Blog / Materiali dottrinali | 26 Aprile 2014

Giovanni Paolo II – Il dono disinteressato

Qui il link alla storia di questa meditazione raccontata anche su Wikipedia. La versione italiana pubblicata sul cartaceo si trova a Come Gesù

Il dono disinteressato

Il creato come donazione

L’uomo può dire all’altro “Dio mi ha dato Te”?
Da giovane pastore di anime sentii dal mio direttore spirituale queste parole: “Forse Dio desidera darti questa persona…”- parole nelle quali si racchiudeva l’incoraggiamento ad avere fiducia in Dio e ad accogliere il dono che un uomo diventa per l’altro. Probabilmente all’inizio non mi resi conto di quanto fosse profonda la verità su Dio, sull’uomo, sul mondo che esse contenevano. Eppure il mondo, quel mondo in cui viviamo, il mondo umano è un ambiente in cui continuamente in vari modi si realizza lo scambio dei doni. Gli uomini vivono non soltanto uno accanto all’altro, vivono in diversi riferimenti, vivono uno per l’altro, l’uno per l’altro sono fratello o sorella, marito e moglie, amico, educatore o educando. Può sembrare che non vi sia nulla di straordinario. E’ una semplice immagine della vita umana. Quest’immagine si addensa in certi momenti ed è proprio lì, in quegli addensamenti che si realizza il menzionato dono dell’uomo all’altro.

Non soltanto gli uomini si uniscono tra di loro, è Dio che li dona uno all’altro. E in ciò si attua il suo piano creativo. Così come leggiamo nel Libro della Genesi, Dio creò il mondo visibile per l’uomo e gli disse di dominare su tutta la terra (cfr. Gn 1,28) e affidò al suo dominio tutto il mondo di creature inferiori all’uomo. Tuttavia, questo dominio dell’uomo sul mondo creato deve considerare anche il bene delle singole creature. Il Libro della Genesi ricorda che il Creatore vide che tutto era buono. Il creato è un bene per l’uomo se l’uomo è “buono” con le creature che lo circondano: con gli animali, le piante e perfino con le creature inanimate. Se l’uomo è “buono” con loro, se non lo distrugge immotivatamente, non le sfrutta insensatamente. Allora le creature creano per lui l’ambiente naturale diventando per certi versi sue “amiche”. Non soltanto gli permettono la sopravvivenza ma anche la possibilità di ritrovare sé stesso.

Dio, creando, rivelò la Sua Gloria e diede tutta la ricchezza creata del mondo, all’uomo affinché prima di tutto la godesse, vi “riposasse” (Norwid: riposava – si rigenerava), affinché vi ritrovasse Dio e in questo senso ritrovasse sé stesso. Oggigiorno parliamo spesso di “ecologia”, cioè della cura dell’ambiente naturale. Alla base dell’ecologia così concepita sta il mistero della creazione, che è una grande e continua donazione all’uomo dei beni del cosmo – sia quelli che egli sperimenta direttamente sia quelli che scopre per via della ricerca avvalendosi dei vari metodi scientifici. L’umanità sa sempre di più della ricchezza del cosmo nonostante non sempre riconosca che questa ricchezza proviene dalle mani del Creatore; esistono tuttavia dei momenti in cui gli uomini, anche non credenti, percepiscono la verità della donazione del Creatore e iniziano a pregare e confessano che tutto quanto è il dono del Creatore.

Leggiamo nel Libro della Genesi che l’ultimo giorno della creazione Dio chiamò alla vita l’uomo: maschio e femmina li creò (cfr Gn 1, 26-27). Creò, in questo caso significa ancor di più: donò reciprocamente l’uno all’altra. Donò all’uomo la femminilità di quell’essere umano che gli assomigliava, ne fece il suo “aiuto” e al tempo stesso donò l’uomo alla donna. Pertanto fin dall’origine l’uomo è donato da Dio all’altro. Quando leggiamo attentamente il contenuto del Libro della Genesi dobbiamo ritrovarvi in un certo senso l’inizio di quella donazione.

