Don Massimiliano Nastasi – Domenica delle Palme e della Passione del Signore

Mc 11, 1-10    Is 50, 4-7    Sal 21    Fil 2, 6-11    Mc 14, 1 – 15, 47

Il tempo di Quaresima, come periodo di preparazione alla solennità della Pasqua, trova nella Domenica delle Palme e della Passione del Signore uno dei momenti più significativi. In essa, infatti, la liturgia ci presenta Gesù che giunge a Gerusalemme acclamato come un re – «Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide» (Mc 11, 10) –, ma successivamente accusato come un reietto e condannato ad una morte atroce.

Marco pone l’entrata del Messia a Sion subito dopo la guarigione a Gerico del cieco Bartimeo (cfr. Mc 10, 46-52), ultimo elemento positivo prima delle cupe scene che sta per descrivere in Gerusalemme. Infatti, tale episodio ed ultimo miracolo del Maestro, «diventa un segno di speranza: la cecità dell’uomo potrà essere vinta, la sequela di Gesù nella via della croce sembra impossibile, ma potrà realizzarsi per un miracolo della potenza di Dio» [1]. Con Bartimeo, poi, anche il segreto sull’identità del Messia viene a cadere nella misura in cui si avvicina la morte e resurrezione di Gesù, per la quale l’uomo è liberato dalla sua cecità: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio» (Mc 15, 39).

L’ingresso di Gesù nella città segna la quinta parte del Vangelo di Marco (cfr. Mc 11, 1 – 13, 37) che unifica il tema «del tempio e quello della autorità di Cristo, con cui Gesù manifesta se stesso. Il primo risulta evidente dal fatto che gli episodi narrati accadono per lo più nel tempio o riguardano il tempio» [2]. Di fatto, questa pericope termina con l’affermazione: «Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio» (Mc 11, 11), come obiettivo di questo stesso movimento.

Il secondo motivo tematico, quello della autorità messianica di Gesù, invece è implicito in due particolari fortemente simbolici. Il primo è l’ingresso a Gerusalemme su un puledro, che allude all’oracolo del profeta Zaccaria: «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina» (Zc 9, 9). Mentre però Mt 21, 4-5 e Gv 12, 14-15 lo rendono esplicito, Marco, come già in altre parti del suo Vangelo, non fa nessuno riferimento al testo della Scrittura ebraica [3].

L’oracolo di Zaccaria, di cinquecento anni precedenti a Gesù, nell’immediato post-esilio e in parallelo al Terzo Isaia (Is 56-66) e al profeta Aggeo, trova senso nella promessa del Signore degli eserciti nei confronti di Gerusalemme: «Tornerò a Sion e dimorerò a Gerusalemme» (Zc 8, 3). In una fase in cui il tempio è stato forse già ricostruito o comunque in ricostruzione, e nel giungere dei giudei dalla diaspora, il profeta «sembra voglia rassicurare costoro che, in un eventuale ritorno, troveranno una città vivibile e abitabile, dove essi potranno risiedere in pace e senza pericolo» [4]. È una profezia salvifica che consiste nel ritorno di ‘Ădhünāy come re del suo popolo, annunciato dal Secondo Isaia (Is 40-55): «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: “Regna il tuo Dio”. Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion» (Is 52, 7-8).

 Il secondo particolare simbolico è, di conseguenza, la purificazione del tempio con la cacciata dei venditori (cfr. Mc 11, 15-19). Infatti, la frase del profeta Zaccaria, «dimorerò a Gerusalemme», allude probabilmente alla presenza nel luogo del tempio di ‘Ădhünāy, sua casa regnante e in relazione al santuario nel deserto: «Essi mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro» (Es 25, 8).

Questi due motivi tematici contengono poi elementi drammatici strettamente connessi tra loro nella trama del racconto. Infatti, «sia l’uno che l’altro servono al narratore per mostrare il modo in cui Gesù stesso è stato causa del destino di morte che ha subito, e che aveva preannunciato nella parte precedente del racconto» [5]. Gesù, per manifestare se stesso come il Cristo e nell’adempimento della profezia entra così a Gerusalemme su un puledro e successivamente nel tempio scacciando i venditori che ne hanno fatto «un covo di ladri» (Mc 11, 17; cfr. Is 56, 7 e Ger 7, 11), divenendo causa della propria morte: «lo udirono i capi dei sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire» (Mc 11, 18).

Nel suo ingresso trionfale Gesù «viene acclamato come re, un re che restaurerà il regno davidico terreno – ma questo riconoscimento onorifico è un nuovo fraintendimento» [6]. Nella pericope, però, il Messia non è interpellato con il titolo “figlio di Davide”, come in Mt 21, 9, ciò in quanto egli stesso ne rifiuta l’attribuzione: «Davide stesso lo chiama [il Cristo] Signore; da dove risulta che è suo figlio?» (Mc 12, 37). Infatti, «al tempo della composizione del vangelo di Mc questo titolo è politicamente troppo pericoloso. Né in Mc 10, 35-45 ai Dodici viene promesso che essi eserciteranno l’ufficio di giudici sopra Israele (diversamente Mt 19, 28)» [7].

