Don Massimiliano Nastasi – V domenica del Tempo Ordinario/ B

Gb 7, 1-4.6-7    Sal 146    1 Cor 9, 16-19.22-23    Mc 1, 29-39

La liturgia della V domenica del tempo ordinario conclude la giornata di Gesù a Cafarnao, presentata da Marco, iniziata con la scelta dei primi quattro discepoli, e proseguita con l’insegnamento nella sinagoga e il primo miracolo, la liberazione di «un uomo posseduto da uno spirito impuro» (Mc 1, 23).

Uscendo dalla sinagoga, il Maestro prende dimora presso la casa di Simone, «quella che Gesù definisce “sua”, proprio all’imbocco sud del cardo maximus, verso il mare, di fronte allo slargo, alla piazza, dove in due occasioni, annota l’evangelista Marco, si radunò “tutta la città […] tanta gente da non potervene più contenere neppure nello spazio davanti alla porta (Mc 1, 33; 2, 2)» [1], che diventa oltre che la sua abitazione dopo Nazaret, anche luogo di guarigione, di insegnamento e di ricerca di Gesù da parte della folla [2]. Infatti, «a differenza della sinagoga, che in Marco appare come l’ambiente della diffidenza e del rifiuto nei confronti di Gesù, la casa ha una valenza positiva: è lo spazio dell’intimità, dell’accoglienza, dell’annuncio rivolto ai discepoli e del suo agire messianico» [3].

Alla vista della suocera di Pietro, che «era a letto con la febbre» (Mc 1, 30), il Maestro prendendola per mano, la guarisce. Quest’azione di liberazione dalla malattia e l’esorcismo in sinagoga sembrano non possedere nulla in comune. In realtà, nella mentalità antica, la malattia è vista come un segno del peccato. Più precisamente, nella Tōrāh la febbre figura tra i castighi minacciati da Dio al suo popolo infedele (cfr. Lv 26, 15-16; Dt 28, 22). Nel Giudaismo, poi, alla febbre si attribuisce un’origine diabolica, tanto che Luca descrive la guarigione della suocera di Pietro come un esorcismo: «Si chinò su di lei, comandò alla febbre e la febbre la lasciò» (Lc 4, 39).  È chiaro, pertanto che «il gesto di Gesù verso questa donna dimostra il suo dominio sulle forze del male e della morte» [4].

Oltre questa interpretazione, «è possibile che la Chiesa primitiva abbia visto il miracolo come una prefigurazione della risurrezione escatologica operata nel genere umano attraverso la morte e la risurrezione di Cristo» [5]. In greco, il verbo «γειρεν» (“fece alzare”) di Mc 1, 31b è infatti lo stesso utilizzato per indicare l’atto della resurrezione: «ἠγέρθη» (“è risuscitato”) in Mc 16, 6. Gesù, infatti, non è solo un guaritore, ma grazie alla sua resurrezione porta la salvezza agli uomini dal peccato e dalla morte; il salvatore che rimette in piedi coloro che erano abbattuti dal male.

Questa seconda rivelazione di Gesù, però, nell’ottica del Vangelo di Marco scritto per la sua comunità di Roma, va collocata tra la vocazione dei primi discepoli che prontamente seguono il Signore – «lasciarono il loro padre» (Mc 1, 20) –, il c. 13 sul discorso escatologico con il richiamo alle persecuzioni e ai sacrifici dei discepoli a causa del Vangelo – «Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe e comparirete davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro» (Mc 13, 9) – e la fuga dei discepoli all’arresto del Maestro: «Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono» (Mc 10, 50).

Ma più specificatamente ciò va attribuito al contesto familiare e al pericolo che esso corre a motivo del tradimento e della persecuzione: «Il fratello farà morire il fratello, il padre il figlio, e i figli si alzeranno ad accusare i genitori e li uccideranno» (Mc 13, 12). La fuga degli Apostoli alla cattura di Gesù nei Getsemani rappresenta, infatti, un’infedeltà compiuta all’interno di una famiglia, quella del Maestro, tradito (Giuda), abbandonato (discepoli) e rinnegato (Pietro). Gesù, quindi, non è presentato in Marco come un nemico della famiglia, bensì «egli si dedica magnanimamente a guarire esseri umani nell’ambito che, altrimenti, egli considera quello in cui la maggior parte di essi non riesce per pusillanimità e forza dell’abitudine a rinnovarsi» [6].

Tale miracolo che può acquisire un relativo e superficiale significato – la guarigione di un componente della casa di Pietro – o essere compreso nell’identità del Dio con noi – «Gesù, il profeta scelto tra i suoi fratelli, non disdegna di occuparsi dei loro piccoli mali, lui che come “santo di Dio” era venuto a sconfiggere il Maligno» [7] –, è inserito in una narrazione drammatica che ha come apice la possibilità del martirio partendo dalla propria casa: «Sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (Mc 13, 13).

Marco, infatti, attraverso la vicenda storica di Gesù, si rivolge alla propria chiesa che era stata perseguitata ed aveva commesso un grave errore. Probabilmente si riferisce alla persecuzione prima del 70 d.C. sotto Nerone. Durante questi eventi, infatti, sia Papa Clemente primo [8], sia Tacito [9] alludono agli errori e al tradimento dei cristiani da parte di cristiani.

