Articoli / Blog | 29 Novembre 2017

Agi – Perché il Papa non ha nominato i Rohingya a Myanmar

Nel discorso di fronte ad Aung San Suu Kyi e alle autorità del Myammar, Papa Francesco, obbediente alla richiesta del cardinale di lì, non pronuncia la parola “Rohingya” con cui è identificato il noto gruppo etnico di religione islamica, ma si limita ad indicare in generale il giusto cammino verso la pace e la democrazia, beni preziosi perché consentono a tutti “nessuno escluso, di offrire il proprio legittimo contributo al bene comune”.

Certamente il primo motivo per cui il Papa non fa nomi è prudenziale: perché vuole custodire i deboli in un paese dove i militari sono ancora molto forti e pericolosi. Rimanere solo a questo livello di lettura mi sembra però riduttivo. La sua non è solo una prudenza declinata nel senso del “non rischiare”, dell’essere diplomatici e cioè poco coraggiosi. In questo “non indicare”, invece, c’è il coraggio della verità perché esiste solo una razza, quella dell’uomo. Evitare di fare nomi di gruppi etnici, di religioni, ed indicare solo lo scopo comune è il mezzo con cui il Papa abbatte ogni forma di ghettizzazione e di catalogazione. Non sono solo i cristiani a dover essere protetti ma anche i musulmani, perché sono uomini tutti. Perché sono gli uomini a dover essere protetti.

E, per lo stesso motivo, sono gli uomini, tutti, ad avere il diritto ed il dovere di contribuire al bene comune: sono uomo e pertanto nulla di ciò che è umano è lontano da me. Sono uomo, non solo per il DNA e per l’appartenenza biologica ma per la mia tensione alla verità, per il desiderio della conoscenza, per la mia responsabilità verso il bene comune come massima espressione del genere umano.

Nell’agosto scorso, invece, il Papa, in un Angelus, aveva nominato i Rohingya. Lo aveva fatto solo perché si trovava a migliaia di chilometri di distanza? Non credo, perché nel mondo globalizzato le distanze chilometriche vengono saltate dalla tecnologia. Io penso che il motivo fosse quello che sta alla base di ogni preghiera. Quando si prega non si prega per l’uomo o per l’umanità: si prega col nome e col cognome, si prega per gli abitanti di quel luogo colpiti da quel terremoto, si prega perché vada bene un esame o per la salute, per questo il Papa quando aveva pregato e chiesto di pregare per i Rohingya in quell’Angelus, li aveva nominati. E li aveva nominati anche perché sono di religione islamica ed è molto importante che i cattolici imparino che non si deve pregare solo per gli appartenenti alla propria chiesa, per me e per le persone che io amo, ma davvero per tutti.

Era importante fare sapere al mondo che il vescovo di Roma chiedeva di pregare per una minoranza musulmana su cui si era abbattuta la repressione dell’esercito dopo una serie di attentati contro la polizia. In quel caso il nome non era simbolo di appartenenza e quindi di esclusione verso chi “non appartiene”, ma diceva “io custodisco te”, io custodisco “proprio te”, io prendo nel mio cuore te che hai quel nome: in quella circostanza perciò il nome parlava di esclusività nella custodia in quanto oggetto della preghiera: se dico Rohingya, non dico”i musulmani” ma quei musulmani, quella gente, affidati a Gesù e Maria come figli e fratelli nell’umano e in quanto tali, lì sì, chiamati per nome.

Tratto da Agi