Blog | 18 Giugno 2011

L’AMICIZIA E IL CELIBATO APOSTOLICO [data originale 18.06.2011]

Non è facile meditare sul celibato apostolico. La teologia ha vissuto e vive
tuttora questo problema nel desiderio di tradurre in ragioni e argomenti espliciti la realtà di laici che si danno a Dio nel mondo senz’altra consacrazione che quella battesimale. Forse dove non è ancora giunto il teologo arriva il poeta, perché l’artista è più capace di cogliere nella vastità del suo significato questa specie tanto poco conosciuta di misteriosità umana e cristiana. Perché cimentarsi con essa significa immediatamente mettersi in contatto con l’umile certezza di cui è pervasa: sapere di essere, dopo il celibato dei religiosi e dei sacerdoti, un dono di Dio. Un altro dono di Cristo alla sua Chiesa.

La vocazione al celibato propria della vita religiosa ha soprattutto il senso del richiamo escatologico; il celibato del sacerdote ha soprattutto il senso di simboleggiare Cristo-Sposo dinnanzi alla Chiesa-Sposa. Entrambi questi modelli, nei secoli, si sono rifatti al paradigma della sponsalità. A quale modello si riconduce il celibato apostolico, come san Josemaría Escrivá chiamava quel celibato che nulla ha della consacrazione religiosa? A mio parere la risposta è: nessun modello. Il celibato apostolico in Cristo è un mistero. Fa paura dirlo? Eppure è così. Non dobbiamo dimenticare che il celibato, prima di appartenere all’ordine della carità (dove sfocia), appartiene innanzitutto a quello della fede e quindi del mistero. Cosa c’è di strano? Se è vero che il celibato sembra una follia lo è certamente di più l’amore per i nemici, perdonare chi non chiede perdono, la croce, l’eucaristia, la Trinità.
Il celibato apostolico mette in splendida evidenza il senso della “pura” vocazione battesimale, cioè il semplice fatto, l’infinita novità, di essere “solo e soltanto” inseriti in Cristo senza l’aggiunta di nessun’ altra “consacrazione”. In altre parole si può dire che il celibato apostolico fa risplendere il sacerdozio comune dei fedeli. Il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 1535 dice: “Nel sacramento dell’Ordine e del Matrimonio, coloro che sono già stati consacrati mediante il Battesimo e la Confermazione per il sacerdozio comune di tutti i fedeli, possono ricevere consacrazioni particolari. Coloro che ricevono il sacramento dell’Ordine sono consacrati per essere «posti, in nome di Cristo, a pascere la Chiesa con la parola e la grazia di Dio». Da parte loro, «i coniugi cristiani sono corroborati e come consacrati da uno speciale sacramento per i doveri e la dignità del loro stato»”. Secondo l’esatto linguaggio di questo punto del Catechismo il cristiano che si sposa o diviene sacerdote aggiunge delle consacrazioni particolari a quella generale e propria di ogni cristiano. Lo stesso avviene per il religioso. Invece il cristiano che rimane nel solo Battesimo, e quindi che rimane celibe, decide di vivere e di dare splendore al puro fondamento dell’essere cristiano: Cristo, l’inserimento in Lui attraverso il battesimo.
Gesù stabilisce due modi di arrivare in Cielo, e anche se è possibile nel cristianesimo applicare in senso generale a tutta la Chiesa la categoria della sponsalità e quindi utilizzarla per una spiegazione anche individuale del celibato, mi sembra riduttivo, allorché si entra nello specifico del celibato apostolico, voler necessariamente illustrare il secondo con la prima, dicendo che il celibato è un particolare tipo di «sposalizio».
Certo Cristo cancella l’etichetta di «impurità» che tante culture antiche, soprattutto quelle di stampo gnostico e manicheo, attribuivano alle realtà naturali, fisiologiche, e riafferma il valore del matrimonio, anzi lo nobilita ripristinando l’originaria indissolubilità e simmetria dei ruoli tra marito e moglie e ne fa un sacramento. D’altra parte però, contemporaneamente, indica una via alternativa, un’altra via, che è quella da lui stesso seguita: il celibato, che è il modo di essere che ha vissuto fin da tutta l’eternità. Colui che anche nella sua vita terrena vedeva e ascoltava «quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo» (1 Cor 2,9) ha voluto vivere nel tempo la stessa verginità che ha vissuto