Ecco, l’uomo che si sente solo in mezzo alle creature che non gli somigliano, si trova poi di fronte a un essere che gli è simile. Nella donna creata da Dio ritrova “l’aiuto” che gli assomiglia (cfr Gn 2,18) e questo “aiuto” va compreso nel senso più fondamentale. La donna viene data all’uomo affinché egli possa capire sé stesso e reciprocamente l’uomo è dato alla donna con lo stesso obiettivo. Devono confermare a vicenda la propria umanità, meravigliandosi della sua duplice ricchezza. Di sicuro di fronte a quella prima donna creata da Dio l’uomo avrà pensato: “Dio mi ha dato te”. Lo espresse perfino: pur con parole diverse, espresse proprio questo (cfr Gn 2,23). La consapevolezza del dono e della donazione è chiaramente iscritta nell’immagine biblica della creazione. La donna è diventata per l’uomo soprattutto fonte di ammirazione. Insiema alla sua creazione si rivelò nel mondo ciò che Gertruda Von le Fort definì: “Das ewig Weibliche”.

2. Dono e affidamento

“Dio mi ha dato te”. Come si vede non erano parole casuali quelle che sentii ai tempi della mia giovinezza. Dio veramente ci dona le persone, i fratelli, le sorelle nell’umanità a partire dai nostri genitori. E poi, con il passar del tempo quando cresciamo, pone sulla via della nostra vita persone sempre nuove. E ognuna di queste è in un certo senso un dono per noi, di ognuna di queste possiamo dire “Dio mi ha dato te…” – questa consapevolezza diventa per ciascuno di noi fonte di ricchezza interiore. Sarebbe grave se non fossimo capaci di riconoscere la ricchezza che per ciascuno di noi è ogni uomo, se ci chiudessimo esclusivamente nel nostro proprio “io” perdendo l’ampio orizzonte che con il passar degli anni si apre davanti agli occhi della nostra anima.

Chi è l’uomo? Se il Libro della Genesi all’inizio dice che egli è immagine e somiglianza di Dio significa che in lui si trova la particolare pienezza dell’essere. Egli è – come insegna il Concilio – “l’unica creatura sulla terra che Dio desiderò per sé stesso” (Gaudium et Spes n. 24). Quindi tra l’essere per sé stessi e l’essere per gli altri esiste un legame molto profondo. Può diventare dono disinteressato per gli altri solo chi possiede sé stesso. In tal modo esiste Dio nell’indicibile mistero della sua vita interiore. Anche l’uomo fin dall’inizio è stato chiamato ad una simile esistenza. Dio perciò lo creò maschio e femmina. Invece creando la femmina e ponendola davanti agli occhi dell’uomo liberò nel cuore di quest’ultimo la consapevolezza del dono. “Ella è di me ed ella è per me e grazie a lei io posso diventare dono in quanto lei stessa è il dono per me”.

Tante volte ho sottolineato che nella donna creata si contiene in un certo senso l’ultima parola di Dio Creatore. Eppure la femminilità significa il futuro dell’uomo. La femminilità significa la maternità e la maternità è la prima forma dell’affidamento dell’uomo all’uomo. “Dio vuole darti un altro uomo cioè Dio vuole affidarti quest’uomo, e affidare significa che Dio ti crede, crede che tu sappia accogliere questo dono, che lo sappia abbracciare con il tuo cuore, che sappia rispondere a questo dono con il dono di te stesso”. In tal modo, creando l’uomo come maschio e femmina Dio trasmette all’umanità il mistero di quella comunione che è il contenuto della sua vita interiore. L’uomo viene introdotto nel mistero di Dio attraverso il fatto che la sua libertà si sottopone al diritto dell’amore e l’amore crea la comunione interumana.

Dio Creatore dell’uomo non è soltanto il Signore onnipotente di tutto quello che esiste ma è Dio della comunione. E’ proprio questa comunione il punto della particolare somiglianza dell’uomo a Dio. Attraverso l’uomo essa deve irradiarsi su tutto il creato affinché il creato diventi “il cosmo”, la comunione dell’uomo  con tutto ciò che è creato nonché la comunione del creato con l’uomo. Francesco d’Assisi è la figura nella storia in cui la verità sulla comunione del creato ha trovato la sua particolare espressione. Il luogo giusto della comunione è soprattutto l’uomo – maschio e femmina – che fin dall’origine Dio ha chiamato a diventare l’uno per l’altra dono disinteressato.

