Le Lettere di Luciano Sesta – Sfera non basta ma nemmeno guasta
Dopo aver opportunamente lasciato ai giudici l’accertamento delle responsabilità penali, prosegue il dibattito sulle radici culturali della tragedia di Corinaldo.
Per reazione alla tesi, un po’ catastrofista, secondo cui la musica superficiale e immorale del trapper Sfera Ebbasta sarebbe stata la principale causa della tragedia, una delle idee più frequentemente ribadite in questi giorni è che determinati fenomeni musicali di massa siano non la causa di un certo modo di vivere, ma un loro semplice effetto. Se Sfera piace, in altri termini, è perché nelle sue canzoni si rispecchia una società già orientata verso valori che in quella musica sono celebrati. Cantando la triade “sesso, denaro e potere”, insomma, Sfera si limiterebbe a dare visibilità agli ideali che molti già seguono a prescindere dalle sue canzoni. Se così fosse, tuttavia, non si capirebbe la preoccupazione adulta nei confronti dei messaggi, espliciti e impliciti, veicolati da certa musica, né l’inquietante corrispondenza che, in questi giorni, molti hanno riscontrato fra certi comportamenti irresponsabili e la superficialità menefreghista che emerge da alcuni testi di Sfera. Se questi testi sono solo uno specchio, che senso avrebbe rimproverarli di riprodurre fedelmente l’immagine che vi si riflette?
Che un fenomeno artistico e culturale non possa ridursi a semplice specchio di determinati comportamenti sociali, tuttavia, non significa che ne sia la causa, come si ritiene nell’ipotesi catastrofista citata all’inizio. Fra l’ascolto di una determinata musica e certe bravate, insomma, non c’è un semplice rapporto di causa ed effetto, come se ascoltare Sfera “inducesse” a fare certe cose, o come se certi gesti fossero commessi “perché” si ascolta Sfera. È però altrettanto innegabile che rivivere, in forma artistica, ciò che già si sperimenta dentro se stessi, ha sempre un effetto di “rinforzo”, che rilancia, con maggiore suggestione, ciò verso cui si è già orientati. È lo stesso meccanismo degli spot pubblicitari, che presentano, in forma esteticamente accattivante, la soddisfazione di desideri che già sonnecchiano nel consumatore, con l’effetto di ravvivarli. Se l’ascolto di una certa musica non produce determinate scelte, dunque, può però “consolidarle”, rendendo più difficile modificarle. Se certa musica pone problemi educativi, dunque, è perché non si limita a riflettere ciò che già esiste, ma contribuisce anche ad alimentarlo.
Al tema è dedicato, fra gli altri, un interessante pezzo di Alessandro D’Avenia, in cui è giustamente denunciato il bigottismo adulto di chi, dopo essersi riempito la bocca di valori, si guarda bene dal metterli in pratica, salvo poi protestare, inorridito, di fronte al frutto delle sue stesse mani: una gioventù disorientata, costretta a cercare, per mancanza di alternative, lì dove non potrà mai trovare. Il disprezzo adulto per i gusti dei giovani, che si nasconde dietro le invettive di questi giorni contro il trapper incriminato, rischia insomma di essere solo un patetico tentativo di esorcizzare il proprio fallimento di educatori. Oltre a suonare come uno smemorato sintomo dei propri stessi gusti giovanili, spesso altrettanto eccentrici di quelli che ora si denunciano.
Nel quadro di questa schizofrenia pedagogica, ecco il primo importante passaggio suggerito da D’Avenia: «Prima di scagliarci contro la musica [di Sfera], dovremmo chiederci perché i ragazzi la amano? Che cosa ci stanno dicendo?». Per chi ascolta un certo genere di musica, prosegue D’Avenia,
Se alcuni adolescenti cercano qui la vita è ora per provocare, ora per smascherarci, ora perché questo è l’orizzonte di desiderio che gli abbiamo indicato. Non serve censurare “a valle” la musica, bisogna risalire alle fonti che dissetano la sete del nostro cuore, per scoprire dove cerchiamo il senso da dare alla vita nostra e loro. Sfera non basta, ma se i ragazzi se lo fanno bastare è anche perché non abbiamo da mostrare un orizzonte di felicità alternativo e attraente.
Che fare, dunque? La proposta di D’Avenia è «l’ascolto musicale reciproco», in cui adulti e giovani possano condividere, senza giudicarli, i propri rispettivi gusti, creando così un comune spazio di riflessione, in cui si possa entrare in dialogo senza diffidenze reciproche.
