Articoli / Blog | 29 Agosto 2017

Agi – Ma quale Var, torniamo a far arbitrare i preti

Per molto tempo l’arbito era “l’omino nero” perché la divisa arbitrale era nera, o comunque il nero doveva essere il suo colore dominante.
Parecchie volte – l’ultima è stata alla radio questa mattina – ho sentito ripetere che la scelta del nero per l’arbitro sia da riportare a quando il calcio era il gioco prevalente negli oratori ed erano i preti, che allora vestivano rigorosamente di nero, ad arbitrare le partite dei ragazzi. Non so se questa tesi sia vera ma di certo, in epoca di polemiche per la Var, è una tesi affascinante. Un tempo i ragazzi crescevano pensando che la giustizia divina fosse interessata ai nostri calci di rigore: oggi sappiamo che a noi pensa l’elettronica e qualcuno ritiene che sia un modo nuovo delle lobbies delle squadre potenti per controllarci. Un tempo assegnare o meno un gol aveva il semplice prezzo di una Messa ora riteniamo che ci condizionino interessi miliardari. Chi riteneva che la moviola in campo facesse diminuire le polemiche è stato subito smentito perché è vero che le discussioni cambiano di contenuto ma non cambiano di quantità. Anzi forse aumentano. Perché ora non c’è solo da stabilire se il contatto ci sia stato o meno ma si deve anche capire quanto sia capace di parlare di “intenzioni” un’immagine alla moviola. Se ti muovi al rallenty appiattisci la violenza dell’impatto, è il calcione cattivo diventa uguale al contatto casuale. Oppure, se ti concentri sulla questione del rigore magari ti perdi quella del fuorigioco. E poi, perché gli allenatori, come accade in altri sport, non possono intervenire a chiedere la Var? E quale sarà la durata effettiva del gioco? È giusto o meno che partite decisive si concludano in momenti diversi, cioè quando un risultato è già acquisito è l’altro no perché in una partita la Var è stata chiamata tre volte e in un’altra nessuna?
Come si vede il calcio è il gioco più bello del mondo perché in esso, in realtà, si proiettano in piccolo tutte le nostre enormi tragedie quaotidiane. Un rigore negato è importante perché è metafora della promozione ingiustamente negata sul lavoro; un fuorigioco non visto è come una malattia che mi grazia o mi punisce. E tutto questo avviene non a livello di singoli, come accade in altri sport, ma a livello di collettività di squadra. Proprio come accade nella vita, quando vivere, sopravvivere, salvarsi o morire è qualcosa che può essere raggiunto o perso solo insieme, solo malgrado gli altri o solo grazie agli altri. Per questo la giustizia che pretendiamo nel calcio è assoluta. E per questo le polemiche sono infinite: proprio perché la giustizia assoluta che pretendiamo non è di questo mondo e quindi non arriva mai. E quindi non c’è. E quindi, mentre premia qualcuno delude sempre qualche altro. Il progresso tecnologico è inarrestabile ed è giusto che sia così. Però capisco anche chi – vista la posta in gioco – vorrebbe che l’arbitro fosse un sacerdote, un’asceta della giustizia, della regola e della legge. Non per nulla un tempo gli arbitri vestivano di nero come i preti (faccio mia questa bislacca ma affascinante ipotesi): dovevano infatti anche fare tutto gratis. Erano dilettanti che non potevano percepire denaro né regali, al massimo un rimborso spese. Perché essi dovevano essere l’incarnazione di quella giustizia divina che tanto ci manca. E quindi essere pronti a divenire il capro espiatorio di ogni errore. Martiri dunque, pronti a morire. E tutto gratis come si addice al martire. Basta Var, dunque: torniamo a far arbitrare dai preti.

Tratto da Agi