
Le Lettere di Alessandra Bialetti – Quarcosa de vero ce deve pure esse
Rebibbia ci ricorda che siamo a Roma. Ce lo ricorda nel modo di esprimersi di buona parte dei detenuti che ci tengono alla loro “romanità” e con grande spontaneità comunicano ciò che sentono e pensano la domenica mattina durante la messa. Una messa dialogata, con il cappellano che non sale in cattedra con una verità in tasca ma che si pone a fianco, stimola la riflessione, si mette in gioco con la sua stessa esperienza di vita e li invita a prendere parte, a sentirsi parte. Una messa viva e vivace, non c’è che dire. Diversa dal clima a volte “ingessato” di certe comunità.
Si commentavano le letture del 17 febbraio con la vivacità e partecipazione di sempre, con una “platea” che sta diventando abbastanza abituale ma che registra sempre nuovi arrivi. La cappellina è un piccolo porto di mare che, in quanto tale, accoglie, offre riposo, sostentamento con un cibo di relazione e di spiritualità. Ormai ci conosciamo, ci sorridiamo e, in un certo senso, ci aspettiamo.
Si parlava della fiducia, in chi porla, in chi evitare di metterla. “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo”. Ecco, appunto. Ben lo sanno i detenuti che confidare in certi uomini non li ha condotti su un giusto percorso, che confidare in se stessi li ha portati proprio a tradirsi e a tradire. Quindi? Si può parlare di fiducia in carcere dove la parola tradimento, fallimento, caduta, errore, la fa da padrone? Potremmo chiudere bottega e tornarcene a casa, potremmo “liquidare” il discorso con confidate nel Signore e via. Ma non riusciremmo a toccare le corde profonde del loro cuore che, anche se tutti sembrano così sicuri di sé, attende risposte. Risposte di senso per le quali sono anche disposti a farsi provocare. Allora questa fiducia? Cosa vuol dire avere fede? Perché siete qui piuttosto che nell’area libera o in cella?
La risposta è disarmante, precisa e veramente provocatoria. Ma prima che per loro proprio per noi, per il cappellano, per i volontari: “Quarcosa de vero ce deve pure esse!”. Allora capisci che nessuno di loro è lì per caso, che non è lì solo per uscire dalla cella e incontrare gli altri per una chiacchiera, sebbene sia in parte anche così. Ma sono lì con delle domande, con degli interrogativi, per capire chi è questo Gesù che parla di fiducia proprio a loro che spesso dicono di averla tradita. Sono lì a scoprire quel “quarcosa” di vero, di autentico, di affidabile. Ecco l’affidabilità: il potersi appoggiare quando hanno sempre fatto di testa loro, il potersi sentire accolti quando hanno girato le spalle, il sentire che qualcuno si fida di loro a prescindere da tutti gli errori che possono aver commesso e per i quali stanno pagando. Qualcuno che decide ogni giorno di scommettere su di loro ancor prima di avere una risposta affermativa e che continuerà a farlo nonostante tutto. E allora penso che quella frase in romanesco mi può accompagnare tutte le volte in cui non riesco a vedere quel vero; quelle in cui il messaggio evangelico mi sfugge perché troppo esigente, e anche le volte in cui fidarsi di un Dio che non si vede diventa una scommessa controcorrente. Quella frase è anche per me e mi ricorda da vicino il passo evangelico in cui si chiede a Gesù dove lui abiti e la risposta è secca e lapidaria “venite e vedrete”. Venite a cercare quel “quarcosa”, quella verità che da qualche parte ci deve pure essere. Deve esserci: già questa è fede, fiducia, volersi mettere in cammino, non fermarsi alle negatività e agli errori ma voler scoprire il senso del proprio esistere. E durante il percorso imbattersi in compagni di viaggio anche dentro una cella fuori dal mondo. Anche in carcere sperimentare il senso delle beatitudini: beati i poveri, i sofferenti, chi è nel pianto, nella fame e nella difficoltà se ci sarà qualcuno accanto che condividerà il loro peso, che sosterrà la loro fatica, che si farà compagno, che sazierà la loro fame e la loro sete. Non è beato chi soffre, non esiste un Dio che vuole questo, ma chi in questa sofferenza trova la mano dell’altro, una parola, uno sguardo. Per arrivare a dire che si può anche essere benedetti se si confida in un uomo che sa accogliere la tua sofferenza. Perché in quell’uomo c’è l’impronta di Dio che si fida incondizionatamente della sua creatura. Come Francesco che in cappella dà la mano a Marco, non vedente, e lo porta a sedere accanto a sé condividendo la messa con lui.
Allora proprio sì: “Quarcosa de vero ce deve pure esse”. Andiamo a cercarlo.
Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.