Articoli / Blog | 24 Agosto 2017

Agi – Amatrice, poi Ischia. Ma non è vero che siamo prigionieri del caso

La notte di un anno fa Amatrice ha smesso di essere il paese della pastasciutta ed è diventato il paese del terremoto. E neppure i più pessimisti potevano immaginare che avremmo commemorato quel terremoto con un nuovo terremoto, quello di Ischia. Nei giorni dei funerali del terremoto del Centro Italia, tutti i giornali, anche quelli più laici, avevano fatto la prima pagina con le parole di un vescovo, Pompili, il pastore di Rieti. Aveva detto: “Il terremoto non uccide: uccidono le opere dell’uomo”: e oggi di nuovo le sue parole vengono riprese dalla stampa nazionale. Allora si lamentava che nelle costruzioni erano state trascurate le norme antisismiche e oggi, lo stesso vescovo, ci ripete che per la ricostruzione non bastano gli eroi solitari ma che – detto con parole mie – è necessario rinascere come “sistema paese”.

Tutti ci siamo commossi al ragazzino che ad Ischia salva il fratello infilandolo sotto un materasso: è il classico colpo di genio italiano che fa la differenza tra la morte e la vita. Però poi ci chiediamo se noi italiani, dopo il colpo di genio, riusciamo ad andare anche oltre. A costruire in maniera organica, sistematica, come un paese che si organizza e decide sul serio che non è possibile continuare solo ad attendere incrociando le dita e sperando che la terra non tremi, ma che è necessario mettere a norma le proprie case superando le pastoie burocratiche e le nostre pigrizie e irresponsabilità personali. Il contenuto della preghiera di un credente dopo un terremoto deve riguardare anche la decisione di lavorare meglio e di più tutti insieme perché per un uomo non c’è nulla di spirituale che non sia anche materiale, corporeo, di carne. Non c’è preghiera per quanto accorata che non abbia bisogno di mani. Non c’è esortazione per quanto sentita che non abbia bisogno anche di gambe. Non c’è fraternità per quanto elevata e celebrata che non abbia bisogno di vicinanza.

Ciro – questo il nome del bambino cui alludevo – ha salvato il fratellino Mattias facendo cose piccole ma seguendo la logica della cura dell’altro: per questo quelle piccole cose sono diventate enormi. Ora, noi adulti dobbiamo compiere, con la stessa logica, gesti che mettano in atto rimedi radicali. Tutti sappiamo che il Giappone subisce terremoti infinitamente peggiori ma che lì le case non cadono: cosa aspettiamo a diventare come i giapponesi? Nessuna preghiera rivolta a Dio è vera preghiera se non diventa un’azione dell’uomo e rivolta all’uomo. Non è vero che siamo prigionieri del caso, del destino o “di una volontà superiore”. Siccità, incendi, terremoti sono tre parole che quest’estate si sono rincorse fin troppo e tutte e tre parlano del disimpegno dell’uomo. Chiunque di noi se, stando in vacanza, scopre al ritorno che la propria casa si è allagata o ha subito un furto, mette in atto dei rimedi perché non accada più. E invece noi italiani, come collettività, come sistema paese, dopo un anno di Amatrice, abbiamo ripetuto ad Ischia gli stessi medesimi errori.

La preghiera non è solo qualcosa di “intimo” perché nell’intimo del proprio cuore “tutto l’uomo” non ci sta. Non tutto è solo spirituale o interiore o privato. Dio ci chiede anche se costruiamo in modo pericoloso per l’uomo e per l’ambiente; se sotto il cemento, sotto le nostre case, lei – la nostra terra – c’è ancora e l’abbiamo rispettata; se l’amiamo ancora oppure ce ne ricordiamo solo quando chiediamo la stanza d’albergo con vista mare o monti.

Tratto da Agi