3. La sensibilità alla bellezza

L’amore ha tanti volti. Pare che il primo di essi sia il compiacimento disinteressato “amor complacentiae”. Dio, che è amore, questa forma di amore la trasmette sull’uomo – amore di compiacimento. Gli occhi del Creatore che abbracciano tutto l’universo creato, si focalizzano innanzitutto sull’uomo che è oggetto di un particolare compiacimento del Creatore. Si concentrano su entrambi, su ciascuno di loro: sull’uomo e sulla donna così come li ha creati. Forse con ciò si spiega perché il Libro della Genesi sottolinei che entrambi erano nudi ma non provavano vergogna (cfr Gv 2,25). In un altro luogo dirà l’Autore della Lettera agli Ebrei: “davanti ai suoi occhi tutte le cose sono nude e scoperte. E noi dobbiamo rendere conto a lui.” (Eb 4,13).

Dio comprende l’uomo e la donna in tutta la verità della loro umanità. In questa verità Egli stesso trova il suo compiacimento creativo e paterno. E questo disinteressato compiacimento lo innesta nel loro cuore. Li rende capaci del reciproco compiacimento tra di loro: la donna si rivela agli occhi dell’uomo come una particolare sintesi della bellezza dell’intero creato ed egli si rivela in modo simile agli occhi di lei. Il fatto che siano nudi non diventa in nessuna misura fonte di vergogna. Essa viene profondamente trasformata dall’amore che il Creatore prova per loro. Si potrebbe parlare qui di un particolare “assorbimento della vergogna attraverso l’amore”, e questi è l’amore dello stesso Dio. Questo amore permette loro di essere in reciproca confidenza e di godersi a vicenda come dono, con tutta semplicità e ingenuità. Permette loro di sentirsi donati della loro umanità che per sempre deve conservare quella duplice forma di maschilità e di femminilità.

Vale la pena rivolgere l’attenzione al fatto che le parole che costituiscono matrimonio non sono le prima parole che il Creatore rivolge all’uomo e alla donna. Parlano dell’unione corporea dell’uomo e della donna nel matrimonio come della prospettiva della loro futura scelta. L’uomo deve lasciare suo padre e sua madre e unirsi alla sua donna ed essere con lei “una cosa sola”, dando origine alla nuova vita (cfr Gn 2,24). La prospettiva della continuazione del genere umano è fin dall’inizio legata a quella costituzione creativa di Dio. Tuttavia la sola prospettiva ammette già l’amore di compiacimento. Devono trovare uno nell’altra il reciproco compiacimento, devono scoprire la bellezza di essere uomini e allora nei loro cuori nascerà il bisogno di donare l’umanità ad altre creature che Dio con il tempo donerà loro.

Sbaglierebbe molto chi pensasse che nella descrizione biblica dell’uomo domini la biologia. Il Creatore dice: “Siate fecondi, diventate numerosi, popolate la terra e governatela” (Gn 1,28) ma prima di tutto crea nei loro cuori la dimensione interiore dell’amoroso compiacimento e in quella dimensione domina soprattutto la bellezza. Si può dire che in tal modo insieme alla creazione della donna il Creatore libera nell’uomo tutta quell’enorme aspirazione alla bellezza che diventerà il senso della creazione umana, della creazione artistica ma non soltanto. In ogni creazione spirituale dell’uomo, si trova una certa aspirazione alla bellezza, la ricerca di sempre nuove incarnazioni, la ricerca di nuove fonti di quell’ammirazione che per l’uomo è indispensabile quanto il cibo e l’acqua. Norwid scriverà un giorno: “la bellezza esiste per meravigliare al lavoro, il lavoro per poter risuscitare”. Se l’uomo veramente risuscita attraverso il lavoro, attraverso i diversi lavori che fa, è proprio grazie all’aspirazione che gli dà la bellezza: la bellezza del mondo visibile, tra cui in modo particolare la bellezza femminile.

