Blog | 11 Novembre 2011

CELIBATO E CORPOREITA’

Nel numero 604 di «Studi Cattolici» Mauro Leonardi scrive un articolo intitolato L’amicizia e il celibato apostolico. È un estratto del suo libro, avvincente ed originale, Come Gesù (sottotitolato L’amicizia e il dono del celibato apostolico, Ares 2011). Il breve saggio ne ribadisce i punti principali anche per chi non si fosse presa la briga di leggerlo. Impianto robusto. Chiaro. Nelle parti finali anche poetico. Celibato laicale vuol dire celibato apostolico. Senz’altra consacrazione che il battesimo. Celibato significa essere come Gesù. Vergine. Celibe.
E basta. Nessun altra specificazione. Nessun risvolto simbolico. Né il richiamo escatologico del religioso, né la raffigurazione analogica dello sposalizio Cristo-Chiesa del sacerdote.
Solo un dono di Dio. Per il laico un grande dono, come quello dell’apostolo Giovanni che segue Gesù in tutto e per tutto, fino nel celibato. Giovanni il prediletto al quale viene consegnata Maria Vergine e nel
quale, sotto la Croce, viene considerato tutto il genere umano. L’amore celibatario è trascendente, grande, umano e divino: da Dio si diffonde agli altri uomini quale amore di amicizia («vi ho chiamati amici» Gv 15,15; «Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i suoi amici» Gv. 15,17-19). Ossia, apostolato.
In margine al pensiero di Mauro Leonardi possono ritornare opportune alcune considerazioni sul celibato
in relazione all’antropologia della corporeità.
Basta seguire il canovaccio offerto dal beato Giovanni Paolo II nelle sue lezioni del mercoledì degli anni ‘79 e seguenti e i suoi insegnamenti sulla teologia del corpo a proposito del matrimonio ). Gran parte di questi documenti sono stati raccolti e riassunti nel volume: Uomo e donna lo creò (Città Nuova Editrice/ Libreria Editrice Vaticana, VI ed. Maggio 2003).
CORPO

