Blog / Lettere | 01 Novembre 2014

Le Lettere di Paolo Pugni – Luci a San Siro

Bestemmiare.
O lasciarsi andare.
Non c’è altra scelta. Fidarsi o urlare contro il cielo.
Troppe volte da questa estate la morte m’è passata accanto, ho sentito il suo alito, il suo graffio. Il suo puzzo.
La sua musica. Come viola d’inverno. Gelida.
Prima con un suicidio. Giù dalla finestra. Diciamo vent’anni. Così. Urlati via. Per disperazione.
Poi Margherita. Sapete tutto.
Poi Sandro.
Che in realtà è morto nel 1999.
Ma l’ho saputo da poco, per una frase lasciata cadere lì, tra una virgola e un sospiro.
“L’ho fatto perché me l’ha chiesto lui, così possiamo lavorare insieme, e non abbiamo fatto neanche in tempo. Perché è morto l’anno dopo”.
Come morto? Sandro?
Vanne Pà!
Me lo diceva sempre. A Pa’… con quell’accento marchigiano che mi parlava di origini.
Morto.
Incidente d’auto. Che esci e magari ti sei salutato di corsa sulla porta. Magari l’hai sbattuta la porta. E non torni più. Torni dentro un trillo di telefono che ti nega la vita. Ti racconta la morte. E ti spacca in due.
Adesso Davide. Venticinque anni. Venticinque capisci!
Caduto su da un dirupo direttamente in cielo.
Perché la roccia gli s’è fatta sabbia nelle mani e la ghiaia assassina ha negato la presa.
Venticinque anni.
GiustificaTi! Mi devi una ragione. Ti devi giustificare! Fallo! Adesso!
La sera del rosario c’era in Chiesa più gente che la notte di Natale e al funerale una folla che neanche a san Siro. E non una parola.
Ce l’ho stampata qui quella domenica sera di avemarie e silenzi. E canti. Su ali d’aquila. Il Cristo delle vette.
Venticinque anni.
Che piangi e ti pensi lì, non al suo posto, ma ognuno al posto di chi gli sta intorno.
E non è un caso. Ma un fatto che ti fa riflettere.
Che ti spalanca il dolore e la coscienza.
Letizia continua a pensare alla fidanzata, a quella a cui aveva promesso “saremo insieme per la vita”. Che l’ha saputo via skype mentre entra all’Erasmus.
E come fai a capire quando il futuro ti viene strappato via così, d’un soffio, come fai a sperare? Come fai a credere ancora?
Franca pensa alla madre, che è quella che tiene in piedi la famiglia, serena, silenziosa, compita. Come fai a pensare ad una madre che ogni sera vede la porta della stanza aperta. Vuota. Come fai?
Io vedo il papà che piange in chiesa e abbraccia tutti e non li molla. Non so che cosa farei, quanto urlerei, quanto maledirei. Non so se ce la farei.
Li ho visti tutti quella sera. I genitori con lo sguardo impaurito e colpevole, di non essere loro lì, al loro posto, a piangere un figlio. E come fai a piangerlo un figlio? Come fai? Perché tutti l’abbiamo pensato, ai nostri figli abbiamo pensato, e siamo andati a toccarli, ad abbracciarli, a sentirli vivi.
E lo ho visti i due fratelli che nel medesimo gruppo dell’oratorio con lui sono cresciuti, uno coetaneo, l’altra appena più vecchia e come lei se lo stringeva quel fratello, in silenzio, lo sguardo fisso –a vedere che? che cosa vedevate? Che cosa vi dava significato?- abbracciarlo come per sentirlo ancora lì, sì ci sei, sei qui, e non ti mollo, io non ti lascio cadere.
Tutti in chiesa dopo il rosario, per oltre un’ora, in silenzio, paura a guardarsi in faccia, a buttarsi alla cieca nelle braccia gli uni degli altri, come se in quegli abbracci fosse possibile strappare via la paura, il dolore, la morte, la storia.
Come se si potesse ridare la vita a Davide abbracciandosi forte.
Quanto dolore.
Come fai: Come fai ancora a credere?
Come fai ancora a vivere?
A dire: ho una giornata pesante oggi.
Pesante?
Tu che li hai ancora tutti vivi?
Pesante?
A pregare per il lavoro. Il lavoro?
E se non piangi di che pianger suoli?
Poi lento, con quella paziente pacatezza ch’è tipica di Dio, ti prende un pensiero, un tozzo di idea, un lampo, una brezza: che se non credi tutto non ha senso.
E tu un senso lo vuoi. Non vuoi restare nel buio, nel fragore della morte, in quel assordante turbine della morte.
La vuoi la quiete, un porto dove piangere, sì perché fa bene piangere.
La vuoi.
E allora adesso te la devi guadagnare questa vita.
Fare sì che questo dolore, a cui non sai pensare una fine, non sia venuto invano.
Nemmeno un goccia invano.
Nemmeno un soffio di fiato, un attimo ancora, invano.
Te la devi guadagnare, centimetro dopo centimetro.
Perché le luci di san Siro le accenderanno ancora. Per sfavillare nei cieli.
Ma se ci stringiamo.
E se voi mi dite come fate a sopravvivere al dolore.
Che io non lo so più cantare.