
Le Lettere di Alessandra Bialetti – Non voglio raccontare, non mi chiedere
Capita. Capita che leggi e rileggi lo stesso brano del vangelo e la riflessione è sempre la stessa. Esattamente come con le persone quando ti fermi all’apparenza. Capita, poi, che entri a Rebibbia e ti accorgi di sfumature cui non avevi mai pensato. Ma andiamo per ordine. Nello slargo del reparto che sembra una piccola piazza dove tutti si salutano quando le porte delle celle si aprono e le persone si incontrano, arriva M., tra i più assidui alla messa domenicale. Ci sorridiamo e ci fermiamo a parlare. Questo volta più a lungo dato che il cappellano sembra “disperso”. E il ritardo che nella vita “normale” farebbe spazientire perché si va sempre di corsa, diventa invece una piccola benedizione, occasione di scambiare due parole, occasione di ricevere un piccolo dono. M. si avvicina, mi mostra un rigonfiamento nel tascone della giacca e mi dice di essere lì per onorare una promessa. E parte la trave nell’occhio di cui ci parla il vangelo. Parte la diffidenza, parte un “ingombro” che non permette di vedere quel gesto per ciò che è e per riceverlo. M. tira fuori una bottiglietta di aranciata e me la porge. In un attimo ricordo. Me l’aveva promessa la volta scorsa e ogni promessa è debito. Sorrido dentro di me, forse anche sollevata perché nella piazza di Rebibbia ti insegnano a non fidarti, ti insegnano che “non si sa mai”. Ringrazio e mi fermo a parlare. Parole che hanno il gusto del “più e del meno”, parole che si fermano davanti al diniego di M. di raccontare di più di sé. Dei suoi figli si, dei loro successi, della moglie che ama come nulla al mondo e dalla quale è riamato tanto che non passa una settimana senza che si sieda nella stanza colloqui anche con la febbre, del lettino fatto a mano per la nipotina con i cassettini e la minuscola spalliera cui ha dedicato tanto tempo. I figli sono i frutti buoni di un albero che ora è malato ma che sta cercando una via di guarigione: non vi è albero cattivo che produca frutto buono. M. è sorpreso, piacevolmente, scorre la sua vita e scopre, nonostante tutto, un buon raccolto. Ma poi la porta del suo racconto si chiude anche se con un sorriso, con gentilezza ma con decisione. “Non voglio raccontare oltre, non mi chiedere”. Lo rassicuro, ascolto solo ciò che vuole condividere ma non chiedo. Capisco il suo riserbo, il velo che cala sulla sua vita di cui non è orgoglioso, che vorrebbe forse dimenticare ma là dentro non si può. Non si è lì per dimenticare ma per ricordare, per fare memoria di un errore, per sperare di avere la forza di non ripeterlo più. La trave cade sul suo racconto che non è fatto di pagliuzze da togliere ma da un muro da tirare su perché è tanto difficile e doloroso guardarsi dentro, perché la trave dei propri sbagli fa vergognare, perché non si può raccontare ciò che fa male narrare anche a se stessi.
Scendiamo insieme. M., ormai pratico, distribuisce i fogli con le letture del giorno e i canti per animare la messa, il cappellano, sempre più “disperso”, tarda ad arrivare. S. è felice perché oggi ho portato una chitarra in più solo per lui e potremo suonare insieme. La messa inizia, la Scrittura viene condivisa da un ambone di fortuna tra il chiacchiericcio di sottofondo che purtroppo non manca. L’omelia parte da lontano: dalla genitorialità, dall’albero che produce i frutti a seconda di che albero sia stato. Guardo M. attento a non perdere nemmeno una parola. Gesù il giocoliere: solo poco fa nella piazza del paese parlavano di lui come albero e dei suoi figli come frutti. Sembra tutta una coincidenza ma, al caso non ho mai creduto e nelle pieghe della vita ho visto invece tante “Dioincidenze” ovvero irruzioni delicate o più decise di un Dio che non perde d’occhio i suoi figli e parla il loro linguaggio. Vedi M. che quella trave che metti a sicurezza del tuo passato e dei tuoi sbagli non è così impenetrabile? Ti impedisce di vedere il buono che un Dio fantasioso ha messo anche nella tua vita.