Questo concetto appare in tutta la storia dell’uomo, in particolare nella storia della salvezza. Il punto culminante di quella storia è la Risurrezione di Cristo e la Risurrezione è la rivelazione della bellezza asssoluta, la rivelazione preannunciata già sul Monte Tabor. E gli occhi degli apostoli rimasero incantati di questa bellezza, desiderarono rimanere nel suo cerchio e la bellezza della Trasfigurazione diede loro la forza per sopravvivere all’umiliante Passione di Cristo Trasfigurato. La bellezza è per l’uomo fonte di forza. E’ l’ispirazione al lavoro, è la luce che porta in mezzo alle tenebre dell’umana esistenza, che permette di superare con il bene ogni male, ogni sofferenza in quanto la speranza della risurrezione non può deludere. Lo sanno già tutti gli uomini, ogni uomo e ogni donna fin dai tempi in cui Cristo è risuscitato.

La Risurrezione di Cristo dà l’origine alla rinascita di quella bellezza che l’uomo ha perso attraverso il peccato. San Paolo parla del nuovo Adamo (cfr Rm 5, 12-21). In un altro luogo parla di una grande attesa del creato alla rivelazione dei figli di Dio (cfr Rm 8,19). Effettivamente, nell’umanità persiste il desiderio e la nostalgia di quella bellezza che Dio donò all’uomo creandolo maschio e femmina. Continua anche la ricerca della forma di quella bellezza la cui espressione ritroviamo in tutta la creatività umana. Se la creatività è una particolare rivelazione dell’uomo, allora è anche la rivelazione di quell’attesa di cui parla san Paolo. Quell’attesa è legata alla sofferenza dato che “tutto il creato soffre e geme come una donna che partorisce” (Rm 8,22).

La nostalgia del cuore umano di quella bellezza originale che il Creatore diede all’uomo è al tempo stesso la nostalgia della comunione in cui si rivelava il dono disinteressato. Eppure questa bellezza e comunione non sono un bene perduto per sempre – sono un bene da recuperare e in questo senso ogni uomo è donato all’altro, ogni donna all’uomo e ogni uomo alla donna.

4. La redenzione del corpo

Gli sforzi dello spirito umano legati all’aspirazione alla bellezza della persona e alla bellezza della comunione affrontano una soglia. Su questa soglia l’uomo inciampa. Invece di ritrovare la bellezza, la perde, ne crea soltanto un assaggio. L’uomo riempie con quegli assaggi di bellezza la sua civiltà che non è però la civiltà della bellezza perché non è generata da quell’amore eterno con cui Dio chiamò l’uomo alla vita e lo rese bello così come resa bella la comunione di persone: uomo e donna. Norwid che aveva una grande intuizione di questa verità scrisse che la bellezza è la forma dell’amore. Non si può creare la bellezza se non si partecipa a quell’amore, se non si partecipa a quello sguardo con il quale Dio fin da principio abbracciò il mondo da lui creato, e in quel mondo l’uomo da lui creato.

Tutto ciò non significa che la nostra epoca sia priva di persone che combattono con tutte le forze. Queste non sono mai mancate. Per questo il bilancio generale della civiltà umana è comunque sempre positivo. Lo costituiscono pochi ma grandi geni e santi. Tutti loro sono testimoni di come interrompere il cerchio della mediocrità e in modo particolare come superare il male con il bene, come ritrovare il bene e il bello malgrado tutte le degradazioni cui cede la civiltà umana. Come si vede, quella soglia su cui l’uomo inciampa non è insuperabile. Occorre solamente la coscienza che essa esiste e il coraggio di varcarla continuamente.

