Alessandra Bialetti / Blog | 02 Febbraio 2019

Le Lettere di Alessandra Bialetti – Quando cattolica vuol dire veramente universale

Rebibbia la domenica mattina sta diventando per me palestra di vita. Non c’è volta in cui io non varchi quella soglia, quella periferia, senza che ne esca, non dico cambiata perché sarebbe presuntuoso, ma con il desiderio di farlo, di convertire sempre di più la mia rotta. Oggi era una domenica speciale per i tanti avvenimenti della settimana: il ricordo della Shoah, la preghiera per l’unità dei cristiani, la giornata della gioventù a Panama, ma anche e tristemente un’altra tappa delle storie di emarginazione ovvero lo sgombero del Cara, centro di accoglienza di Castelnuovo di Porto a non tanti chilometri dal centro della cristianità. La parola sgombero è più efficace perché il termine chiusura non farebbe cogliere l’esodo delle tante persone, il loro vissuto, la loro sofferenza, i pianti dei bambini e dei giovani, la lunga fila di viandanti verso la stazione Termini con zaini e borse verso l’ignoto. Sgomberare è strappare radici di chi è già provato dalla perdita dei legami, come il carcere sembra essere luogo senza radici, senza storia, senza futuro. Invece si aprono le porte della cappellina e di storie ne arrivano quante se ne vuole. Il Signore è veramente un giocoliere: nella settimana della Shoah e della preghiera per l’unità dei cristiani porta nella sua chiesetta dissestata cattolici, musulmani, sinti, ebrei, credenti anche in altre pratiche come il buddismo. E mentre guardo questa varietà e ascolto le riflessioni che ognuno, dal suo punto di vista e dal suo cammino, condivide sulla parola di Dio, mi torna in mente un sacerdote che ha costruito i mattoni del mio percorso. Nel Credo recitiamo “credo la chiesa una santa, cattolica e apostolica” e ricordo questo sacerdote che vedevo pronunciare a bassa voce parole diverse. Troppa la curiosità per non chiedergli spiegazione di quel labiale rubato dai banchi della chiesa e la risposta la porterò sempre in me. Mi confidò: “io preferisco dire universale apostolica”. Ecco oggi l’ho potuto comprendere ancora meglio ma soprattutto l’ho potuto toccare: universale rende meglio l’idea che una chiesa se non è di tutti e aperta a tutti non può essere cattolica perché tradirebbe l’insegnamento di chi l’ha pensata, voluta e amata così. La parola universale ci suona più familiare, è un gergo accessibile rispetto al termine cattolica che sembra riservare la buona notizia solo a chi è a pieno diritto appartenente alla chiesa romana occidentale e con le “carte in regola”. Oggi nella cappellina di Rebibbia risuonava a più voci l’universale nelle diversissime esperienze di chi occupava quei banchi, nella lettura della Parola da parte di un detenuto che non aveva frequentato corsi da lettore ufficiale e che incespicava di continuo nelle sue stesse parole. Un ministrante che probabilmente in alcune comunità non verrebbe accettato come lettore perché incapace di proclamare nel giusto modo la Scrittura. Eppure universale è anche quel detenuto che si prepara in settimana la lettura più e più volte e poi arriva la domenica e si scusa più volte per i suoi errori. Universale è il detenuto sinti che afferma di guardarsi allo specchio e di non vedere un “bravo ragazzo” perché le apparenze ingannano e che capisce che dovrebbe cambiare vita. Universale è chi dice al compagno “dimmi che sto sbagliando “ perché in quelle parole sente l’attenzione e la cura di chi gli sta di fronte. Universale è il detenuto musulmano che prega il suo dio ma lo condivide con gli altri. E oggi universale è stato il detenuto ebreo, proprio nella settimana della Shoah. Eh no Gesù… ma quanto hai ancora intenzione di giocare con i nostri cuori già così in confusione? Vi assicuro che non è stato facile guardarlo negli occhi conoscendo e sentendo il dolore che i suoi fratelli hanno subito e sopportato per mano di altri uomini. Ti senti fuori posto perché ognuno è parte della stessa umanità, debole, fragile, contraddittoria, che fa del bene come del male, che giudica e non accoglie, che tenta di amare e non sempre ce la fa. Tutti nella stessa barca. Ecco di nuovo le barche, simbolo di una nuova Shoah, di un’unità che non può essere solo nelle preghiere, di porti chiusi, di parroci denunciati per aver adibito la chiesa a luogo di condivisione di calore, cibo e riposo. E il segno della pace non smetteva mai, tutti si muovevano, cercavano mani, occhi, sguardi, parole, pacche sulle spalle: non più deportati ma accolti in una chiesa universale. Una chiesa che risuona nel Padre Nostro che i detenuti stanno imparando a pregare nella sua nuova formula “non ci abbandonare nella tentazione”. Eh si. Non ci abbandonare alla tentazione di crederci i detentori della verità, di possedere la chiesa senza aprirla al più fragile e lontano, di non salire su quelle barche anche solo simbolicamente per sentire il dolore di chi le abita, di pronunciare il verdetto del “prima gli italiani” senza che venga contemporaneamente un “poi” che costruisca ponti, di considerarci dei favoriti senza mettere questo privilegio al servizio di chi ha una vita segnata fin dal grembo materno. Ancora dobbiamo camminare per realizzare quel corpo unico composto di tante membra diverse e tutte preziose che ci ricorda il vangelo di oggi.

Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.