Don Massimiliano Nastasi – XIX domenica del Tempo Ordinario /B

1 Re 19, 4-8    Sal 33    Ef 4, 30 – 5, 2    Gv 6, 41-51

La liturgia di questa domenica ci presenta la terza delle cinque parti del capitolo sesto di Giovanni sul pane di vita; una lunga ed articolata riflessione sul quarto segno di Gesù in Galilea che ha come obiettivo mostrare il Signore come Verbo di Dio. Attraverso le varie tipologie [1] su Eliseo, Elia e Mosè, l’evangelista rivela, infatti, il «figlio di Giuseppe» (Gv 6, 42) come «il pane disceso dal cielo» (Gv 6, 41), unico accesso all’esistenza divina: «Chi crede ha la vita eterna» (Gv 6, 47).

 

L’affermazione del Maestro, «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai» (Gv 6, 35), causa mormorazione tra gli uditori [2] che si chiedono: «Di lui non conosciamo il padre e la madre?» (Gv 6, 42). Il quattro Vangelo riporta lo stesso ambiente polemico quando «nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne» (Es 16, 2; cfr. Nm 11, 4-7) perché privi del pane e della carne da mangiare. Con il verbo «Ἐγόγγυζον» (Gv 6, 41), in questa circostanza, Giovanni presenta l’equivalente al motivo di scandalo degli abitanti di Nazaret davanti all’insegnamento di Gesù nella sinagoga: «Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?» (Mc 6, 3).

 

L’evangelista, differentemente dagli altri Sinottici (Mt 13, 53-58 e Lc 4, 16-30), non riporta l’episodio del ritorno del Maestro nel suo villaggio, ma presenta la mormorazione dei giudei verso l’identità di Gesù nel segno che egli compie proprio nella sua regione. Infatti, «l’obiezione della folla che afferma di conoscere i parenti di Gesù e deve pertanto rigettare la sua pretesa di essere venuto dal cielo è un esempio di prim’ordine dell’ironia giovannea; il lettore cristiano, il quale sa che il Cristo fu concepito da una vergine, vede subito, anche senza un esplicito commento dell’evangelista, l’assurdità del loro ragionamento» [3].

 

La risposta del Maestro alla mormorazione della folla è anche la chiave di lettura del segno stesso: «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6, 44). Tutto il Vangelo giovanneo, infatti, evidenzia che le opere che Gesù compie sono opere del Padre, e che il Figlio manifesta nella sua vita l’amicizia e la vicinanza di Dio, come è affermato nel dialogo con Nicodemo: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16). La stessa croce, atto supremo di donazione, è vista come ricapitolazione di questa missione divina, ma anche rivelazione della sua stessa identità: «E, ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse» (Gv 17, 5). In sintesi, «in questa missione il Padre è unito al Figlio: non è solo una unione funzionale, per raggiungere gli effetti della missione, bensì ha la sua radice nella natura del Padre e di Gesù, che sono “una cosa sola” (10, 30; 17, 22)» [4].

 

Amicizia e vicinanza di Dio che sono rese possibili solo seguendo ed ascoltando la Parola, come già afferma il profeta: «Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore» (Is 54, 13). Il Cristo è, pertanto, il Logos che opera in Dio – «Perché sappiate e conosciate che il Padre è in me, e io nel Padre» (Gv 10, 38) – e il Pane di Vita, «nel senso che la sua rivelazione costituisce un insegnamento da parte di Dio (6, 45), così come si deve credere nel Figlio per avere la vita eterna» [5].

 

In tal modo, «colui che entra nella parola è avvolto da Dio e partecipa della sua stessa natura, diventa lui stesso divino. C’è in lui un seme che lo trasforma e gli fa pregustare destini che superano la morte» [6]. Infatti, «quello che convince e rimanda a Dio è proprio il fatto che Gesù sia obbediente a Dio in maniera disinteressata e doni letteralmente la sua vita per trasmettere agli uomini la presenza di Dio che è in lui» [7].

 

Gesù si mostra, così, non solo come il vero pedagogo, ma offre se stesso come cibo: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6, 51). Non più una «questione di figure letterarie o metafore: ora Gesù prospetta un cammino di fede del tutto nuovo, la cui meta è il mistero pasquale. E il “segno” richiesto da coloro che l’ascoltavano, “perché vediamo e ti crediamo” (Gv 6, 30), è questo: il dono della sua carne come pane per la vita del mondo» [8]. In tal modo, «chi lo assume come cibo, riceve la sua vita dal Figlio e si chiude così una catena santa, della comunicazione della vita, che dal nascondimento di Dio giunge fino all’uomo» [9]. Cosicché, «la partecipazione del corpo e del sangue di Cristo non fa altro che trasformarci in ciò che assumiamo, e portiamo in tutto, nella carne come nello spirito, quello stesso, nel quale siamo morti, sepolti e risuscitati» [10].