Con il celibato il corpo umano assume tutta la sua dignità di fronte all’uomo e di fronte a Dio. San Paolo è esplicito: «Glorificate Dio nei vostri corpi» (1Cor 6,19). Non si può intendere il celibato se non si pensa al corpo, quel corpo umano creato da Dio e da lui predisposto per l’incarnazione. Le parole che fenomenologicamente lo descrivono sono esplicite. Il celibe non si sposa. Il celibe non ha rapporti sessuali. Perché lo vuole. Perché lo sceglie. Perché trasferisce nel celibato tutto l’eros, tutta la carica affettiva destinata ad un consorte. La rivolge a Dio. Tramite Dio, al prossimo: e si rende in tal modo apostolo.
Il celibato, considerato come puro fenomeno a sé stante può avere letture diverse, ovviamente anche negative, riduttive e parziali, se esaminato con la prospettiva psicologica, psicopatologica, sociologica. Un fenomeno anomalo. Pertanto, non si può prescindere da un’antropologia considerata in riferimento alla rivelazione sul significato del corpo.
Occorre rivisitare san Paolo. Soltanto alcune citazioni.
1. Romani 6,13-14: «Non offrite al peccato le vostre membra come strumenti di ingiustizia [….], ma le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia».
2. Galati 5,24-25: «Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni».
3. Romani 1,24-25: «Tanto da disonorare fra loro i propri corpi perché hanno scambiato la verità di Dio con la menzogna».
4. 1 Corinti, 6,13-19: «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sapete che chi si unisce alla prostituta forma con essa un sol corpo? I due, è detto, formeranno una sola carne. Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito […]. Chi si dà all’impurità pecca contro il proprio corpo. Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi?».
Non si tratta di metafore né di simboli. È proprio il corpo, questo corpo che abbiamo, il tema del discorso paolino. Il corpo riveste in conseguenza un ruolo centrale nell’economia della salvezza di ogni uomo.
Secondo l’antropologia fenomenologica (derivata da pensatori quali Husserl, Binswanger, Scheler, Stein) il corpo rappresenta il nostro io. Non posso riconoscere, immaginare, ricordare una persona se non raffigurandomi il suo corpo. L’antropologia della corporeità afferma che la nostra identità, la nostra stessa individualità di persone umane hanno nel corpo il loro punto di partenza. «Siamo corpo». Noi stessi. Irripetibili. Non c’è astrazione che tenga. Soltanto la conoscenza sensibile e l’esperienza diretta hanno valore e significato. «Abbiamo» un corpo invece allorquando lo oggettifichiamo o ne consideriamo una parte, un organo, un apparato. A voler seguire la lezione dell’antropologia fenomenologica, tutto ciò che è propriamente umano (das menschliches Da-sein) – e quindi il corpo in primo luogo – «trascende» (si tratta dell’attributo dell’«intenzionalità» di Franz Brentano), va oltre, si supera. Ci progettiamo oltre la nostra morte e intendiamo lasciare ricordi e tombe; oltre la nostra specie e voliamo, oltre le nostre possibilità e confezioniamo utensili e macchine, oltre la nostra aggressività e produciamo armi, ed infine, oltre i limiti della nostra individualità e ci relazioniamo nell’amore con energie corporee e spirituali superando i nostri confini in varie forme di comunione ed in diverse nuove modalità esistenziali.
Bisogna tener presente che tale ineliminabile e squisitamente umana predisposizione alla trascendenza sta, nelle sue origini primordiali nel corpo sessuato, ossia nella sua disponibilità alla relazione. Da questa constatazione si può già intravvedere la portata esistenziale del celibato.
Andar oltre, trascendersi vuol dire naturalmente travalicare lo stesso limite somatico: così l’io trascende il corpo, ad esempio, mediante l’abito che supera il semplice proteggere e coprire per esprimere un messaggio della persona. L’io però non comprende tutto il corpo ed il suo intimo sentire (il cosiddetto sé intrapsichico, le emozioni profonde, gli impulsi, le tendenze, quel nucleo profondo per lo più inconscio, quel «cuore» dell’uomo che solo Dio conosce). Il corpo possiede dunque un suo linguaggio. Il linguaggio dei bambini prima della parola. Il linguaggio con cui gli sposi esprimono il loro vero e profondo consenso al di là delle parole. Il linguaggio del celibato.

SIGNIFICATO SPONSALE E SACRALE DEL CORPO.

Nel corpo che si relaziona e che entra in comunione si trova già una certa somiglianza con Dio. «Un riflesso di questa somiglianza è la consapevolezza primordiale del significato sponsale del corpo pervasa dal mistero dell’originaria innocenza. Così, in questa dimensione, si costituisce un primordiale sacramento inteso quale segno che trasmette nel mondo visibile il mistero invisibile nascosto in Dio dall’eternità» . In quanto orientato alla relazione, il corpo individuale si fa persona. Così, con possibile seppur lontana analogia, in misteriosa relazione perenne, inscindibile anche se distinta, si trovano le tre divine Persone della Trinità cui si rivolge il credo della fede cattolica. Qualcosa di analogo, sempre secondo il mistero della verità rivelata, avverrebbe nell’unione matrimoniale («saranno una sola carne») e nella donazione celibataria a Dio.
Giovanni Paolo II così prosegue: «Il corpo umano nella sua originaria mascolinità e femminilità […] non è soltanto fonte di fecondità, cioè di procreazione, ma fin dal principio ha un carattere sponsale: cioè esso è capace di esprimere l’amore con cui l’uomo-persona diventa dono avverando così il profondo senso del proprio essere e del proprio esistere» .
Il termine «sponsale» qui riferito riguarda precisamente il superarsi del corpo dalla semplice funzione unitiva e riproduttiva del matrimonio e precede qualsiasi distinzione successiva indicata dal Leonardi nel suo scritto a proposito del celibato connotato per analogia con i termini di «nuzialità» e di «sponsalità» in merito alle vocazioni religiose o alla consacrazione sacerdotale, ma che non riguardano il celibato del laicato. Qui si tratta di qualcosa di precedente, di consustanziale alla stessa natura umana.
Prosegue Giovanni Paolo II: «In questa sua peculiarità il corpo è l’espressione dello spirito ed è chiamato, nel mistero stesso della creazione ad esistere nella comunione delle persone ad immagine di Dio. Infatti, il dono rivela, per così dire, una particolare caratteristica dell’esistenza personale, anzi, della stessa essenza della persona […]. La realizza soltanto esistendo con qualcuno e ancor più profondamente e completamente, esistendo per qualcuno. (..) Comunione delle persone significa esistere in reciproco per, in una relazione di reciproco dono ». Si ribadisce così, sotto altra prospettiva, il concetto del dono a proposito del celibato come ben delucidato da Leonardi: dono di Dio all’uomo e offerta di se stesso dell’uomo a Dio.
Ancora il beato Giovanni Paolo II: «Possiamo allora dedurre che l’uomo è divenuto immagine e somiglianza di Dio non soltanto attraverso la propria umanità, ma anche attraverso la comunione delle persone che l’uomo e la donna formano sin dall’inizio. L’uomo diventa immagine di Dio non tanto nel momento della solitudine quanto nel momento della comunione. […] La teologia del corpo, che sin dall’inizio è legata alla creazione dell’uomo a immagine di Dio, diventa in un certo modo, anche teologia del sesso […]. Quell’unità che si realizza attraverso il corpo, “i due saranno una sola carne”, indica sin dall’inizio non soltanto il corpo, ma anche la comunione incarnata delle persone: la communio personarum» .