Un particolare caratterizza l’entrata di Gesù a Gerusalemme: non a piedi come di consueto, ma a cavallo di un puledro, realizzando la profezia: «cavalca un asino, un puledro figlio d’asina» (Zc 9, 9). Questa frase «non indica affatto la umiltà, ma piuttosto l’intenzione pacifica del monarca. Il cavallo era la cavalcatura in tempo di guerra (Es 14, 9; Zc 1, 7-11); l’asino era impiegato per ingressi amichevoli e solenni (Gen 49, 11; 1 Re 1, 33)» [8]. Il Messia di pace incarna in tal modo il Servo di ‘Ădhünāy che «maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca» (Is 53, 7). Gesù pertanto, «impossibilitato a negare di essere il Messia promesso, cerca di mostrare ai Suoi discepoli e alla folla quale tipo di Messia Egli sia, non un uomo di guerra, ma dimesso e a cavallo di un asino. La folla è sconcertata, ma ne percepisce il significato quanto basta per rendersi conto che egli non è il Messia delle loro speranze» [9].

Marco conclude l’ingresso di Gesù con queste parole: «Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio» (Mc 11, 11). Il re acclamato Messia termina la sua marcia nel cuore stesso della città santa, luogo del culto a Dio, accompagnato dalla gente festosa che stendono «i propri manti sulle strade, altri invece delle fronde, tagliate nei campi» (Mc 11, 8). Probabilmente «la prima comunità ha voluto rileggere, alla luce delle Scritture, un avvenimento in origine certamente più modesto. San Giovanni se ne è fatto eco quando scrive: “In un primo tempo i suoi discepoli non compresero questo fatto, ma quando Gesù fu glorificato, allora si ricordarono che questo era stato scritto di lui…” (Gv 12, 16). Ne deduciamo che in quest’unica occasione Gesù ha conosciuto da parte del popolo un’accoglienza calorosa ma ambigua: il seguito degli avvenimenti lo dimostrerà» [10].

In Gesù Messia atteso fin dall’inizio della storia della salvezza, «la Chiesa saluta il Signore nella santa Eucaristia come Colui che viene ora, che è entrato in mezzo ad essa. E al contempo Lo saluta come Colui che rimane sempre il Veniente e ci prepara alla sua venuta. Come pellegrini andiamo verso di Lui; come pellegrino Egli ci viene incontro e ci coinvolge nella sua “ascesa” verso la croce e la risurrezione» [11], verso la Gerusalemme definitiva che, nella comunione col suo Corpo, già si sta sviluppando in mezzo a questo mondo.

«Non vergognarti di essere giumento di Dio; porterai Cristo e non andrai errando lungo il cammino; ti cavalcherà lui stesso, che è la tua via. Ricordati quell’asinello condotto al Signore? Nessuno arrossisca: siamo noi quell’asinello. Il Signore ci cavalchi e ci attiri dove vuole lui: siamo il suo giumento, andiamo verso Gerusalemme! Cavalcandoci lui, non veniamo oppressi ma elevati. Guidandoci lui non devieremo. Andiamo a lui, andiamo per mezzo di lui, non periremo» [12].

 

[1] V. Fusco, «La guarigione del cieco Bartimeo (Mc 10, 46-52; Mt 20, 29-34; Lc 18, 35-43)», in Vangeli Sinottici e Atti degli Apostoli, M. Làconi e Coll. (a cura di), Elledici, Leumann (Torino) 20022, 367.

[2] N. Casalini, Introduzione a Marco, Franciscan Printing Press, Jerusalem 2005, 32. Per l’autore le precedenti sezioni del Vangelo sono: 1. Mc 1, 14 o 16 – 3, 6: l’annuncio e l’autorità di Gesù (pp. 19-20); 2. Mc 3, 7 – 6, 6: la barca (p. 20); 3. Mc 6, 6 – 8, 26: i pani e l’ostilità verso Gesù (pp. 21-27); 4. Mc 8, 27 – 10, 52: il destino del Figlio dell’Uomo: “i tre annunci della passione” (pp. 27-28).

[3] I pochi riferimenti alle Scritture ebraiche nel Vangelo di Marco indicano come i destinatari non sono di provenienza giudaica. Infatti, l’evangelista «indirizza il suo scritto a una comunità di origine gentile; stanno a dimostrarlo l’assenza di problematiche tipicamente palestinesi, l’insistenza nello spiegare termini e usanze giudaiche, il forte legame alla missione cristiana nel mondo. Qualora si accetti la possibilità di un’origine romana, non è necessario – anzi, è poco probabile – pensare a una destinazione alla Chiesa di Roma. In questo caso l’attenzione va rivolta alla diffusione del cristianesimo nelle regioni circostanti il centro dell’Impero»: M. Làconi, «I Vangeli sinottici nella chiesa delle origini», in Vangeli Sinottici e Atti degli Apostoli, cit., 147.

[4] A. Spreafico, La voce di Dio, EDB, Bologna 2003, 321.

[5] N. Casalini, Introduzione a Marco, cit., 33.

[6] R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 2001, 217.

[7] K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento. I. Vangeli e Atti degli Apostoli, Queriniana, Brescia 2014, 233.

[8] C. Stuhlmueller, «Aggeo, Zaccaria, Malachia», in Grande commentario biblico, A. Bonora – R. Cavedo – F. Maistrello (ed. it. a cura di), Queriniana, Brescia 1973, 504.

[9] V. Taylor, The Gospel According to St. Mark, Palgrave Macmillan, London 19662, 452.

[10] J. Hervieux, Vangelo di Marco, San Paolo, Cinisello Balsamo 20033, 208.

[11] J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, LEV, Città del Vaticano 2011, 21.

[12] Agostino, Serm., 189, 4, in «Opera omnia di sant’Agostino», vol. XXXII/1 («Discorsi [184-229/V]: su i Tempi liturgici», tr. it. di P. Bellini – F. Cruciani – V. Tarulli), NBA – Città Nuova, Roma 1984, 72.

 

Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)