
Le Lettere di Paolo Pugni – L’ingresso
Che dà ormai nel salotto di casa. Dove accogli le persone. La quarta stanza è questa, e Al e Zheimer sono andati a farsi un giro così mi hanno lasciato qui con la mia memoria. Ritrovata. Senza neanche il bisogno di una madeleine. Basta quella roba impronunciabile che propone Sandokan.
E qui, seduto sul divano, a guardare fuori, ti viene in mente che l’errore più grande che posso fare è di continuare a mettere me stesso al centro di questa vita. Come se ne fossi non tanto il protagonista, ma l’autore. Non è una questione di chi muove i fili, quando di chi prende i meriti. Di chi sta realmente sotto i riflettori. Chi si sente importante.
Perché alla fine è tutta una questione di sentirsi il centro di gravità permanente attorno al quale il mondo ruota. Tutti.
È una sorta di delirio di onnipresenza che ci colpisce tutti. Uno parla e sta parlando a me, o di me. Uno scrive e sta riferendosi a me, uno si lamenta e ce l’ha con me.
Quindi da un lato abbiamo l’impressione di essere sempre il cuore dei pensieri altrui, delle riflessioni altrui, dei post altrui, visto che questo fenomeno è vivace anche nei blog, anche qui.
Dall’altro giudico il mondo dalla mia angolatura.
C’ha proprio frega Cartesio quando ha ribaltato la realtà sposandola da vera in sé a sottoposta al mio pensarla. C’ha proprio preso in giro e ci ha trasformato in monadi così cupe e autoreferenziali che la politically correctness, che del cogito è figlia diretta, è l’eterogenesi dei fini, la più sublime e raffinata punizione, atroce nella sua crudeltà.
Non si può più dire nulla perché tutto diventa offesa, dato che ormai noi siamo giudizio del mondo.
Siamo misura e giudice: che se io dico “Pirlo non fare il pirla” perché ha piantato la moglie e figli per una sciacquetta biondastra subito arriva l’amico ferito che mi dice di non giudicare perché non posso conoscere le dinamiche famigliari. Che se dico che è bello l’amore di coppia fedele arriva un’altra che è stata brutalmente piantata dal marito, come la moglie di Pirlo, che mi dice che offendo i suoi sentimenti.
E così via.
E qui uguale. La nostra esperienza non solo è verità, cosa peraltro difficilmente smentibile: è indubbiamente verità, ma diventa l’unica verità, misura della valutazione di tutto.
Che mi ruba la possibilità di ascoltare e capire, anche la mia vita, per contrasto con quella altrui, e insieme andare verso quella verità che ci supera e che è in sé vera, non perché io le regali questa dignità. Che non ne ha bisogno.
E allora seduto su questo divano, devo alzarmi per spalancare la porta e fare entrare le periferie qui dentro casa mia, anzi andare loro incontro, ascoltare queste situazioni che mi interrogano: penso alle descrizioni dei matrimoni, delle famiglie, che ho letto queste settimane sui social dove sono presente e anche qui, sul forum, a inseguire Paci e intessersi con la sua vicenda: che non lo capiamo noi, ma siamo come costruttori di cattedrali che ci troviamo nel mezzo della creazione di un romanzo e con il personaggio e l’autore ci parliamo, interagiamo, confusi e felici, irati e ostili, ma come se fosse la vicina di casa o una parente. E così scopri che ci sono situazioni grigie, così lontane da quella che vivo, non perché qui si sia più bravi, semmai più colmati di grazia immeritata, non so. Di mogli ingobbite, mariti incapaci di fare complimenti, donne che meditano la fuga affascinante dal bastardo che sa sorridere e ascoltare al momento giusto per un pomeriggio di passione senza amore; uomini che pèrdono il senso del perdòno e vivono del loro risentimento, che non negano mai in abbondanza a chi li ama di più. E questa roba qui mi deve interrogare per farmi capire come gli altri sentono, comunicano, pensano, respirano. Mica sempre come me.
Il salotto ci sta per accogliere, non il vomito della televisione, ma il dolore di chi si vuole e si deve amare. Che raccogliere il dolore, in silenzio, solo abbracciando, ci rende ricchezza cento volte tanto.
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