Blog / Luciano Sesta | 28 Aprile 2018

Le Lettere di Luciano Sesta – Inferno (3)| Si può rifiutare Dio?

Nello scorso articolo, si è detto che la parabola di Lazzaro e del ricco Epulone è più un ammonimento a non chiudere il cuore al prossimo che una descrizione di quanto effettivamente accadrà ai dannati. Se le parole di Gesù hanno lo scopo di sollecitare la conversione, infatti, non avrebbe senso far vedere che, in mancanza di tale conversione, si subirà dopo la propria morte una pena senza averla prevista, come accade al ricco Epulone. Se così fosse, infatti, verrebbe meno la funzione deterrente della pena e la conseguente libertà di astenersi dalla colpa, e l’uomo, essendo punito “di sorpresa”, sarebbe essenzialmente ingannato. Facevamo notare, tuttavia, che anche in funzione di ammonimento, piuttosto che di descrizione di ciò che accadrà inevitabilmente, la parabola non ha nemmeno lo scopo di presentare la pena come un destino che ci si “sceglie” liberamente. Di fronte all’alternativa se godere un conforto limitato al prezzo di una pena eterna (il ricco Epulone), oppure subire un breve tormento in cambio di una felicità eterna (il povero Lazzaro), nessuno sceglierebbe infatti la seconda opzione. Certo, si potrebbe replicare che il dannato sceglie liberamente non la propria condanna, ma di rifiutare Dio. Anche questa risposta, tuttavia, è tanto frequente quanto problematica. Lo schema tradizionale secondo cui l’uomo sarebbe libero di dire “sì” o “no” a Dio è troppo semplicistico. Chi, nella penombra del tempo, può vedere Dio così chiaramente da poter dire che, comportandosi in un certo modo, stia rifiutando proprio Dio e non, per esempio, la falsa immagine che si è formato di Lui o che altri gli hanno trasmesso?

 

Qui è interessante il concetto, usato dal Catechismo della Chiesa cattolica (n. 1037), di «avversione volontaria a Dio». Poiché non parliamo né di angeli né di demoni, ma dell’uomo, quaggiù, sulla terra, un’avversione volontaria a Dio non può mai essere diretta, perché è sempre mediata dal peccato. La stessa parabola contenuta in Mt 25, 31-46 (“lontano da me… tutto quello che non avete fatto a uno di questi miei fratelli ecc. non lo avete fatto a me”), dimostra che Dio ci rifiuta non perché noi lo abbiamo esplicitamente rifiutato (“quando mai ti abbiamo fatto questo?”), ma perché non abbiamo seguito la voce della nostra coscienza (“ciò che non avete fatto a questi miei fratelli più piccoli”). Essere respinti da Dio nell’ultimo giorno pur non avendolo mai consapevolmente rifiutato nel corso della vita, tuttavia, non sembra compatibile con il senso complessivo della stessa Rivelazione, in cui si dice che non è Dio a rifiutare noi ma noi a rifiutare Lui. Chi non segue la coscienza morale, in effetti, potrebbe non sapere che sta rifiutando Dio. Pur essendo “oggettivamente” contrario a Dio, il peccato potrebbe non esprimere, “soggettivamente”, un esplicito rifiuto di Dio.

 

Quanto si è appena detto è confermato dalla stessa dottrina cattolica, per la quale il peccato non implica mai un rifiuto diretto di Dio. Definito dalla tradizione adversio a Deo et conversio ad creaturam (S. Agostino), il peccato, in effetti, non comporta che noi scegliamo il male in quanto è male (avversione diretta a Dio), ma in quanto vi scorgiamo un bene (la creatura), che però è meno importante del bene a cui lo preferiamo (il Creatore). Troviamo qui una chiara conferma teologica che la “libera scelta” dell’uomo riguarda il peccato, e dunque la colpa, non l’inferno, e dunque la pena. Chi sceglie di rubare non sceglie il carcere. Piuttosto lo subisce.

 

Ora, l’involontarietà della pena subìta riguarda anche la pena specifica associata al rifiuto di Dio. Il carattere “indiretto” e, soprattutto, oscuro, di questo rifiuto, è presente anche quando si ha a che fare “direttamente” con Dio, ma quaggiù sulla terra, ossia nell’unica dimensione che conta per il discorso sulla dannazione eterna. Si pensi ai casi di profanazione delle specie eucaristiche o alla stessa crocifissione di Gesù. Quale avversione più diretta e volontaria a Dio può esserci di quella dei suoi crocifissori? Eppure, riferendosi a loro, Gesù dice: “Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34). Preghiera che può essere riferita persino a Giuda, che può essere annoverato fra i crocifissori di Gesù per aver contribuito materialmente all’operazione. È vero che colui che tradisce il Figlio dell’uomo, sono parole di Gesù, “sarebbe meglio non fosse mai nato” (Mt 26, 24). Ma questo può ben essere un monito riferito all’atto del tradimento (“guai”, si dice non a caso, “a colui che tradisce…”), che non una profezia sul destino del traditore. Anche il più orrendo peccatore, attirato dal bene (i trenta denari) che vede nel male (tradire Gesù), se rispetto alla morale è pienamente responsabile, perché “sa quello che fa” (non si tradiscono gli amici), rispetto al Dio vivo e vero, e dunque anche rispetto al proprio destino eterno, potrebbe “non sapere quello che fa”.