In che direzione bisogna varcare quella soglia? Direi – nella direzione di quella convinzione che “Dio dona all’uomo un altro uomo”, nell’uomo invece gli dona tutto il creato, tutto il mondo. Quando l’uomo scopre quel dono disinteressato che l’altro uomo è allora in qualche modo scopre in lui il mondo intero. Bisogna rendersi conto del fatto che questo dono può smettere di essere disinteressato nel cuore dell’uomo. L’uomo può diventare per l’altro oggetto di uso. Questo minaccia di più la nostra civiltà, in particolare la civiltà del mondo materialmente ricco. Allora il compiacimento disinteressato viene sostituito nel cuore umano dal desiderio di impadronirsi dell’altro e di usarlo. Tale desiderio è una grande minaccia non soltanto per l’altro ma prima di tutto per l’uomo che vi cede. Quell’uomo distrugge dentro di sé la capacità di essere dono, distrugge in sé la capacità di essere secondo la regola: “essere più uomini” e cede invece alla tentazione di essere secondo la regola “avere di più” – avere più stimoli, più emozioni, più piaceri, il meno possibile di valori veri, il meno possibile di creativa sofferenza per il bene, la minor possibile disponibilità a pagare con sé stessi per il bene e il bello dell’umanità, il meno possibile di partecipazione alla redenzione.

L’altra persona, la donna per l’uomo ovvero l’uomo per la donna, è un bene grandioso e indicibile proprio perché è redento. Spesso e giustamente la redenzione viene compresa nei termini di un grande debito che a causa del peccato grava sull’umanità. Ciondimeno essa è allo stesso tempo, o forse prima di tutto, la nuova donazione all’uomo e all’intera umanità di quel bene e bello che gli venne donato nel mistero della creazione. Nella redenzione tutto diventa nuovo (cfr Ap, 21,5). All’uomo in un certo senso viene ridata la sua maschilità, la sua femminilità, la capacità di essere per l’altro, la capacità dell’essere reciproco nella comunione. In questa prospettiva le parole “Dio mi ha dato Te” acquistano un senso tutto nuovo. Dio dona un uomo all’altro in modo nuovo attraverso Cristo in cui il pieno valore dell’uomo che egli ha avuto fin dall’inizio, che ha avuto nel mistero della creazione, si rivela nuovamente e nuovamente si realizza.

Ogni uomo reca in sé un prezzo inestimabile. Ottiene quel prezzo da Dio il quale lui stesso si è fatto uomo, ha rivelato la divinità affidata per certi versi all’uomo e ha creato un nuovo ordine di relazioni interpersonali. In questo nuovo ordine l’uomo ancor più è quella “unica creatura sulla terra che Dio ha voluto per sé stesso” (Gaudium et spes, n. 24) e al tempo stesso è quell’essere personale simile a Dio che pienamente può realizzarsi solo attraverso “il dono disinteressato di sé” (ivi). La redenzione è pertanto l’apertura degli occhi umani su tutto il nuovo ordine del mondo costruito secondo la regola del dono disinteressato. E’ un ordine profondamente personale, e al tempo stesso sacramentale. La redenzione ribadisce il “sacrum” dell’intero creato, conferma il “sacrum” dell’uomo creato maschio e femmina e la fonte di quel “sacrum” sta nella santità stessa di quel Dio che si è fatto uomo. Egli, essendo il sacramento di Dio presente nel mondo, trasforma il mondo nel sacramento per Dio.

Nel contesto della redenzione che è avvenuta attraverso il Sacrificio del Corpo e del Sangue di Cristo, diventa più trasparente “la sacralità” del corpo umano, anche quando quel corpo è completamente deperito o calpestato, così come era deperito Cristo durante la sua passione. Il corpo umano ha la sua dignità che deriva anche da quel “sacrum”. Sia il corpo dell’uomo che il corpo della donna. La redenzione realizzata nel corpo genera in un certo senso una particolare dimensione della sacralità del corpo umano. Questa sacralità esclude che esso possa diventare oggetto di uso.  E ogni uomo, in particolare ogni maschio, è il custode di questa sacralità e dignità. “Sono forse io il guardiano di mio fratello?” – domandava Caino (Gn 4,9), dando origine alla terribile civiltà della morte nella storia dell’umanità. Cristo si mette al centro di questa civilità, si mette in mezzo alla domanda di Caino e risponde: Sì, sei guardiano – sei guardiano della sacralità, sei guardiano della dignità dell’uomo, in ogni donna e in ogni uomo. Sei guardiano della sacralità del suo corpo, ella deve rimanere per te oggetto di culto. Allora godrai la bellezza che Dio le ha donato fin dall’inizio e lei godrà insieme con te, si sentirà sicura agli occhi di suo fratello, sarà felice del dono della sua femminilità fattole dal Signore”. E allora quella “eterna femminilità” (das ewig Weibliche) sarà nuovamente il dono intatto della civiltà umana, l’ispirazione della creatività e la fonte di bellezza che è stata fatta “per risuscitare”. Non per questo forse il corpo della donna diventa la fonte di tutte queste risurrezioni umane: la bellezza materna, quella da sorella, quella da sposa – quella bellezza che ritrova il suo particolare culmine nella Madre di Dio?