CORPO SESSUATO

La sessualità umana, fonte dell’atto donativo, viene rivisitata, alla luce dell’antropologia cristiana, da Giovanni Paolo II con una visione di particolare profondità, «Proprio la funzione del sesso che è in un certo senso costitutivo della persona (non soltanto attributo della persona) dimostra quanto profondamente l’uomo, con tutta la sua solitudine spirituale, con la unicità e irrepetibilità della sua persona sia costituito dal corpo come “lui” o “lei”». Mediante l’unione sessuale si avvera la realtà del dono reciproco e l’unione in una sola carne, frutto della comunione delle due persone.
«La mascolinità e la femminilità esprimono il duplice aspetto della costituzione somatica dell’uomo (“carne della mia carne, ossa delle mie ossa”) e inoltre, attraverso le parole di Genesi 2, 23, la nuova coscienza del senso del proprio corpo, senso che si può dire consista in un arricchimento reciproco» . L’istinto sessuale ha dunque nella specie umana questo destino: oltrepassarsi nel dono, arricchire ed arricchirsi, trascendersi, andare oltre il fatto meramente riproduttivo ed unitivo propri dell’accoppiamento nel matrimonio o fuori di esso, così come la convivialità va oltre il fatto di nutrirsi, così come il pianto va molto oltre l’ipersecrezione lacrimale, ma segnala un evento vissuto in una relazione di dolore. E’ proprio l’istinto sessuale dunque a permettere e promuovere la trascendenza in un TU, di istituire un NOI che va oltre la somma delle singole individualità, così come il significato di una frase va molto oltre il senso delle singole parole che la compongono.
Deriva da qui la portata dell’istinto sessuale: essere la base istintuale, corporea delle buone relazioni. In conseguenza di ciò, si può capire con maggiore profondità l’esaltazione del “corpo-per-Dio” nel celibato. Da questa ricchezza vitale proviene il valore della castità e soprattutto della verginità. È proprio mediante l’offerta dell’istinto sessuale, in virtù della natura intrinsecamente unitiva di questo, che l’uomo si unisce a Dio nel celibato in un dialogo d’amore nel quale il linguaggio del corpo assume un particolare significato. Esiste qualcosa di inesprimibile, che nasce da un profondo sentimento radicato nelle fibre più profonde del nostro essere corporeo, con cui una persona si dona a Dio nel celibato. Si capiscono meglio a questo punto le parole di Cristo: “ sese castraverunt propter regnum coelorum”, si sono fatti eunuchi per il regno di Dio (Mt 19,10-12). La relazione con Dio nel celibato è totale, assoluta, personificante.

