di Cristo per lui e far conoscere la causa della preferenza di Gesù sarebbe all’origine della decisione di autodefinirsi «discepolo amato» nel suo Vangelo. Sarebbe un modo di dire in maniera allusiva e discreta l’amore di predilezione di Gesù per chi compie la scelta del celibato.
Non sto parlando di ciò che è costitutivo e obbligatorio nel cristiano. Non sto parlando del comandamento dell’amore, del mandatum novum (cfr. Gv 13,34; 15,12), dell’amore alla Croce, o della fede nell’Eucarestia o nella Trinità. Giovanni vuole vivere il celibato non perché sia una caratteristica essenziale dell’essere discepolo di Cristo ma perché, amico di Gesù, innamorato di Gesù, vuole essere “come Cristo” in qualcosa in cui non è necessario essere “come Lui”. Sceglie di essere come Lui come segno di amicizia. In questo sta l’amicizia. E in questo modo, di amicizia in amicizia, si diffonderebbe il celibato cristiano o, comunque, si è diffuso in questo modo se penso a quelle persone che hanno scelto il celibato vivendolo secondo il carisma dell’Opus Dei.

Viene anche alla luce, forse sorprendentemente, perché Gesù nell’ultima cena dice «vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). Questa frase unisce inscindibilmente filiazione divina e amicizia perché le “parole” di cui parla il Verbo Incarnato non sono parole dette da un qualsiasi genitore al figlio, ma sono il Padre che mette l’intera Sua Vita nel Figlio e gliela dà come propria. È, all’infinito e nell’eternità, quell’affidare all’amico tutto il proprio cuore con tutto quello che ha dentro che definisce l’amicizia: per questo Gesù dice “vi ho chiamato amici”. E per questo filiazione divina e amicizia si uniscono inscindibilmente. Perché Gesù le unisce con quanto dice nell’Ultima Cena.
Quest’operazione, che avviene nell’eternità tra il Padre Vergine e il Figlio Vergine, è poi vissuta dal Figlio incarnato verso gli uomini e innanzitutto verso Giovanni, l’apostolo vergine che riposa sul petto di Gesù come Questi, fin dall’eternità, riposa nel seno del Padre (cfr. Gv 1,18). Gesù chiama questo rapporto “amicizia”: “vi ho chiamati amici perché…”. Così, in maniera misteriosa, di amicizia in amicizia, a cerchi concentrici, si diffonde la filiazione divina. Attraverso l’Uomo-Dio quanto avviene in Cielo giunge a quegli uomini che vogliono essere figli nel Figlio, suoi amici e, in Lui, amici tra loro.

Tratto da Teme d’Avui – Numero 58 (febbraio 2018)