5. Totus Tuus

“Quanto sei bella amica mia!” (Ct 1,15). Se il Cantico dei Cantici è innanzitutto il poema sull’amore degli sposi umani, allo stesso tempo e con tutta la sua concretezza è aperto ad un’enorme quantità di significati. La Chiesa si avvale delle parole del Cantico dei Cantici in liturgia, soprattutto menzionando le vergini o le donne che hanno trovato la morte da martire per Cristo. Le parole riportate parlano soprattutto di una grande illuminazione della bellezza femminile e non soltanto e comunque non prima di tutto, della bellezza sensuale: parlano ben di più di quella spirituale. Si può perfino aggiungere che quest’ultima condiziona il primo. La sola bellezza sensuale non resiste di solito alla prova del tempo.

Questo è particolarmente importante per l’uomo a cui Dio dona l’altro uomo, come ho potuto sperimentare tante volte nella mia vita. Dio mi ha dato tante persone, giovani e vecchi, ragazzi e ragazze, padri e madri, vedove, sani e malati. Sempre, quando me li donava, al tempo stesso me li affidava, e oggi vedo che su ciascuno di essi potrei scrivere una singola monografia: sarebbe una monografia su quel concreto dono disinteressato che è l’uomo. C’erano tra loro persone semplici, operai della fabbrica; c’erano anche studenti e professori universitari, medici e avvocati; c’erano infine sacerdoti e persone consacrate. C’erano tra loro ovviamente uomini e donne. Una lunga strada mi ha portato alla scoperta del “genio femminile” ma solo la Provvidenza ha fatto sì che arrivasse il tempo del suo riconoscimento, per certi versi della sua illuminazione.

Penso che ogni uomo, a prescindere dal suo stato e dalla sua vocazione di vita, debba almeno una volta sentire le parole che ha sentito Giuseppe di Nazareth: “Non temere di prendere con te Maria” (Mt 1,20). “Non temere di prendere con te” significa fa di tutto al fin di riconoscere il dono che lei è per te. Temi solamente una cosa: di non appropriarti di questo dono, questo temi. Per tutto il tempo che lei rimane per te il dono di Dio stesso, puoi tranquillamente gioire di tutto ciò che quel dono è. Anzi, di più – dovresti fare tutto quello che sei ingrado di fare al fine di riconoscere questo dono per dimostrare a lei stessa che valore irripetibile è. Ogni uomo è irripetibile. L’irripetibilità non è una restrinzione, è invece la dimostrazione della profondità. Forse Dio vuole che tu le dica proprio ciò in cui consiste il suo valore irripetibile nonché la sua particolare bellezza. In questo caso non temere il tuo compiacimento. L’amore di compiacimento (“amor complacentiae”) è, e comunque può essere, la partecipazione a quell’eterno compiacimento che Dio ha nell’uomo da lui creato. Se temi giustamente, affinché il tuo compiacimento non diventi una forza distruttiva, non temerlo però in modo anticipato. Saranno i frutti a dimostrare se il tuo compiacimento è creativo.