CONCUPISCENZA

La sessualità ha sempre rappresentato una forte spinta motivazionale, impetuosa e cogente, in tutti gli esseri umani con modalità assolutamente difformi da qualsiasi specie animale. Una spinta all’unione, un anelito verso il piacere, una tensione interna difficilmente regolabile. La sessualità corre pertanto il costante pericolo di degradarsi (basta pensare al dilagare dell’immoralità, delle perversioni, delle violenze in tutti i tempi della storia), allontanandosi via via da quel «mistero dell’originaria innocenza» . «Orbene, la concupiscenza – si tratta qui direttamente della concupiscenza del corpo – limita e deforma quell’oggettivo modo di esistere del corpo di cui l’uomo è divenuto partecipe. Il cuore umano sperimenta il grado di questa limitazione o deformazione soprattutto nell’ambito dei rapporti reciproci uomo-donna. Purtroppo nell’esperienza del cuore la femminilità e la mascolinità nei loro vicendevoli rapporti sembrano non essere più l’espressione dello spirito che tende alla comunione personale e restano soltanto oggetto di attrazione, in certo senso come avviene nel mondo degli esseri viventi [animali e piante, ndr] che al pari dell’uomo hanno ricevuto la benedizione della fecondità» .
La corruzione proveniente dal peccato originale e dal disordine prodotto da esso nella persona umana, porta disintegrazione, distruzione e avversità. La redenzione dell’uomo avvenuta con l’incarnazione di Cristo conferisce al genere umano il beneficio della grazia. In tal modo si verifica in ogni essere umano una tensione tra forze disgregatrici e forze unitive fortificate dalla grazia. Alle potenze disgregatrici appartiene appunto la concupiscenza, che nell’ambito della sessualità può produrre un disordine tale da rasentare la stessa psicopatologia, rendendo l’uomo incapace di unione e di amore. Come se il corpo avesse perduto la sua corporeità: di fronte alla vergogna dei progenitori, l’uomo «avverte una certa costitutiva frattura all’interno della persona umana, quasi una rottura dell’originaria unità spirituale e somatica. L’uomo si rende conto che per la prima volta il suo corpo ha cessato di attingere alla forza dello spirito che lo elevava al livello dell’immagine di Dio. La sua vergogna porta in sé i segni di una specifica umiliazione mediata dal corpo» .
Insieme con le considerazioni del beato Giovanni Paolo II, si fa luce con grande precisione la funzione di riparazione, di riforma e di bonifica che il celibato esercita nell’economia della salvezza riportando l’istinto sessuale nel suo alveo di amore e di progettualità, ben integrato in tutto il sistema della persona umana. Il celibato rinsalda così l’amicizia con Dio, l’unione e l’alleanza con Lui, interrotte dalla colpa originale.