nell’eternità. Per questo è rimasto celibe. È’ senz’altro una bella spiegazione dire che il celibato mostra «fin da qui» la vita che «sarà». Ma ce n’è un’altra, anch’essa molto bella, ed è che il Verbo è vergine. È’ vergine fin da sempre e per sempre, e tale è rimasto anche nell’incarnazione. E il celibe a cui penso io, è un cristiano che sente la vocazione di vivere, nel mondo, una vita come quella di Cristo anche in quest’aspetto: Come Gesù. Vuole che cresca in lui una somiglianza particolare – libera, gratuita, non obbligatoria – con la vita di Cristo. La persona che ho in mente vive il celibato perché pensa «voglio essere Come Gesù» in un modo specifico: coltiva il desiderio di far vivere in sé stessi, in una vita nascosta e ordinaria come quella di Gesù a Nazaret, Cristo celibe. Solo Dio conosce il profumo del gesto di identificarsi con Cristo vergine. Ci si vuole comportare come Cristo. Si è affascinati da Cristo che quando si ri-dona al Padre al momento della Passione, è nudo e solo. Tutto il proprio corpo, integralmente, senza nessuna protezione, è offerto al Padre.
Ho parlato di essere discepoli di Cristo essendo celibi. Forse non balza immediatamente agli occhi, ma questa è la descrizione che corrisponde all’apostolo adolescente, Giovanni, il discepolo amato dal Signore. San Josemaría Escrivá già nel 1935 suggeriva di contemplare il quarto evangelista per capire meglio il celibato apostolico:  “… y san Juan, el Apostol virgen, amadisimo de Cristo, para que os enseñe el camino de un celibato apostolico fecundo”(Istruzione per l’Opera di san Raffaele 9.1.35 n. 124 in Pedro Rodriguez, Camino Edición crítico-histórica, Rialp, Madrid 2002, p.524).
Mi sono sempre chiesto perché l’autore del quarto Vangelo indichi sé stesso in questo modo: amato, preferito. Che senso avrebbe farlo se tra lui e il Signore fosse intercorsa solo una relazione sì particolare ma in fin dei conti qualsiasi, come avverrebbe se si trattasse di mera simpatia umana? Gente come Girolamo e Cassiano, Agostino ed Efrem erano convinti che il particolare amore di Gesù per Giovanni nascesse dalla scelta di essere come il Maestro anche nell’aspetto del celibato, scelta che non è per nulla chiara per gli altri apostoli. Proprio questa unicità di Giovanni sarebbe secondo alcuni, l’origine della predilezione che Cristo aveva per lui: il discepolo prediletto sarebbe quello che, come i celibi di cui sto parlando, avrebbe scelto di assomigliare al Maestro anche nel suo essere celibe. Vuole essere come Gesù in qualcosa che non è tassativo e necessario per essere cristiani. La scelta di Giovanni sarebbe all’origine del particolare amore di Cristo per lui e far conoscere la causa della preferenza di Gesù sarebbe all’origine della decisione di autodefinirsi «discepolo amato» nel suo Vangelo. Sarebbe un modo di dire in maniera allusiva e discreta l’amore di predilezione di Gesù per chi compie la scelta del celibato.
Ma le considerazioni fatte finora su Giovanni l’apostolo adolescente, non possono essere predicate di qualsiasi cristiano? Non è forse vero che amare con l’amore di Cristo è qualcosa che riguarda ogni discepolo di Gesù? Forse che il comandamento dell’amore, il mandatum novum (cfr Gv 13,34; 15,12) è destinato solo a coloro che hanno vocazione al celibato? Se domande come queste vengono rivolte per indagare quanto sia essenziale e necessario nella vocazione del discepolo prediletto il suo essere celibe, credo che si corra il rischio di andare fuori strada. Per quanto riguarda le mie riflessioni, l’impegno non deve andare nella linea della precisazione della necessità e dell’essenzialità, ma piuttosto in quella di contemplare che il celibato di cui sto parlando è un dono. Che tutto avviene nella logica del dono, non della necessità. La mia convinzione è che il contenuto del messaggio che il celibato apostolico reca con sé è proprio la categoria della donalità nel mondo.
Io ho davanti ai miei occhi uomini e donne celibi per vocazione che vivono, insieme a molti altri cristiani sposati, uno spirito per cui la santità nel mondo, da laici, nasce dalla consapevolezza della gratuità dell’Amore senza obblighi in più rispetto alla generale vocazione cristiana. Tra quei cristiani che ho davanti agli occhi, quelli tra loro che vivono la vocazione al celibato apostolico hanno il compito di significare particolarmente, proprio la dimensione della gratuità nell’amicizia, quell’essere dono in tutto e per tutto.