 

Non si tratta di negare il concetto di peccato ma di capire cos’è che la tradizione cattolica chiama peccato. Si provi, per esempio, ad applicare al discorso sin qui svolto sull’inferno le tre classiche condizioni (materia grave, piena avvertenza e deliberato consenso) del peccato mortale (CCC, n. 1857). Quanto è “deliberato”, rispetto al proprio destino eterno, il consenso di una volontà comunque fragile come quella dell’uomo? Certo, perché si sia responsabili non è necessaria una libertà totale, essendo sufficiente un consenso parziale a un’inclinazione che sappiamo ingiusta. Ma visto che se potessimo scegliere di non avere l’inclinazione che ci spinge a dare quel consenso, noi lo faremmo, possiamo concludere che se a compiere il peccato siamo noi, non siamo (solo) noi a volerlo: “io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me” (Rm 7, 19-21).

 

L’uomo che commette il male, insomma, è responsabile, certamente, ma pensare che nel commetterlo sia anche pienamente libero di commetterlo e totalmente padrone di tutte le sue conseguenze, anche di quelle eterne e irreversibili, è chiedergli troppo. Soprattutto se queste conseguenze devono essere riferite direttamente al Dio vivo e vero, e non, semplicemente, all’immagine che ne abbiamo quaggiù sulla terra. Chi “vede” il Dio vivo e vero cade ai suoi piedi: “Signore mio e Dio mio” (Gv 20, 28). Chi non cade ai suoi piedi, è perché non lo vede: “se lo avessero conosciuto, non avrebbero crocifisso il Signore della Gloria” (1 Cor 2,8), e chi lo ha crocifisso, quando lo vede, si converte: “veramente quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15, 39).

 

L’obiezione a quanto si è appena detto potrebbe essere: noi però sappiamo, per fede, che l’inferno è la conseguenza di azioni contrarie alla nostra coscienza. Nella misura in cui compiamo liberamente atti contro la nostra coscienza, stiamo di fatto scegliendo liberamente la nostra rovina. Anche qui si tratta di una risposta troppo semplice. Chi, tentato dal male, pensasse all’inferno, si troverebbe di fronte all’alternativa fra un bene che, pur essendo falso, si impone con una certa evidenza (il peccato), e un bene che, pur essendo vero, appare più remoto e incerto (la salvezza eterna). E se è vero che chi cede alla tentazione è comunque libero e capace di resisterle con l’aiuto della grazia, è anche vero che, quando ciò non avviene, sarebbe improprio considerare l’oscura conseguenza di questa caduta come l’oggetto di una scelta: non si può far valere il dubbio su un Dio nascosto come se fosse il rifiuto di un Dio manifesto.

 

Né il “rifiuto di Dio” in punto di morte (CCC, n. 1033), peraltro, può dare all’uomo garanzie di maggiore chiarezza su quello che rimane un fitto mistero. Anche nel caso in cui si volesse considerare come una “colpa” un tale rifiuto, si tratterebbe pur sempre di una colpa temporale, a cui sarebbe ingiusto far seguire una pena infinita. Pensare che la morte possa rendere eterno e irreversibile uno stato di colpa che, maturato nel tempo e sotto le sue condizioni, è per natura rivedibile, o rendere assoluto un gesto che, per sua natura, è relativo, significa dare maggiore potere a scelte umane condizionate piuttosto che all’assoluta volontà salvifica di Dio. In questo modo, inoltre, viene meno ogni differenza qualitativa fra il tempo e l’eternità, perché il giudizio di Dio, qui, sarebbe solo una fissazione “notarile” di ciò che il tempo ha prodotto. Che Dio permetta a una colpa temporale di avere una pena eterna, significa ammettere che il male compiuto nel tempo è più forte del tempo, “costringendo” Dio a tenerne conto per l’eternità. Dio, insomma, sarebbe un supremo notaio, che distribuisce premi e punizioni, senza nemmeno le più elementari qualità del peggior giudice terreno, che, almeno, conosce le attenuanti.

 

Se le cose stanno così, ci si potrebbe domandare, che fine fa la nostra libertà? Perché mai l’uomo non potrebbe essere libero di rifiutare Dio? Dove starebbe la grandezza di Dio, se Egli non potesse creare uomini liberi, capaci di rifiutarlo? La salvezza, insomma, sarebbe una “costrizione”, un destino necessario? Come potrebbe ancora chiamarsi “amore” un rapporto con un Dio che non mi dà alcuna possibilità di rifiutarlo, e, dunque, di amarlo liberamente e non per costrizione? Nella prossima puntata, un tentativo di rispondere a questi interrogativi.

Questo articolo fa parte della raccolta:

Le Lettere di Luciano Sesta – Inferno (1)| Una (prudente) ipotesi sulla possibile salvezza di tutti
Le Lettere di Luciano Sesta – Inferno (2)| La parabola di Lazzaro e del ricco
Le Lettere di Luciano Sesta – Inferno (3)| Si può rifiutare Dio?
Le Lettere di Luciano Sesta – Inferno (4)| Ci si può dannare liberamente?
Le Lettere di Luciano Sesta – Inferno (5)| Senza inferno tutto è permesso?

 

Luciano Sesta, sposato e padre di quattro bambini, è docente di Storia e Filosofia nei Licei Statali Insegna Antropologia filosofica e bioetica all’Università di Palermo, ed è stato membro dell’Ufficio della Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo. Ha pubblicato numerosi saggi nell’ambito della teologia morale, della bioetica e dell’etica