AMORE DI AMICIZIA-AMORE PATERNO

La spinta corporea originata dall’istinto sessuale, se non ci fosse il disordine nella creatura umana, sarebbe inscindibilmente legata al sentimento dell’amore e al progetto della vita. Nel modus amoris né IO né TU si smarriscono, ma al contrario più si donano più si arricchiscono. Quanto più si trascendono nell’Altro, tanto più rinforzano se stessi. Quanto più si uniscono, tanto più vengono confermati nella loro individuale irripetibilità. Da questo incontro personificante sortisce il codice dell’amore che si traduce necessariamente nell’interiore sentimento del perenne e dell’eterno: io con te per sempre (Ewigkweit-der-Liebe), io con te dovunque (Raumlichkeit-der-liebe), io con te comunque. Da qui ancora la domanda piena di stupore: perché proprio TU? Perché proprio IO? Perché proprio NOI?
Tanto vale per l’amore umano, tanto vale per l’amore di Dio nel celibato. La riflessione sulla fenomenologia dell’innamoramento conduce a mettere in rilievo il particolare modo di vivere della persona umana, cioè il modo proprio di essere nel mondo degli uomini, quel mit-sein, ossia quell’essere insieme che colloca la persona in una dimensione relazionale sconosciuta alle altre specie viventi. L’uomo insomma sempre si trascende in una relazione. Senza relazioni si dis-umanizza.
Le relazioni autentiche, quelle relazioni nelle quali mai il singolo individuo viene destituito dalla sua dignità di persona umana, dal suo progetto e anche – bisogna aggiungere – dalla sua vocazione, secondo la lezione dell’antropofenomenologia, sono: con un Tu nell’amore, con Te nell’amicizia, con Noi (-Voi) nella responsabilità, con Me stesso nell’interiorità. Nella relazione dell’amore il Tu viene vissuto come assolutamente unico e irripetibile; nella relazione dell’amicizia pure, l’Io si relaziona al Tu esattamente come nell’amore, ma senza alcun esercizio della sessualità con incremento invece dell’unione spirituale, delle intenzioni e dei comuni progetti. La relazione dell’amicizia non è certamente a-sessuata, soltanto non è sessuale, non contempla cioè l’impegno fusionale degli organi genitali. La relazione dell’amicizia non è esclusiva né escludente. Comprende uguale intensità affettiva nel rapportarsi a diverse persone, più numerose certamente di quelle possibili nella condizione matrimoniale. Nella relazione dell’interiorità sono Io l’interlocutore di Me stesso, mi rapporto a me stesso mediante la mia attività riflessiva ed introspettiva, mi conosco, mi esperimento; anche nella relazione della responsabilità, l’Altro, gli Altri, non vengono mai destituiti dalla loro irripetibilità e dalla loro dignità: li chiamo sempre per nome, non sono intercambiabili né sostituibili, mi relaziono ad essi secondo un progetto che sempre trascende le nostre individualità senza lederle, ma anzi arricchendole, confermandole e conferendo un significato sociale, costruttivo, collaborativo, solidale, comunicativo, arricchente dell’essere-insieme.
Ne consegue una specialissima disponibilità a relazionarsi con varie altre persone in chi sceglie la strada celibataria. Il Tu con cui mi relaziono, il Tu altro da me, il Tu diverso da Me, ma anche a Me simile, il Tu mediante il quale Mi conosco diventa una ragione di vita, un progetto che va oltre i confini della mia stessa esistenza.
Nella condizione del celibato il Tu primo interlocutore con cui la persona umana si mette in relazione è Dio stesso. All’amore di amicizia annunciato e vissuto da Gesù Cristo con gli uomini, si assomma il perenne rapporto di Filiazione con Dio Padre che rende gli uomini che non vi si oppongono partecipi della Sua stessa vita intima divina in un infinito rapporto di amore.
L’amore umano, come anche l’amicizia, sono considerati un anticipo di tale eterno Amore di Dio. Così, proprio l’amore coniugale, intrinsecamente correlato alla sessualità, offre una lettura analogabile alla condizione celibataria in cui la persona non è certamente asessuata, disincarnata, disamorata. Il laico che persegue una strada celibataria per amor di Dio costruisce intorno a sé una rete di relazioni interpersonali ricche ed autentiche in ambito professionale, sociale, familiare in cui collocare le sue stesse ragioni di vita, il senso del suo celibato, gli scambi affettivi, i legami apostolici, la diffusione del bene della sua fede, la continua testimonianza della sua esemplarità. La sua condizione nel laicato può ben venire messa in paragone propriamente con quella fenomenologia della sessualità nel matrimonio che tenga conto dell’originario progetto di Dio sull’uomo, prima che il peccato originale lo danneggiasse.

