Le Lettere di Paolo Pugni – Non ho (più) voglia di immergermi in un gomitolo di dolori
Certe canzoni ti restano dentro come le poesie, segnano la vita ch’è stata –la tua, quell’attimo scolpito dentro, la sua: quando l’ha messa su carta- e si intessono con quella che sarà. Così ogni tanto ci inciampi dentro e te ne stupisci che disegnano ciò che provi con una saggezza profonda, che risale indietro fino al cuore e nel tempo, e dicono per te molto più che mille parole.
Lasciargliela lì come fosse un gioco, questa vita che è niente ma non è poco è un verso di una canzone di Vecchioni. Ninni se ricordo bene. Vecchioni è autore importante per me, la colonna sonora del liceo, dove peraltro anche lui era perché ci insegnava e lo conoscevo e l’ho poi intervistato più volte. È come un parente, un amico, un po’ discolo, ma amico.
E queste parole, insieme ad altre, sempre sue, che parlano del padre, e a me il mio manca molto, papà lasciamo tutto e andiamo via, papà lasciamo tutti e andiamo via, mi suonano spesso nell’orecchio in questi giorni.
Che certi momenti vorresti veramente prendere su e andare a chiuderti in un mondo solo tuo e di chi ami, lasciatemi stare, basta, andate via…
E se sfogli il giornale in questi giorni, scegliete quello che volete, nella forma che preferite, ti vien proprio da dire basta, e prendertela forte con Dio: “Signore, ma che cosa vuoi ancora da me?”. Perché più forte che lo sdegno e la paura ti vien da vomitare la disperazione, quel senso che soffoca il naufrago quando molla il legno e si lascia andare, esausto di combattere, meglio la morte che lottare ancora, e scende lento, quasi dolce, sotto l’acqua.
Basta. Non tentarmi più, vieni in mio soccorso.
Fiumi di salmi buttati via, perché adesso Tu taci mentre gli altri urlano e ridono e festeggiano.
E sotto ci siamo noi, sotto i loro piedi, calpestati, derisi che è ancora peggio.
Basta.
Lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata.
Che anche dove cerchi ristoro, pace, conforto, amicizia trovi carta vetrata e pialla e lima, che ti gratta la pelle dell’anima: anche qui, che ormai penso che qualcuno mi contraddirebbe temo per il gusto di farlo anche se parlassi degli stati di transizione a sedia o barca nelle reazioni aldoliche con enolati di boro, che era poi il titolo della mia test di laurea. Che c’è un vecchio che resta e diventa tradizione e un vecchio che passa che diventa talvolta vergogna. A volte facciamo fatica a distinguerli. Mentre altre volte siamo così intrappolati nella realtà che ci fingiamo intorno per non contraddirci da voler disfare la verità senza ritegno.
Poi.
Poi.
Poi.
Poi leggi di un gesto banale, rappreso dentro una piccola storia, uno squarcio di vita, quelle che vedi mentre prendi la metropolitana, mentre aspetti il tram e piove e fa freddo e vorresti essere altrove, magari in Tunisia dove quel poster che qualcuno ha già scarabocchiato mostra un mare di velluto ed una palma. E ripensi a quando quelle parole le hai sentite per la prima volta. Ecco. Un gesto, piccolo, banale, magari automatico, senza accorgersene: una moglie anziana che mette a posto il bavero del marito, che mi immagino austero, ma distratto. Ecco. Un gesto così. Che se dentro questo riesci a leggerci un amore infinito, che è vero è tenace e fedele e senza inganni, se dentro questo riesci a leggerci la carezza di Dio, che ti dice “vedi che ci sono? Che non ti lascio” Lo vedi come agisco io? Non spiano piazze, raddrizzo colletti”. Ecco se ce la fai, allora riprendi in mano la spada per difendere il verde dei prati in primavera.
Commenta nel post o nel forum in Le Lettere di Paolo Pugni