Basta guardare tutte le donne che appaiono intorno a Cristo, a partire da Maria Magdalena e dalla Samaritana, passando attraverso le sorelle di Lazzaro fino alla più santa, alla benedetta tra tutte le donne (cfr Lc 1,42). Non devi mai giudicare il senso del dono di Dio. Prega con tutta umiltà di saper essere custode di tua sorella, affinché nei limiti di radiazione della tua maschilità, lei stessa ritrovi la strada della sua vocazione e la santità che le è destinata nei piani di Dio. Enorme è la forza spirituale della donna. Una volta liberata, osa un’intrepidezza ben lungi più grande, una tale prontezza per i sacrifici a cui a volte un uomo fa fatica a pensare. Proprio in questa consapevolezza la Chiesa ripete le parole del Canto dei Cantici: “O come sei bella, amica mia!”.

E’ giusto infine aggiungere che nella presente meditazione sul “dono disinteressato” è nascosto per certi versi un lungo  cammino, un “itinerario” interiore che portava dalle parole che sentii nella mia giovinezza dalle labbra del mio direttore spirituale fino a quel “Totus Tuus”[1] che mi accompagna continuamente da tanti anni. Lo scoprii nei tempi dell’occupazione lavorando come operaio alla Solvay. Lo scoprii attraverso la lettura del “Trattato sulla preghiera perfetta alla Madre di Dio” di San Luigi Grignon de Monfort. Era l’epoca in cui avevo già scelto il sacerdozio, e lavorando fisicamente, al tempo stesso studiavo filosofia. Mi rendevo conto che la vocazione sacerdotale avrebbe messo sulla mia strada tante persone, che Dio mi avrebbe affidato in modo particolare ciascuno e ciascuna di loro: “donerà” e “affiderà”. Proprio allora sorse il grande bisogno del mio affidamento a Maria che si esprime nelle parole “Totus Tuus”. Esso non è tanto una dichiarazione quanto una preghiera. Affinché puro fosse il mio sguardo, il mio udito, la mia mente. Affinché tutto servisse alla rivelazione del bello che Dio dona agli uomini.

Mi ritorna alla mente la citazione del “Pianoforte di Chopin” di Norwid:

Fui da Te in quei penultimi giorni
Di quel filo incompiuto –
Pieni come Mito.
Pallidi come aurora…
Quando la fine della vita sussurra all’inizio:
“Io non ti logorerò – no! – Io evidenzierò…”

Non logorerò…, non ditruggerò…, non diminuirò…, evidenzierò… “Totus Tuus”. Si. Bisogna essere totalmente dono, un dono disinteressato, per riconoscere in ogni persona quel dono che ella è. Per ringraziare il Donatore del dono di quella persona.

 

Vaticano, 8 febbraio 1994

[1] Il Totus Tuus di Giovanni Paolo II “Ci fu un momento in cui misi in qualche modo in discussione il mio culto per Maria ritenendo che esso, dilatandosi eccessivamente, finisse per compromettere la supremazia del culto dovuto a Cristo. Mi venne allora in aiuto il libro di San Luigi Maria Grignon de Monfort che porta il titolo di Trattato della vera Devozione alla Santa Vergine. In esso trovai la risposta alle mie perplessità. Sì, Maria ci avvicina a Cristo, ci conduce a Lui, a condizione che si viva il suo mistero in Cristo (…). L’autore è un teologo di classe. Il suo pensiero mariologico è radicato nel Mistero Trinitario e nella verità dell’Incarnazione del Verbo di Dio (…). Ecco spiegata la provenienza del Totus Tuus. L’espressione deriva da san Luigi Maria Grignon de Monfort. E’ l’abbreviazione della forma più completa dell’affidamento alla Madre di Dio che suona così: “Totus tuus ego sum et omnia mea tua sunt. Accipio te in mea omnia. Proebe mihi cor tuum, Maria” (Trattato della Vera Devozione, n° 266) “Sono tutto tuo e tutto ciò che è mio è tuo. Ti prendo per ogni mio bene. Dammi il tuo Cuore o  Maria.” (cfr  Dono e Mistero, pp. 38-39).

[2] Orig in pol: “Bylen u Ciebieu le dniprzedostatnie, Niedocieczonego watku – Pelne jak Mit, Blade, jak swit… – Gdy zycia koniec szpece do poczatku:… Nie stargam Cie ja – nie! Ja u-uwydatnie!”