Don Massimiliano Nastasi – IV Domenica di Pasqua/ B

At 4, 8-12    Sal 11    1 Gv 3, 1-2    Gv 10, 11-18

La quarta domenica di Pasqua tradizionalmente presenta il capitolo 10 del Vangelo di Giovanni suddiviso in modo continuativo in tre parti per ogni ciclo liturgico (A= 10, 1-10; B= 10, 11-18; C= 10, 27-30), evidenziandone alcuni aspetti relativi a Gesù come porta e pastore delle pecore: A= «Io sono la porta delle pecore» (Gv 10, 7); B= «Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10, 11); C= «Io do loro la vita eterna» (Gv 10, 27).

Dopo gli avvenimenti legati alla resurrezione e le testimonianze di Simone e degli Apostoli, la comunità cristiana è invitata a ripercorrere gli atti e le parole del Maestro alla luce della sua manifestazione come il Risorto. Così, attraverso la figura del buon pastore e della «vite vera» (Gv 15, 1), nell’attuazione del comandamento divino – «che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15, 12) – rende perfetta la figliolanza divina – «Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi» (Gv 17, 11) –, che si rende possibile nel dono del Paraclito: «Lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità» (Gv 16, 13).

A Gerusalemme, prima della risurrezione di Lazzaro (cfr. Gv 11) e dopo la guarigione del cieco nato (cfr. Gv 9), Gesù rivolto ad alcuni farisei si presenta come «il buon pastore» (Gv 10, 11) che offre la propria vita alle sue pecore. Esse, infatti, «lo conoscono perché tra Cristo e le pecore c’è un amore che, traducendosi nel dono della vita, suscita gratitudine» [1]; lo stesso amore che sussiste tra Dio e suo Figlio: «Come il Padre conosce me e io conosco il Padre» (Gv 10, 15).

Pertanto, «a livello del ministero di Gesù questo potrebbe essere diretto ai farisei, che sono l’uditorio descritto; al livello della vita della chiesa giovannea questo può essere una critica ad altri cristiani che avevano introdotto pastori (guide) umani (e) che potevano sembrare rivaleggiare con le pretese di Cristo. Il famoso passo in 10, 16, in cui Gesù, riferendosi ad altre pecore non di questo ovile, esprime il suo scopo di avere un solo gregge e un solo pastore, suggerisce che, quando il Vangelo fu scritto, la divisione tra i seguaci di Gesù era un problema» [2].

L’operato del Messia, infatti, mira all’unità del gregge di fronte alle divisioni interne della comunità dei credenti che si vanno formando dopo l’Ascensione, come si evince dal secondo testo più antico del NT risalente al 55-56: «Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisione tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire. […] Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: “Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “Io invece di Cefa”, “E io di Cristo”» (1 Cor 1, 10.12). Così come dal proliferarsi di falsi apostoli che portano maggiore divisione: «Se il primo venuto vi predica un Gesù diverso da quello che vi abbiamo predicato noi, o se ricevete uno spirito diverso da quello che avete ricevuto, o un altro vangelo che non avete ancora sentito, voi siete ben disposti ad accettarlo» (2 Cor 11, 4).

La tradizione giovannea (1-2-3 GvQuarto Vangelo) cerca di dare una risposta a tali divisioni riferendosi al giungere dell’ultima ora, quella della rivelazione dell’anticristo. Questi falsi profeti, infatti, «sono usciti da noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; sono usciti perché fosse manifestato che non tutti sono dei nostri» (1 Gv 2, 19). Essi, poi, «non riconoscono Gesù venuto nella carne» (2 Gv 7) [3]. Vi è qui l’intenzione pastorale e non polemica di ricordare ai destinatari la dottrina che costituisce la loro identità cristiana e riformare la koinônía / “comunione” che resta lo scopo dichiarato dell’autore: «Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti» (1 Gv 1, 3) [4].

La ἐκκλησία giovannea, invece, si realizza solo nella cornice comunitaria che raggiunge i suoi obiettivi nella sintesi delle differenze, che si realizzano non nelle contrapposizioni me nella collaborazione complementare e nel completamento reciproco. In particolare, «per il suo popolo, senza il quale egli non è pensabile, Gesù vuole l’unità. Egli prevede per coloro che credono in Lui un cammino non breve (come emerge soprattutto nei discorsi di addio) e vuole che restino uniti: è pertanto necessaria una comunità nella quale si esprima la comunione» [5].

L’immagine del pastore, presente nella tradizione dell’aspettativa ebraica del Messia, e in modo particolare di quello davidico (cfr. Ez 34, 2-31), è pertanto pensata in riferimento all’unità del gregge, messa in difficoltà da coloro che, nell’adempiere alla manifestazione dell’anticristo, suscitano divisione. Così l’affermazione centrale della pericope: «Diventeranno un solo gregge, un solo pastore» (Gv 10, 16), esprime un futuro desiderio intimo di Gesù. In questo modo, «osservando la storia delle comunità giovannee secondo l’ordine 2 Gv, 1 Gv e infine vangelo di Gv, diventano chiare la natura e le caratteristiche della divisione esistente all’epoca del vangelo di Gv» [6].

Altra caratteristica del pastore è il suo darsi completamente all’umanità che trova inizio nell’incarnazione, ossia quando «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14), e la sua conclusione sulla croce: «E’ compiuto» (Gv 19, 30). Infatti, «la croce è il fulcro del discorso del pastore, e non come atto di violenza che colga Gesù di sorpresa e che gli venga inflitto dall’esterno, bensì come offerta spontanea di se stesso: “Io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso (10, 17s)» [7].

