4 dicembre – Le tue parole fanno casa in me
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande». Matteo 7,21.24-27.
Mi piace il tuo nome.
Gesù, Gesù.
È come una preghiera.
Gesù, Gesù.
È quello che vuoi.
Gesù, Gesù.
Te lo ha dato Dio, il tuo nome.
E io l’ho preso.
E io ti ho preso.
Gesù, Gesù, signore della mia vita.
Ti amo.
Le tue parole.
Anche solo una.
Anche solo il tuo nome.
Entrano in me.
Scendono.
E fanno casa.
Fanno pavimento su cui sedere ai tuoi piedi.
Fanno muro a cui appoggiarmi quando non ci sei.
Fanno porta da aprire quando torni.
Fanno tetto per riparare il tuo riposo quando sei con me.
Fanno finestra da chiudere quando tutto è pioggia e vento.
Fanno casa.
Che non cade.
Che non crolla.
Che non vacilla.
Perché tu sei dentro.
Perché tu sei con me.
Tu sei me.
Ed insieme è roccia.
Ed insieme è casa.
E io vivo.
C’è una stoltezza che è come sabbia.
Su cui tutto scivola.
Cade.
Frana.
È inutile costruire ragionamenti.
È inutile tirare su muri di parole.
È inutile aprire la bocca.
È inutile.
C’è una stoltezza che è come sabbia.
Pesa, riempie, è tanta.
Ma non tiene.
Tutto scivola, cade, frana.
È la stoltezza di chi è con te.
Di chi è davanti a te.
Di chi ti ascolta.
Prende le tue parole.
Il loro suono.
Il loro senso.
Se ne riempie testa e cuore.
Ma tutto scivola dalle mani.
Tutto scivola fuori da lui.
Fuori dalla sua vita.
Parole belle, le tue.
Parole buone, le tue.
Ma non diventano muro.
Non diventano tetto.
Non diventano pavimento, fondamenta.
Si poggiano.
Passano.
Scivolano via dalle mani di alcuni, dalla vita di alcuni.
E tutto crolla.
Non te lo dico mai, in effetti.
Non ti chiamo mai così.
Signore.
No.
Non è il modo in cui ti chiamo.
Sei il mio amore.
Il mio Gesù.
Questo è il nome che sussurro quando sei con me.
Che sospiro, desidero, quando non sei a casa, non sei con me.
Non conosco il padre.
Conosco te.
Non conosco la sua volontà.
Conosco la tua voce.
Non ti chiamo Signore perché tu sei Gesù. Gesù mio.
Il signore della mia vita.
La mia vita.
Parlami e le tue parole faranno la mia vita.
Sono la mia vita.
Parlami, amore mio.
Sei fondamenta.
Sei casa.
Sei Signore.
Per entrare nel tuo regno.
Non servono titoli.
Neanche il tuo.
Per entrare nel tuo regno non bastano le parole.
Neanche le tue.
Per entrare nel tuo regno non basta una casa.
Neanche se ben costruita.
Per entrare nel tuo regno ci vuole che sei il mio Signore, che sei dentro di me.
Entrato come parola.
Parola che costruisce.
Parola che regge tutto.
Parola che è signore della mia vita, della mia casa.
Non basta che ti chiamo Signore.
Ma che lo sei.
Non basta che ti ascolto.
Ma ti tengo, ti tengo nelle mani.
Mani che costruiscono.
Costruiscono giorni, costruiscono una vita intera.
Che come casa.
Come casa si appoggia a te.
Ti contiene.
Non lo so.
Ma so che tu sei il Signore della mia vita.
Ma non sei fuori di me, da adorare e ascoltare solamente.
Ma sei dentro di me.
Sei quel duro, quella roccia che trattiene e contiene le mie piogge, le mie bufere e protegge la mia vita.
Senza te scivolerei via.
Sei dentro di me.
E io costruita, viva, su di te, intorno a te.
Questo commento del vangelo del giorno è fatto dalla prospettiva di una delle donne senza nome che seguivano Gesù (cfr Lc 8, 1-3). Il suo nome è Zippi (Zippora).
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