Pur apprezzando e condividendo, in linea generale, la diagnosi culturale e la contestuale “terapia” educativa suggerita da D’Avenia, ho qualche perplessità sull’idea che ne rappresenta il presupposto. Si tratta dell’idea che, in faccende come questa, il disagio giovanile sia un riflesso di quello adulto. Può certo essere utile, farlo notare, quando si tratta di scuotere il torpore di certi cattivi educatori, incoerentemente a caccia dei propri stessi errori solo quando li vedono incarnati nei loro figli e nei loro alunni. Al di fuori di questi casi, però, io non credo che i giovani siano così scarsamente autonomi da non avere altri problemi che quelli ereditati dagli adulti. E non soltanto perché non credo nel determinismo pedagogico (“tale padre tale figlio”, “tale maestro, tale discepolo”), ma soprattutto perché parlare di “disagio” giovanile, in questo caso, è già una proiezione adulta su un vissuto che, di suo, si percepisce tutt’altro che “disagiato”. Dire che i giovani, ascoltando Sfera Ebbasta, ci stiano manifestando “in codice” il loro disagio, o, peggio, stiano fraintendendo ciò che desiderano davvero, è già un’incomprensione del loro vissuto. Una volta che si distingua il piano etico da quello estetico, il carattere volgare e moralmente vuoto dei contenuti delle canzoni ascoltate da tanti giovani, infatti, non è necessariamente un sintomo di disagio. Può anche essere un’evasione della cui leggerezza, anche se ancora adolescenti, si è perfettamente consapevoli, all’interno di un’esistenza che, di per sé, è ben lontana dal farsi assorbire totalmente da canzoncine alle quali non si attribuisce un’importanza morale che non hanno.
A questo punto il discorso educativo si fa però più sfumato, a mio avviso, di quanto non emerga dall’idea, proposta da D’Avenia, che “Sfera non basta”, e che «se i ragazzi se lo fanno bastare è anche perché non abbiamo da mostrare un orizzonte di felicità alternativo e attraente». Ho l’impressione che qui si stia sovraccaricando il punto, facendo entrare troppa “etica” nell’“estetica”. Ci sono giovani e giovanissimi, dalla vita relativamente sana, inseriti in famiglie relativamente normali, che ascoltano Sfera… e basta, nel senso che non si spingono oltre al semplice ascolto e a qualche parolaccia in più, senza per questo imitare il way of life che traspare dai testi ascoltati. Incoerenza? Con la musica succede. Ci si gode il ritmo e il suono, lasciando scorrere il contenuto. Si può ascoltare Wagner e, contrariamente al Woody Allen citato da D’Avenia, non avvertire la benché minima voglia di invadere la Polonia. Ma se così è, si potrà allora anche ascoltare Sfera senza per questo credere di poter essere felici soltanto drogandosi.
I miei due figli preadolescenti, spesso senza auricolari, e dunque di fatto coinvolgendo anche gli altri due più piccoli, ascoltano Sfera Ebbasta da almeno due anni. Anch’io, di conseguenza, ho al mio attivo un ascolto (passivo) di Sfera Ebbasta da almeno due anni. Conosco le sue canzoni, ho le mie (già manifestate) riserve sui contenuti sboccati e diseducativi dei testi, ma a furia di ascoltarne i ritmi, comincio anch’io a trovarli persino gradevoli. Come padre sbaglio tante cose, e il tempo mi dirà se è sbagliata anche l’impressione che ho per adesso: Sfera non basta ma nemmeno guasta. O meglio: nell’ambito puramente estetico in cui può essere mantenuto da chi ha già un orizzonte etico, Sfera basta. Non si ascolta Sfera, dunque, perché non si ha di meglio a cui aspirare eticamente nella vita. Lo si ascolta e basta. Dov’è allora che Sfera non basta? Nell’ambito etico della vita, appunto. Ma lì, per alcuni che lo ascoltano, non c’è mai entrato. Dimostrando che ascoltarlo non implica, di per sé, alcun disagio esistenziale.
Il discorso pedagogico, a questo punto, si ferma. O, per meglio dire, prosegue nella forma, elementare, del rispetto dei gusti estetici di un giovane figlio o di un giovane alunno, anche se a noi quei gusti non vanno giù. E anche se corriamo il rischio di esporli a una cattiva influenza. Altrimenti rischiamo di confondere il nostro disappunto estetico con un giudizio etico. E i giovani se ne accorgerebbero subito.
Quest’ultima precisazione è importante, a mio avviso, per vivere nel modo più adeguato l’ascolto musicale reciproco a cui invita D’Avenia. Il rischio, in caso contrario, è che la condivisione adulta dei gusti giovanili, a scuola e in famiglia, divenga strategica e, dunque, insincera, come se gli adulti dicessero: “solo ascoltando insieme ciò che piace ai nostri figli potremo aiutarli a capire che ciò che desiderano, in realtà, non è ciò che veramente desiderano”. Non possiamo farlo. Se davvero le bravate, i crimini e lo spreco della propria vita non dipendono dall’ascolto di una certa musica – visto che può gettar via la propria vita anche chi ascolta Bach –, allora dobbiamo poter accettare che i giovani ai quali piace quella musica non si stiano ingannando su ciò che davvero conta nella vita, ma stiano solo ascoltando Sfera. Che certamente non basta, ma nemmeno guasta.
Luciano Sesta, sposato e padre di quattro bambini, è docente di Storia e Filosofia nei Licei Statali Insegna Antropologia filosofica e bioetica all’Università di Palermo, ed è stato membro dell’Ufficio della Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo. Ha pubblicato numerosi saggi nell’ambito della teologia morale, della bioetica e dell’etica