Ciò rappresenta un forte richiamo proprio a quei cristiani giovannei che credono in Gesù come il Figlio divino (il Logos incarnato), ma negando l’importanza della sua carriera umana e non confessandolo come il Cristo venuto nella carne: «Ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio» (1 Gv 4, 2-3). Probabilmente, «pensavano che la salvezza venisse esclusivamente dall’entrata del Figlio di Dio nel mondo, così che l’attività storica di Gesù non aveva importanza salvifica o esemplare. In particolare, essi sembravano aver dimenticato la morte sanguinosa di Gesù come un atto di amore e di espiazione» [8].

Nel suo offrirsi di Gesù per la vita delle pecore, infatti, è utilizzato il verbo τίθημι: «e do la mia vita per le pecore» (Gv 10, 15). «Ciò è molto significativo perché il verbo corrisponde al tradere latino, con il significato di “consegnare”. Questa espressione la usa soltanto Giovanni e la usa soltanto qui e un’altra volta con una variante – quando Gesù sarà in croce» [9]. In tal modo viene maggiormente sottolineato come il morire fisico di Cristo (la sua carne), la sua stessa umanità è mezzo di salvezza per ogni credente: «La divinità si nascose sotto l’umanità e si avvicinò alla morte, la quale uccise e a sua volta fu uccisa. La morte uccise la vita naturale, ma venne uccisa dalla vita soprannaturale. Siccome la morte non poteva inghiottire il Verbo senza il corpo, né gli inferi accoglierlo senza la carne, egli nacque dalla Vergine, per poter scendere mediante il corpo al regno dei morti. Ma una volta giunto colà col corpo che aveva assunto, distrusse e disperse tutte le ricchezze e tutti i tesori infernali» [10].

Gesù è il pastore che attraverso la sua piena e reale umanità e divinità si consegna al destino della morte per genare come un seme nella terra un solo popolo destinato alla salvezza.

«Non è infatti in riferimento alla scarsità dei pastori che il profeta dice: “Io stesso pascerò le mie pecore” (Ez 34, 15) (cioè: Non ho a chi affidarle), quasi che preannunzi per l’avvenire simili tempi disgraziati. Anche al tempo di Pietro, anche quando erano al mondo gli Apostoli (cioè quando vivevano su questa terra), disse quell’uno nel quale tutti si forma una unità: “Ho delle pecore che non sono di questo gregge, e bisogna che io le conduca [all’ovile], perché uno sia il gregge e uno il pastore” (Gv 10, 16). Che tutti i pastori siano dunque nell’unico pastore ed emettano l’unica sua voce, in modo che le pecore ascoltino quest’unica voce e seguano il loro pastore! Non questo o quello, ma l’unico. E in lui parlino tutti un unico linguaggio; non abbiano voci discordanti. “Vi scongiuro, fratelli! Abbiate tutti lo stesso sentire, né siano scismi tra voi!” (1 Cor 1, 10). Ecco la voce limpida, purificata da ogni scisma e da ogni eresia, che le pecore debbono ascoltare, seguendo il loro pastore che dice: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e mi seguono”» [11].

 

[1] T. Verdon, La bellezza nella Parola. L’arte a commento delle letture festive. Anno B, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2008, 141.

[2] R. E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, G. Boscolo (a cura di), Queriniana, Brescia 2001, 477.

[3] «Questi falsi profeti erano cristiani che appartengono alla comunità giovannea, ma che rifiutavano alcuni elementi della ortodossia e della ortoprassi così da creare due gruppi contrapposti. Infatti, «entrambi i gruppi accettavano la professione evangelica che la Parola era Dio, ma erano in disaccordo sull’importanza di ciò che la Parola aveva fatto nella carne, la via sulla quale aveva camminato. Un gruppo percepì che le sue azioni stabilivano un modello morale da seguire, l’altro ritenne che il semplice credere nella Parola fosse tutto ciò che importava, e ciò che i cristiani facevano non aveva più importanza di quello che aveva fatto Gesù»: ibid., 521.

[4] Cfr. T. Griffith, «A Non-Polemical Reading of 1 John: sin, Christology and the Limits of Johannine Cristianity», in TynB 49 (1998) 255-260.

[5] G. Ghiberti, «Introduzione al Vangelo secondo Giovanni», in Opera Giovannea, G. Ghiberti e Coll. (a cura di), Elledici, Leumann (Torino) 2003, 58.

[6] K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento. I. Vangeli e Atti degli Apostoli, Queriniana, Brescia 2014, 481.

[7] J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, 324.

[8] R. E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, cit., 529.

[9] G. Ravasi, Il Vangelo di Giovanni, vol. 2, Mondadori, Milano 2020, 25.

[10] Efrem, Disc. sul Signore, 3, 9, in Des heiligen Ephraem des Syrers Sermo de Domino Nostro, Herausgegeben und Übersetzt von E. Beck, Sécretariat du CorpusSCO, Louvain 1966, 57.

[11] Agostino, Serm., 46, 30, in «Opera omnia di sant’Agostino», vol. XXIX («Discorsi [1-50]: sul V. Testamento», tr. it. di P. Bellini – F. Cruciani – V. Tarulli), NBA – Città Nuova, Roma 1979, 995.

 

Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)