
Le Lettere di Alessandra Bialetti – Occhio per occhio, dente per…dente
Oggi voglio iniziare da qui, da questo titolo che riprende le parole del cappellano durante la Messa a Rebibbia. Ricorda l’Antico Testamento quando la legge venne data al popolo ebraico tramite Mosé. Una legge che non sanciva il diritto di farsi giustizia da soli ma invitava a riflettere sul male che poteva derivare dall’applicazione della vendetta e a dissuadere dall’usare la medesima misura di valutazione. Nel tempo si è incarnata invece in una rivendicazione, nel rispondere all’altro con lo stesso metro, è diventata la legge del taglione, che separa, crea frattura, scava il baratro tra le persone. La legge per cui sono legittimato a rispondere con violenza alla violenza subita. Oggi il cappellano gioca con le parole: la logica dell’occhio per occhio è perdente, non due vocaboli distinti ma uno solo: perdente. La logica della giustizia fatta con le proprie mani è perdente, la logica della vendetta è perdente nel senso che ci fa perdere l’occhio su di sé, su ciò che proviamo, su ciò che sono i nostri bisogni reali al di là di una facile giustizia del fai da te.
Allora come al solito ti diverti proprio Gesù. Ma ci hai pensato bene quando ammaestravi le folle a chi avresti potuto avere davanti nei secoli? A dove avrebbero potuto risuonare le tue parole? A quali muri avrebbero abitato? Io credo proprio di no. Forse non hai pensato che dentro un carcere le tue parole potessero sembrare assurde, fuori luogo, addirittura una presa in giro. Parlare di una giustizia differente in carcere come si fa? Molti sono lì dentro perché hanno cercato una giustizia del fai da te, molti sono lì perché traditi dalla “cantata” di un amico di cui si fidavano, molti sono dentro per una giustizia che non riesce a fare il proprio dovere fino in fondo. Il coro è unanime: “e tu parli di porgere l’altra guancia, di pregare per chi ci maledice, ci maltratta, per chi ci ha aperto le porte del carcere? Mi sa che non ci siamo. Queste parole non sono per noi che siamo dentro, altri ci dovevano pensare prima, ci chiedi troppo, ci chiedi un senso di giustizia al contrario: amare i nemici… ma come? Se noi li abbiamo sempre combattuti, se abbiamo visto nemici da tutte le parti e per loro siamo finiti dentro?
E come si fa? Scoprire un’altra logica, o meglio scoprire la logica che ci abita, quella forse nascosta, quella più difficile da mettere in atto. Sostituire alla legge del taglione la regola aurea: “Tutto quello che vorreste che gli altri facessero a voi, fatelo voi a loro”. Non facile. Ma si tratta di andare al nucleo di noi stessi, al bisogno profondo che alberga nel nostro cuore: essere amati, essere accolti, essere perdonati, ricevere un’altra possibilità. Mettersi nei panni dell’altro e scoprire che anche in lui cercano di farsi spazio tali pensieri e tali sentimenti, che l’altro è un “povero disgraziato” come me esposto alla stessa dose di rischio di fare del male, di prendere una strada sbagliata. Assumersi la responsabilità delle proprie azioni e le conseguenze: se semino rabbia e aggressività, risentimento e violenza non potrò raccogliere qualcosa di diverso. Se leggo nel cuore dell’altro lo stesso bisogno di accoglienza posso cercare, con fatica e cadendo di continuo, di gettare un ponte di comprensione, di compassione nel senso di patire con, di condividere lo stesso peso. L’altro da nemico da abbattere potrebbe diventare un compagno con cui camminare, da maledizione a benedizione, da disgrazia a risorsa. Certo Gesù che logica pazzesca. Tu ribalti tutto. E io che mi sentivo legittimato alla vendetta e a percuotere la guancia piuttosto che porgerla. Mi sa che non ce la faccio, Gesù. Mi sa che stavolta le tue richieste sono proprio sovradimensionate e assurde. Dietro le sbarre mi devo salvare non posso mica perdere tempo a capire cosa abita il cuore del mio compagno detenuto. Sono affari suoi. E invece no. Arriva un cappellano e ci racconta la bella favola della regola d’oro. Mah.. sarà. Forse è fuori di testa anche lui. O forse ci si potrebbe pensare.
E mentre ascolto e suono insieme al detenuto per cui poter riprendere in mano la chitarra anche solo per qualche minuto è un dono domenicale inaspettato, mi si fa largo un pensiero: e se provassi a mettermi dalla parte del nemico cosa proverei? Cosa potrei fare per togliermi dalle spalle la nomea di nemico? Come potrei cambiare la mia vita? Penso e ripenso. Potrei lavorare su di me, potrei rendere le mie parole accoglienti, i miei gesti ponti di apertura piuttosto che mura invalicabili, potrei rischiare a seminare una semente buona e cercare di coltivarla, potrei rendermi amabile pur sbagliando di continuo. Invece di pensare a quanto l’altro debba avere paura di me e del mio potere potrei provare a rinunciare a schiacciare e dominare, potrei rischiare l’impotenza. Non ci avevo mai pensato. Il lavoro è su di me, sulla trave che ho nell’occhio piuttosto che nella ricerca spasmodica della pagliuzza nell’altro.
E mentre i cancelli del carcere si richiudono alle mie spalle restituendomi al mondo esterno, popolato di tanti nemici e anche di me stessa quando lo sono, mi risuonano le parole di Simone Cristicchi al festival di Sanremo che oltre a kermesse nazional-popolare offre spunti di riflessione. “Ognuno combatte la propria battaglia, tu arrenditi a tutto, non giudicare chi sbaglia, perdona chi ti ha ferito, abbraccialo adesso, perché l’impresa più grande è perdonare te stesso”. Ecco: arrendersi. Alla propria fragilità, alla propria debolezza. Accoglierla anziché farne un’arma di offesa. Riconoscerla patrimonio comune di ognuno di noi, patrimonio che ci rende simili, tutti così impegnati a difenderci per paura di soccombere. E perdonarsi. La cosa più difficile. Avere misericordia di se stessi, di tutte le volte in cui vorremmo porgere una guancia e invece parte il pugno, di tutte le volte in cui il bisogno di essere amati diventa rivendicazione di ciò che non abbiamo ricevuto, di tutte le volte in cui credo che per me non ci sia altro seme da gettare che quello del dominio sull’altro.
Che dire Gesù? Mi sorprendi sempre, sei un simpatico “fuori di testa” e sai bene che io nelle righe e nelle regole riesco a stare poco. Ecco perché mi hai aperto le porte del carcere. Perché io continuassi a scoprirti e farmi affascinare dal tuo messaggio. Sarà pure una logica “per…dente” ma ci voglio provare.
Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.