SESSUALITA’ UMANA E CELIBATO

L’analisi fenomenologica dell’umana sessualità distingue in essa alcune fondamentali caratteristiche.
In primo luogo è unitività e non strumentale utilizzo. Mediante l’unione sessuale, vissuta nella completezza dell’amore coniugale con quel linguaggio del corpo che ripropone ad ogni atto la libera e volontaria scelta dell’Altro, due persone pervengono alla realtà dell’essere «una sola carne». L’amore tra un uomo ed una donna vissuto a pieno nell’unione sessuale è comunione, è superamento dei confini individuali, è desiderio dell’altro, è completamento. La stessa natura, per essenza unitiva, dell’istinto sessuale stabilisce l’importanza dell’unione con Dio nel celibato. La meta di tale unione è l’identificazione con Cristo.
È donatività e non possesso. Realizzo ancor più me stesso mentre mi dono. L’uomo fa dono della propria virilità alla donna e questa dona la propria femminilità, non in modo generico, ma specificata nei particolari concreti di quella determinata persona. La donatività, quella vera ed autentica, non sortisce soltanto dall’attrazione determinata dall’istinto, ma anche da quella condizione contemporaneamente fisica, psichica e spirituale tipica dell’innamoramento, che si chiama rapimento e che determina il profondo senso dell’appartenenza (e non della sua versione perversa che è il possesso e rispettivamente l’atteggiamento abituale della possessività agita sul parametro della gelosia).
Nel celibato è l’abbacinante scoperta del dono di Dio che induce l’uomo a donarsi. Se è vero che la prima donazione è quella del corpo, è pur anche importante sottolineare che nel celibe la donatività si estende ad una serie di beni materiali condivisi, offerti, guadagnati proprio come se il celibe dovesse mantenere una sua famiglia. Tutte le attività, i profitti del lavoro, i beni patrimoniali sono a disposizione, ad esempio, delle necessità della Chiesa o comunque vengono impiegati anche con sacrificio in opere di carità. Il distacco, quale atto del divincolarsi del cuore dall’affezione verso gli oggetti, svolge una funzione molto importante nell’atto donativo.
È complementarietà e non competitività. Complementarietà vuol dire anche integrazione reciproca, interazione nel trovare ruoli diversi complementari, è accettazione, è amare la differenza l’uno dell’altro. Nel celibato è accettazione di Cristo ed integrazione con la novità della sua parola. È complementarsi in prima persona con l’azione redentiva di Cristo, è mettere a sua disposizione il corpo e la mente.
È pariteticità e non sopraffazione. Si tratta del vicendevole rispetto, dell’accoglienza dei modi concreti dell’uno e dell’altra di essere uomo e rispettivamente donna, è collocarsi sullo stesso piano, faccia a faccia, l’uno al fianco dell’altra in posizione di soccorrevole mutuo aiuto. Non si può riscontrare nel celibato una situazione analoga se non nel profondo amoroso rispetto di Dio per la libertà dell’uomo.
È reciprocità e non accaparramento. Soltanto in una posizione di reciprocità può avvenire il vicendevole scambio affettivo ed il conseguente arricchimento dei protagonisti della relazione coniugale, le cui attese trovano nell’Altro il primo e giusto referente. Nel celibato si ritrova la reciprocità nello scambio di amore della creatura con il suo Creatore: è proprio quest’ultimo ad essere il primo ed unico referente, al di sopra di qualsiasi altra creatura.
È totalità e non parzialità, né corporea, né psicologica, né spirituale. L’istinto sessuale conduce alla relazione profonda e globale. Secondo una prospettiva suggerita dalla psicoanalisi, un rapporto parziale con l’oggetto denota quasi sempre una certa incapacità relazionale del soggetto. A proposito delle forme incomplete o parziali dell’unione sessuale, dobbiamo nominare qualsiasi rapporto in cui l’Altro, il Tu viene spersonalizzato e preso in conseguenza soltanto per una sua parte, il sesso appunto, come succede nei rapporti mercenari od occasionali. L’istinto sessuale, in quanto forza unitiva che dovrebbe fondersi in tutto con l’amore, possiede la funzione di condurre alla relazione globale. Nell’unione sessuale integrata con tutte le facoltà psichiche propria dell’amore coniugale vengono messi in gioco tutti gli affetti e tutto il mondo psicofisico l’uno dell’altra, secondo quella completa comunicazione affettiva che diventa autentica comunione. Deriva da qui il significato di profanazione del corpo che qualsiasi atto sessuale puramente fruitivo e contingente porta con sé. Nel celibato la donazione è totale. La relazione con Dio è globale: corpo, anima, intelletto, volontà. A nessun altro il celibe appartiene.
È affettività e non fruizione o utilizzo. Soltanto nell’unione sessuale vengono messi in gioco tutti gli affetti e tutto il mondo psicofisico l’uno dell’altra secondo quella completa comunicazione affettiva che è autentica comunione. L’affetto, vissuto nella completezza dello scambio di sentimenti e di emozioni, incentiva l’unione, la donazione, il significato dell’essere insieme, l’istanza generativa. L’affetto riesce persino a surrogare la soddisfazione sessuale quando questa per qualsiasi motivo contingente o stabile non possa venire ricercata. In breve l’affetto vero e sincero non si separa mai dall’eros, anzi conduce quest’ultimo verso un amore realistico, autentico anche al di fuori dell’incanto sognante e coinvolgente della relazione sessuale di coloro che sono passionalmente innamorati. Nel matrimonio l’affetto viene costruito, vigilato, sorvegliato con atti e gesti propri, molti dei quali pertinenti al linguaggio del corpo, giorno per giorno, ora per ora.
