Blog / Luciano Sesta | 20 Aprile 2018

Le Lettere di Luciano Sesta – Inferno (2)| La parabola di Lazzaro e del ricco

La scorsa volta si è detto che la speranza nella salvezza di ogni uomo è compatibile con la dottrina cattolica sulla dannazione eterna, anche per motivi biblici. Un elementare criterio di interpretazione della Bibbia, infatti, è che ogni brano sia interpretato in modo che il suo significato non entri in contraddizione con gli altri. Nessun testo biblico può essere isolato dal tutto in cui è inserito. E poiché nella Bibbia si parla, innegabilmente, sia della possibilità della dannazione eterna sia della volontà di Dio che nessun uomo vada perduto, occorre escludere, come si diceva, che i brani sull’inferno costituiscano una sorta di “reportage sulla fine dei tempi” (K. Rahner), che avrebbe solo l’effetto di alimentare una morbosa e sterile curiosità, presentandosi piuttosto come un “appello alla nostra responsabilità” (CCC, n. 1033). Esemplare, in tal senso, il Vangelo di Luca, in cui alla domanda: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”, Gesù risponde: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta” (Lc 13, 23-24). Alla richiesta di un’informazione sul futuro, come si può vedere, il Signore risponde con un ammonimento rivolto al presente, donando alla sua Chiesa il principale criterio di interpretazione per tutte le sue parole sulla dannazione.

L’applicazione di questo criterio esige: 1) una critica della lettura “fondamentalista”, e cioè letterale, dei brani sulla dannazione eterna; 2) una decisa presa di distanza da una certa interpretazione “giuridica” dei novissimi, con cui, nella storia, si è spesso proiettato il diritto penale umano sull’escatologia cristiana. Ma procediamo con ordine.

Ciò che la dottrina cattolica chiama “inferno”, com’è noto, è una pena eterna e senza appello che, dopo la morte, attende chiunque abbia sino all’ultimo rifiutato volontariamente l’amore di Dio e la sua offerta di salvezza. In continuità con quanto si è detto nel primo articolo, se avessimo certezza che, anche per un solo essere umano, questa eventualità si sia già realizzata o si realizzerà, l’inferno si troverebbe in potenziale contrasto sia con la retta ragione sia con importanti aspetti della Scrittura e della Tradizione. Cominciamo ora a motivare questa ipotesi, partendo dal concetto di “pena eterna” e prendendo spunto da uno dei brani evangelici da cui emergono i principali tratti della dottrina cattolica sulla dannazione eterna, ossia la parabola di Lazzaro e del ricco Epulone (Lc 16, 19-31):

«In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando nell’inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi».

In questa parabola, la dannazione consiste nello scoprire la propria pena solo nel momento in cui non si può fare più nulla per evitarla. Se quanto si dice in questa parabola dovesse realmente verificarsi, dunque, verrebbe meno l’idea, pur presente nella dottrina cattolica, secondo cui la pena eterna dell’inferno è una «nostra libera scelta» (CCC, n. 1033). Ciò che il ricco ha scelto, e di cui è responsabile, è infatti la sua indifferenza nei confronti dei poveri, non il fuoco che ora lo tormenta, e che egli dà l’impressione di subire con sorpresa, quasi in forma di “agguato” totalmente inatteso rispetto alle sue pur innegabili colpe. Qui la pena, non essendo stata prevista – non così atroce almeno, e, soprattutto, non “per sempre” – ha impedito al condannato ogni possibilità di agire diversamente per non subirla. E lo si evince anche dalla preoccupazione che il ricco mostra per il destino dei propri cari, per i quali si chiede una sorta di diritto a essere “informati” dei rischi a cui vanno incontro, affinché, ravvedendosi, facciano ben più prudenti scelte. Se l’inferno del ricco fosse stata una sua “libera scelta”, in effetti, questa preoccupazione sarebbe del tutto incomprensibile, e, soprattutto, incompatibile con l’idea che i dannati non abbiano alcun interesse per la salvezza degli altri, anzi.

Al ragionamento appena fatto si potrebbe replicare che ignorantia legis non excusat: per meritarsi una pena, non è necessario esserne stati a conoscenza nel momento in cui si è commessa la colpa: chi omette di soccorrere un cane ferito sulla strada, per esempio, non è scusato dalla sua ignoranza della recente legge in materia. Questo è vero. Ma a due condizioni: 1) che ci sia proporzione fra colpa e pena; 2) e che la pena sia una conseguenza della propria scelta, non ciò che si sceglie. Entrambe queste condizioni, tuttavia, non sono rispettate dal concetto di “inferno eterno”, in cui a una colpa temporale segue una pena eterna che, per di più, è presentata come una “libera scelta” del colpevole.