 

Secondo l’esegeta tedesco Joachim Jeremias (1900-1979), l’espressione «σάρξ» conterebbe la formula eucaristica praticata nella comunità giovannea, e differentemente dal sostantivo sinottico «σῶμά», utilizzato per l’ultima cena pasquale a Gerusalemme (Mc 14, 22; Mt 26, 26; Lc 22, 19), sarebbe anche più vicina alla formula aramaica usata da Gesù [11]. Sta di fatto che Giovanni non riporta le parole pronunciate dal Signore nell’ultima cena, è nel suo sesto capitolo invita a cibarsi della sua stessa carne: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita» (Gv 6, 53). Pertanto, «qui diventa del tutto evidente non soltanto il riferimento all’Eucaristia, ma soprattutto si delinea ciò che vi sta alla base: il sacrificio di Gesù che versa il suo sangue per noi e in questo modo esce, per così dire, da se stesso, si riversa, si dona a noi» [12].

 

Gesù nella sua “parola” e nella sua “carne” pasquale è dono perfetto del Padre che porta Agostino ad esclamare: «O sacramento di pietà, o segno di unità, o vincolo di carità! Chi vuol vivere, ha dove vivere, ha donde attingere la vita. Si accosti, creda, sarà incorporato, sarà vivificato» [13]; dolce passaggio per la vita divina:

 

«Dunque, lo stesso nostro Signore, non come disprezzando il dono di colui che lo mandava, ma come biasimando coloro che lo ricevevano, poiché conosceva quale scopo avrebbe ottenuto la loro amarezza, disse loro: “Questo è il pane disceso dal cielo; forse che c’è chi ne mangia e muoia (Gv 6, 50)? Affatto. E qual è? Colui che viene donato a tutto il mondo. Infatti, il pane di Mosè non fu perfetto; perciò, fu dato soltanto a quelli. E per indicare che il suo dono era superiore al dono di Mosè, e che la chiamata dei popoli era più perfetta della chiamata del popolo dalla dura cervice, disse: “Chiunque avrà mangiato del mio pane vivrà in eterno” (Gv 6, 51)» [14].

[1] «Con “tipologia”, stando almeno a quanto suggerisce l’uso dell’Antico Testamento da parte del Nuovo, intendiamo la percezione di corrispondenze significative tra le caratteristiche e le circostanze che connotano due individui, istituzioni o eventi storici, corrispondenze tali che ognuno di essi possa venire inteso, secondo i casi, come anticipazione ovvero compimento dell’altro»: M. Knowles, Jeremiah in Matthew’s Gospel. The Rejected-Prophet motif in Matthaean Redaction, Bloomsbury Academic, London 2015, 22.

[2] Interessante notare come in questa nuova sezione del c. 6 l’evangelista introduca un nuovo soggetto rispetto alla “folla” (Gv 6, 22) precedente: i “giudei” (Gv 6, 41). Ciò indica un ampliamento di significato nonché una valutazione a-temporale del segno compiuto.

[3] B. Vawter, «Il Vangelo secondo Giovanni», in Grande commentario biblico, Queriniana, Brescia 1973, 1397.

[4] G. Ghiberti, «Introduzione al vangelo secondo Giovanni», in Opera giovannea, G. Ghiberti e coll. (a cura di), Elledici, Leumann (Torino) 2003, 48.

[5] R. E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 2001, 474.

[6] G. Ravasi, Il vangelo di Giovanni, vol. 1, Mondadori, Milano 2020, 86.

[7] K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento. I. Vangeli e Atti degli apostoli, Queriniana, Brescia 2014, 452.

[8] T. Verdon, La bellezza nella Parola. L’arte a commento delle letture festive, Anno B, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2008, 254.

[9] R. Guardini, Il Signore. Riflessioni sulla persona e sulla vita di Gesù Cristo, Morcelliana, Brescia 2005, 273.

[10] Leone Magno, Serm., 64, 7, de Passione Domini: PL 54, 357.

[11] Cfr. J. Jeremias, Le parole dell’Ultima Cena, Paideia, Brescia 1973, 245-249.

[12] J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, 313.

[13] Agostino, In Io. Ev. tr., 26, 1, in «Opera omnia di sant’Agostino», vol. XXIV/1 («Commento al Vangelo di San Giovanni [1-50]», tr. it. di E. Gandolfo – V. Tarulli), NBA – Città Nuova, Roma 1985(2), 261.

[14] Efrem il Sito, Commentario al Vangelo concordato, 12, 10-11: MCB 709, 82-84.

 

Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)