Analoga cura dell’amore si verifica nel celibato dove si arricchisce di note di fedeltà ancora superiori a quelle necessarie al matrimonio. Della stessa quotidianità indispensabile alla buona manutenzione di un’unione matrimoniale si deve alimentare l’amore di Cristo nella condizione del celibato.
È conoscenza e non confusione. Un’annotazione erudita potrebbe ricordare come nella lingua ebraica unirsi sessualmente veniva denominato con il verbo conoscere. La sessualità conduce necessariamente alla realistica personificazione conoscitiva dell’Altro. Analogo realismo vale per chi è celibe: al cospetto di Dio va scoprendo di sé e degli altri sempre nuovi aspetti considerati nella propria interiorità alla luce di Cristo, con il suo sguardo e con lui confrontati. Cristo è il modello del celibe.
La sessualità è personificazione e non intercambiabilità spersonalizzante. Tu non sei uno qualsiasi. Nell’unirmi a Te entro nella Tua storia, riconosco la Tua persona e il Tuo irripetibile modo di essere e di esistere come uomo o come donna. Lo stesso nel celibato: Cristo entra nella mia storia in modo particolare. Egli stesso conferma la mia persona e mi inserisce in un condiviso, comune, voluto e partecipato progetto di vita. Con Lui sono più me stesso.
È intimità e non dissipazione. L’intimità non vuol dire soltanto appartarsi, scoprire ed offrire nella segretezza le parti intime del corpo all’Altro, ma anche mettere in comune il nucleo più profondo della persona, quell’interiorità che raramente si palesa. Soltanto nell’intimità può avvenire la vicendevole apertura del cuore e lo sciogliersi degli affetti. Per chi è celibe il cuore è totalmente intimo a Dio, in una sorta di amore di predilezione, in cui viene percepito l’amore di compiacenza e di benevolenza divini con un’accentuazione squisitamente personale; «Tu sei mio» (Cfr. Sal 2, 7).
È significazione e non contingenza transitoria ed occasionale. Il trascendersi della persona nell’incontro sessuale dell’amore coniugale è ricchissimo di significati che nascono dalle prime e fondamentali domande: chi sei Tu? Perché Noi? Che senso ha il nostro essere insieme, il nostro unirci in varie epoche della nostra vita, nelle più disparate reciproche condizioni? Il matrimonio si arricchisce di nuovi significati e rinnova le motivazioni dello stare insieme con fedeltà. Nel celibato vengono trovati con intenzione precisa e chiara volontà sempre nuovi significati del vivere in unione con Dio rinnovando e riscoprendo le motivazioni profonde della scelta iniziale. Altrimenti non è celibato, è soltanto vivere in una condizione di zitelle o di scapoli.
È procreazione, creatività e non contraccezione e consumazione. Quindi è generazione e progetto. Dalla duale collegialità della coppia nasce la cultura, la norma, la società, la collaborazione, il vicendevole aiuto, la prole, la famiglia. Nel celibato la procreazione ed il progetto confluiscono in un principale e fondamentale obiettivo: l’apostolato, il regno di Dio (sese castraverunt propter regnum coelorum; Mt 19,10-12).
È intersoggettività e non oggettificazione dell’Altro. L’attuale cultura propone oggi, anche con argomenti pseudoscientifici, disancorati da qualsiasi visione antropologica, una sessualità consegnata al passeggero, al puramente biologico, al transeunte, al contingente, all’intercambiabile, all’effimero, alla fruizione individuale e non unitiva, in cui la persona dell’Altro viene oggettificata, usata e abusata, consumata nelle modalità dell’erotismo. Il celibato del laico, presente in tutte le strutture dell’umana società, diventa allora affermazione positiva, assertiva e gioiosa di una sana ed equilibrata – anche nella continenza – sessualità tanto sul piano umano quanto su quello soprannaturale. «La castità – quella di ciascuno nel proprio stato: celibe, coniugato, vedovo, sacerdote – è una trionfante affermazione dell’amore» . La caratteristica dell’intersoggettività dell’istinto sessuale fa sì che nel celibato la persona umana viva con gli altri e per gli altri secondo le multiformi sfaccettature della carità cristiana.
In tal modo il celibe si pone al riparo da alcuni pericoli ai quali la sua stessa condizione lo espone quali, ad esempio, eccessiva autoreferenzialità con difficoltà a mettersi in gioco nei rapporti interpersonali, incapacità di scambiare affetto, difficoltà nella collaborazione e nell’interazione necessarie ad un lavoro di gruppo, abusi alimentari come compenso a frustrazioni sessuali non bene elaborate quali iperfagia, obesità o, nelle donne, restrizioni di tipo anoressico, erotizzazione sessuofobica di situazioni innocenti, risarcimenti mediante l’appropriazione e l’utilizzo di oggetti per uso esclusivamente personale, misantropia o misoginia, presunzione intellettuale con disprezzo narcisistico del pensiero altrui, necessità di consensi, bisogno eccessivo di scarico della tensione intrapsichica in attività fisiche, suscettibilità ed inavvicinabilità, collasso dell’intensità affettiva dell’amore di Dio e della tensione apostolica con abbandono della condizione celibataria ed assunzione di un vincolo matrimoniale, anestesia affettiva, assunzione di comportamenti autofrustranti rinunciatari per paura del piacere, esagerato distacco dalle premure quotidiane sino a perdere il senso pratico della realtà, forme evitanti la maturità e l’autonomia psicologica, schematismo e rigidità nella condotta o viceversa lassismo ed inopportunità (per un celibe) nei costumi quasi a voler proclamare al mondo la propria libertà di spirito e la propria indipendenza. In tutti questi casi non traspare il volto di Cristo.