Un elementare principio di giustizia, in effetti, richiede che la pena debba essere proporzionata alla colpa. Nei casi più estremi della giustizia umana, ossia la pena di morte e l’ergastolo, la pena ha comunque un termine temporale, sancito dalla morte del colpevole. E questo è coerente con il carattere limitato, perché umano, sia della colpa sia della pena. Proporzionata a una colpa temporale, insomma, è sempre una pena altrettanto temporale. Nel caso dell’inferno, invece, a una colpa temporale, quale può essere lo stesso rifiuto della legge morale fatto quaggiù sulla terra, segue una pena eterna.

Si ricordi la risposta che, nella parabola, Abramo dà al ricco che lo prega di alleviare il suo tormento: “Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti”. Un perfetto esempio di contrappasso, che sarebbe giusto, tuttavia, se alla situazione di Lazzaro si contrapponesse, uguale e contraria, quella del ricco. Ma non è così. Mentre infatti i tormenti di Lazzaro e i beni del ricco sono provvisori e destinati a finire, la situazione inversa è eterna e definitiva, con un chiaro effetto discriminatorio: se il tormento di Lazzaro è provvisorio, mentre la consolazione è infinita, al ricco, consolato solo per un breve tempo, è riservato un tormento eterno.

Ciò che si è detto non è una critica alla parabola di Lazzaro e del ricco, ma solo alla sua interpretazione testuale. Il motivo per cui questa parabola non può avere un senso letterale, ma solo di ammonimento, è che, una volta informati del rischio di subire una pena eterna, non siamo più in condizione di subirla nel modo in cui la subisce il personaggio della parabola. L’angoscia di soffrire una pena che in vita non si poteva immaginare, e che dopo la morte non si è più liberi di evitare, non potrà mai riguardarci. Noi tutti, infatti, a differenza del ricco della parabola, e proprio perché la sua storia ci è stata raccontata, sappiamo ormai ciò che lui non poteva sapere, sappiamo cioè cosa potrebbe accaderci se ci comportiamo in un certo modo: proprio questo, però, ci impedisce di subire la pena come l’ha subìta il ricco, e cioè a nostra insaputa o quando è ormai troppo tardi. Ne deriva che il “ricco” non è qualcuno di reale che abbia subito la sorte che ci viene raccontata nella parabola – in tal caso sarebbe stato trattato ingiustamente – ma il “tipo” di persona che nessuno di noi dovrebbe mai diventare per non fallire l’unica vita che gli è data.

Come si può vedere, quella che, nella parabola, è una pena subìta perché imprevista, diventa, una volta che ne veniamo informati, l’oggetto di una possibile scelta. Ma, ed ecco il punto decisivo: chiunque fosse posto di fronte all’alternativa se godere un bene provvisorio al prezzo di un tormento infinito o un tormento limitato in vista di un bene infinito, sceglierebbe senza esitazione la seconda opzione. Com’è possibile scegliere la prima opzione? Davvero esiste qualcuno che, potendo scegliere, preferisce una sofferenza eterna alla felicità eterna? Nella prossima puntata, un tentativo di risposta e, forse, qualche inedita scoperta…

Questo articolo fa parte della raccolta:

Le Lettere di Luciano Sesta – Inferno (1)| Una (prudente) ipotesi sulla possibile salvezza di tutti
Le Lettere di Luciano Sesta – Inferno (2)| La parabola di Lazzaro e del ricco
Le Lettere di Luciano Sesta – Inferno (3)| Si può rifiutare Dio?
Le Lettere di Luciano Sesta – Inferno (4)| Ci si può dannare liberamente?
Le Lettere di Luciano Sesta – Inferno (5)| Senza inferno tutto è permesso?

 

Luciano Sesta, sposato e padre di quattro bambini, è docente di Storia e Filosofia nei Licei Statali Insegna Antropologia filosofica e bioetica all’Università di Palermo, ed è stato membro dell’Ufficio della Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo. Ha pubblicato numerosi saggi nell’ambito della teologia morale, della bioetica e dell’etica