Giovanni vuole vivere il celibato non perché sia una caratteristica essenziale dell’essere discepolo di Cristo, ma perché è amico di Gesù, è innamorato di Gesù e vuole essere come Cristo in qualcosa in cui non è necessario essere come lui. Sceglie di essere come Lui come segno di amicizia. Giovanni è celibe prima dell’ultima cena, quando vengono istituiti i sacramenti dell’eucaristia e del sacerdozio ministeriale: Giovanni è già prima discepolo prediletto. Proprio questa gratuità è il segno dell’amore.
Celibato laicale. Il laico ha la sua caratteristica nel «non essere simbolo di nulla», nel «non avere nulla di particolare», ma solo nel mostrare con la propria disponibilità esistenziale cosa significa accettare quotidianamente, nel mondo e nelle piccole cose ordinarie, che il Figlio rivive in me la sua completa sottomissione al Padre, il suo essere tutto del Padre che così diviene per me un essere tutto di Cristo e una particolare identificazione con Lui: con lui «celibe», io celibe. Come Giovanni, l’apostolo adolescente, che nell’ultima cena mostra una particolare capacità e disponibilità a essere una sola cosa col cuore di Cristo. In tale prospettiva sono convinto che l’amicizia, intesa come quintessenza dell’amore gratuito, sia il luogo dove è più facile incontrare e «gustare» la misteriosità quotidiana dell’incontro con l’altro: e in questo modo il celibato acquista un intrinseco orientamento all’altro, diviene «celibato apostolico». Gesù nell’ultima cena dice «vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). Questa frase unisce inscindibilmente filiazione divina e amicizia perché le “parole” di cui parla il Verbo Incarnato non sono parole dette da un qualsiasi genitore al figlio, ma sono il Padre che mette l’intera Sua Vita nel Figlio e gliela dà come propria. E’, all’infinito e nell’eternità, quell’affidare all’amico tutto il proprio cuore con tutto quello che ha dentro che definisce l’amicizia. Quest’operazione che avviene nell’eternità tra il Padre Vergine e il Figlio Vergine è vissuta dal Figlio incarnato verso gli uomini e innanzitutto verso Giovanni, l’apostolo vergine che riposa sul petto di Gesù come Questi, fin dall’eternità, riposa nel seno del Padre (cfr Gv 1,18). Gesù chiama questo rapporto “amicizia”: “vi ho chiamati amici perché …”. In maniera misteriosa, di amicizia in amicizia, a cerchi concentrici, si diffonde la filiazione divina. Attraverso l’Uomo-Dio quanto avviene in Cielo giunge a quegli uomini che vogliono essere figli nel Figlio, suoi amici e, in Lui, amici tra loro.
Filiazione e amicizia: è qualcosa di infinitamente semplice e di infinitamente misterioso essere, nel quotidiano, accanto al prossimo, un creditore senza crediti e un debitore senza debiti. Rompere quell’immagine per cui l’amore è una sorta di scambio meccanico fatto di «ti amerò, se mi amerai; ti darò, se mi darai; ti presterò, se mi presterai». E ciò nonostante rimanere nel mondo. Smettere di cercare di ottenere dagli altri la propria identità profonda e udire invece, nella solitudine della preghiera: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3,1). L’amicizia, per eccellenza luogo della gratuità, mi permette di comunicare agli altri quel «sì» libero alla mia esistenza che il Padre mi dona quando scopro di essere figlio nel Figlio. Se chi vive il celibato apostolico incarna tutto questo con radicalità, sarà di enorme aiuto anche verso chi è sposato: perché la filiazione divina e l’amicizia apostolica sono di tutti i cristiani, non solo di chi vive il celibato.