Di Franco Poterzio in Studi Cattolici n. 608 ottobre 2011

3 risposte a “CELIBATO E CORPOREITA’”

  1. Mauro Leonardi ha detto:

    Sono molto grato a Franco Poterzio di questo articolo. Credo di poter dire che è la sintesi di un incontro che avemmo con lui a Roma – eravamo in tutto una ventina di persone – nella sede della Pontificia Università della Santa Croce a giugno del 2011.
    Coordinati da Giuseppe Brighina parlarono anche Francesco Cecere e Giulio Maspero.
    Anch’io ebbi una parte nel tutto.
    Forse dimentico qualcuno ma sono sicuro che non se ne avrà a male perché la cosa più interessante fu il dialogo che nacque tra noi. E in questo intervenimmo tutti. Grazie!

  2. Barone Bernardino ha detto:

    Ho letto sia questo e sia quello pubblicato su Studi Cattolici. STUPENDI. Suggerisco anche la lettura del libro di Yves Semen “La sessualit� secondo Giovanni Paolo II”. Rivoluzionario. Fa chiarezza, una volta per tutte, sull’argomento ma”…paradossalmente, l’insegnamento resta ancora sconosciuto non soltanto alla massa del pubblico, ma anche agli sposi cristiani e perfino alla maggior parte dei pastori d’anime…”
    Barone Bernardino