Sul Vangelo interviene A. un altro albero “cattivo” come si definisce. Viene da Tor Bella Monaca, Tor Bella per i romani, una zona di Roma molto difficile per poter crescere alberi buoni dai frutti buoni. Terra di frontiera. Non ti aspetteresti delle parole così perché la trave nell’occhio parla dei pregiudizi che ti porti dentro e con i quali cataloghi persone e situazioni. Invece A. ci tiene una lezione sulla genitorialità come nemmeno il più illustre dei pedagogisti o psicologi. “Ancora non sono padre anche se ho due figli di 9 e 14 anni. Mi porto dentro il senso di colpa dell’esempio che non sono riuscito a dargli, di un figlio che non vuole essere appellato con il mio cognome perché pesante da portare, di un figlio che prova rancore e rabbia, che si avvicina e si allontana perché non riesce a riconoscermi. E fa bene, perché ancora devo imparare ad essere padre, perché lo voglio fare, perché i miei figli sono un dono e non posso perdere altro tempo”. La trave si solleva non dall’occhio di A. ma dal suo cuore, e il suo racconto diventa corale, ognuno trova pezzi di sé perché tanti sono genitori e i più giovani forse lo saranno. Perché la trave fa meno paura se condivisa, è meno pesante da portare come il legno della croce di un Gesù che ha voluto aver bisogno del cireneo per intraprendere il cammino verso il calvario e far trionfare l’amore che non vede né travi né pagliuzze.
E allora questa trave? La trave solitamente regge un’impalcatura, può essere un pezzo portante di una costruzione. Mi vengono in mente le case terremotate in cui si scorgono ammassi di pilastri, creduti indistruttibili e invece schiantati sotto il peso del crollo. La trave che portiamo dentro ci serve. Ci protegge dal guardarci dentro e dal guardare l’altro per ciò che è, ma impedisce di metterci in discussione, di sentire quel vuoto che il legno copre, di percepire il non senso della nostra esistenza quando la vediamo ricca di errori. La trave copre e rimanda un’immagine di noi, quando viene giù, come nella piazza del carcere, ci mette a nudo e a contatto con i bisogni più profondi: momento di maledizione ma anche di benedizione. Ci vediamo come siamo, con tutto da ricostruire forse, ma nella profondità di ciò che potremmo diventare: figli, mariti, mogli, genitori, amici, compagni di cammino. Ognuno a faticare sulle proprie travi, ognuno responsabile del proprio pezzo di percorso in cui rimanere sotto l’impalcatura vorrebbe significare impedire a un amore più grande di farsi largo. Come un tarlo che rosicchia il legno notte e giorno nel silenzio e alla fine produce lo schianto. Ma sotto lo schianto la nuova realtà sa di albero buono, di radici da curare, da raddrizzare, da cingere con il filo di ferro perché crescano di nuovo dritte e sane. Sono responsabile della mia trave che anestetizza l’errore, lo sbaglio, lo ingrandisce a tal punto da farmi considerare un caso perso. Ma sono anche responsabile di aprire la porta al tarlo che, nel nascondimento, sta già all’opera per distruggere e riedificare: il tarlo di un amore che non vede il male ma le piccole, infinite pagliuzze dorate di cui la vita di ognuno è rivestita.
Allora M., non vuoi raccontare di te perché vedi solo la trave. Attendo che tu scorga le pagliuzze dorate e che aiuti anche me a scorgerle nella mia vita. E tu, tarlo, tarlo d’amore, continua la tua opera.
Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.