Come ebbe a dire C.S.Lewis, l’amicizia vera nasce quando, finalmente, incontriamo una persona che abbia almeno una vaga idea di quel qualcosa che, senza che noi la sapessimo nominare, desideravamo fin dalla nascita: il nostro nome, la nostra vocazione. Nonostante sia un nome che nessuno sa pronunciare fino in fondo, chi ha toccato la nostra anima l’ha saputo far risuonare dentro di noi. Questo dialogo con Dio e con gli uomini, avviene nell’amicizia con Dio e con l’uomo. Solo i miei amici sono ammessi alla mia stanza, allo scaffale dei miei libri preferiti, e solo con loro può avvenire quel dialogo misterioso su quale sia il filo segreto che li lega e che neppure io so nominare: essi vedono quel filo un po’ sì e un po’ no. I fili della nostra vita si dipanano l’uno dopo l’altro, ai bivi della nostra giornata andiamo da una parte o dall’altra, e lo facciamo sempre perché abbiamo questo nome nel cuore, la firma segreta di Dio. Non sempre lo assecondiamo, a volte ci opponiamo a esso fieramente. Altre ce ne facciamo guidare e lo amiamo, in ogni caso è sempre con lui che dobbiamo fare i conti.
E nella mia stanza, i miei amici, si meravigliano che sugli scaffali ci siano autori e generi tanto diversi e finiscono per chiedermi perché se mi piace questo mi piace anche quello. E io glielo so spiegare solo un po’. E se cammino lungo un sentiero che sembra amalgamare in modo misterioso quello che ho sempre cercato in un paesaggio, perché lì ci sono la pace, il tepore dell’aria e la leggerezza dell’istante, può avvenire che mi giri verso l’amico che è al mio fianco e che credevo vedesse quello che ho visto, ma mi accorgo che dietro un’espressione del volto o un silenzio camuffato meno bene, scopro che tra noi c’è una voragine e capisco che quel sentiero per lui ha un significato del tutto diverso, che sta inseguendo una visione che mi è estranea, e che io sono estraneo a lui, e che a lui non importa nulla dell’ineffabile suggestione che mi ha fatto uscire di casa nonostante la pioggia. E ne parliamo, ma non riusciamo a farlo del tutto.
E il motivo, lo ripeto, è che questo nome è un segreto tra me e Dio e rimarrà un segreto tra me e Dio: «un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi lo riceve» (cfr Ap 2,17). Sarà così anche nell’eternità. Un segreto tra Dio e me. Il mio nome, la mia vocazione, è la firma segreta di ogni anima, l’implacabile e incomunicabile bisogno. La cosa che desideravamo prima di scegliere il nostro celibato o di incontrare le nostre mogli, i nostri amici o il nostro lavoro, e che desidereremo ancor più sul nostro letto di morte, quando la mente non riconoscerà più né moglie né amico né lavoro. Finché noi esisteremo, quella cosa esisterà, e se la perderemo, perderemo tutto.
Quei dialoghi amicali mostrano che a ben guardare sono vere due cose: che solo con i nostri amici possiamo parlare di quel nome, e che con i nostri amici si può parlare solo di quel nome, anche se quel nome è il nome tra me e Dio. Forse non lo faremo mai o quasi mai in maniera esplicita e diretta, ma implicitamente e indirettamente è solo quello il contenuto dell’amicizia, perché solo quella è l’intimità. Parlare della propria vocazione.
La Scrittura dice che quando arriveremo in cielo riceveremo dal Signore «una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve» (Ap 2,17): quando varcheremo la soglia della morte ci sarà chiaro come si chiama quel qualcosa d’irraggiungibile che si è librato tante volte appena al di là della nostra consapevolezza: il nostro nome, che per tante volte ha bussato alla porta di casa nostra senza che riuscissimo mai ad aprirla del tutto, alla fine sarà di fronte a noi. Quel giorno diremo non «chi sei tu?» ma «eri Tu, dunque, per tutto quel tempo!» (Cfr Prima che faccia notte, BUR 2006, pp. 124-126.129).
di Mauro Leonardi in Studi Cattolici – n. 604 giugno 2011

2 risposte a “L’AMICIZIA E IL CELIBATO APOSTOLICO [data originale 18.06.2011]”

  1. Patrizia Cecilia Giardi ha detto:

    ….e no…….ci risiamo con il celibato… stasera sono stanca ma domani ti rispondo…

  2. Patrizia cecilia Giardi ha detto:

    Però l’articolo è avvincente, cattura l’attenzione…..trasmette il senso della spiritualità nella scelta del celibato,trasmette anche il grande amore con cui viene scelto il sacrificio del celibato per essere in comunione con Gesù….per comprenderne fino in fondo il mistero, per poter dire “sono” di Gesù corpo e anima….per essere il braccio della Sua mente…..per vedere con i Suoi occhi……per udire con le Sue orecchie…..Colpisce la tua passione,colpisce l’ardore della tua anima……La tua vocazione come sigillo del legame indissolubile tra te e Gesù….. Il tuo articolo mi ha commosso.