Gesù, nel suo atto di guarire, «non è puramente e semplicemente la grande indole caritatevole del cuore largo e della ricca forza soccorritrice, che si dedichi a seguire la sofferenza umana, la comprenda e la superi» [10], ma è la presenza della vittoria sul male e sulla morte, e la forza per accettare la possibilità di una donazione totale fino al martirio: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15, 12).

«Ora la suocera di Simone stava a letto con la febbre” (Mc 1,30). Dio voglia ch’egli venga ed entri nella nostra casa, e guarisca con un suo ordine la febbre dei nostri peccati. Ciascuno di noi è febbricitante. Quando sono colto dall’ira, ho la febbre ogni vizio è una febbre. Preghiamo dunque gli apostoli affinché supplichino Gesù, ed egli venga a noi e tocchi la nostra mano: se la sua mano ci tocca, subito la febbre è scacciata. E il Signore un grande medico, un vero archiatra. Un medico era Mosè, un medico era Isaia, medici sono tutti i santi: ma questo è il maestro di tutti i medici. Egli sa toccare con cura le vene, sa scrutare nei segreti del male. Non tocca le orecchie, non tocca la fronte, né tocca alcuna altra parte del corpo: tocca soltanto la mano. Quella donna, infatti, aveva la febbre, perché non aveva opere di bene. Prima viene dunque sanata nelle opere e poi viene liberata dalla febbre. Non può liberarsi della febbre se non è guarita nelle opere. Quando la nostra mano opera il male, è come se fossimo costretti a stare a letto; non possiamo alzarci, non possiamo camminare: è come se fossimo ammalati in ogni parte del corpo» [11].

 

 

[1] L. Pacomio, Gesù 37 anni che cambiarono la storia, Piemme, Casal Monferrato (AL) 20004, 82.

[2] Nei secoli successivi la casa di Pietro diventa un luogo di culto, come si riscontra nella testimonianza più antica riportata da Egeria, una pellegrina del IV sec.: «In Cafarnao poi, è stata fatta una chiesa della casa del Principe degli Apostoli, i cui muri stanno come erano una volta»: J. Wilkinson, Egeria’s Travels to the Holy Land, Liverpool University Press, Liverpool 19993,196. Per maggior approfondimento: J.M. O’Connor, La Terra Santa. Guida storico-archeologica, EDB, Bologna 20143, 274-276; H. Fürst – G. Geiger, Terra Santa, Edizioni Terra Santa, Milano 2008, 192-196; P.A. Kaswalder, Galilea, terra della luce. Descrizione geografica, storica e archeologica di Galilea e Golan, Edizioni Terra Santa, Milano 2013, 170-174.

[3] M. Mazzeo, «5a domenica ordinaria. Miracolo e servizio», in Servizio alla Parola 524 (2021) 166.

[4] J. Hervieux, Vangelo di Marco, San Paolo, Cinisello Balsamo 20033, 44.

[5] J.L. MacKenzie, «Il Vangelo secondo Matteo», in Grande commentario biblico, Queriniana, Brescia 1973, 851-852.

[6] K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento. I. Vangeli e Atti degli Apostoli, Queriniana, Brescia 2014, 175.

[7] T. Verdon, La bellezza nella Parola. L’arte a commento delle lettere festive. Anno B, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2008, 197.

[8] «Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte. Prendiamo i buoni apostoli. Pietro per l’ingiusta invidia non una o due, ma molte fatiche sopportò, e così col martirio raggiunse il posto della gloria. Per invidia e discordia Paolo mostrò il premio della pazienza. Per sette volte portando catene, esiliato, lapidato, fattosi araldo nell’oriente e nell’occidente, ebbe la nobile fama della fede. Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, giunto al confine dell’occidente e resa testimonianza davanti alle autorità, lasciò il mondo e raggiunse il luogo santo, divenendo il più grande modello di pazienza»: Clemente Romano, Lettera ai Corinti, 5, 2-7, in A. Quacquarelli (a cura di), I Padri Apostolici, San Paolo, Milano 2005, 182.

[9] «Tali furono le misure adottate dalla provvidenza degli uomini. Subito dopo si ricorse a riti espiatori rivolti agli dèi e vennero consultati i libri sibillini, su indicazioni dei quali si tennero pubbliche preghiere a Vulcano, a Cerere e a Proserpina, e cerimonie propiziatorie a Giunone, affidate alle matrone, dapprima in Campidoglio, poi sulla più vicina spiaggia di mare, da dove si attinse l’acqua per aspergere il tempio e la statua della dea, mentre banchetti rituali in onore delle dee e veglie sacre furono celebrati dalle donne che avessero marito. Ma non le risorse umane, non i contributi del principe, non le pratiche religiose di propiziazione potevano far tacere le voci sui tremendi sospetti che qualcuno avesse voluto l’incendio. Allora, per soffocare ogni diceria, Nerone spacciò per colpevoli e condannò a pene di crudeltà particolarmente ricercata quelli che il volgo, detestandoli per le loro infamie, chiamava cristiani. Derivavano il loro nome da Cristo, condannato al supplizio, sotto l’imperatore Tiberio, dal procuratore Ponzio Pilato. Momentaneamente soffocata, questa rovinosa superstizione proruppe di nuovo, non solo in Giudea, terra d’origine del flagello, ma anche a Roma, in cui convergono da ogni dove e trovano adepti le pratiche e le brutture più tremende. Furono dunque dapprima arrestati quanti si professavano cristiani; poi, su loro denuncia, venne condannata una quantità enorme di altri, non tanto per l’incendio, quanto per il loro odio contro il genere umano. Quanti andavano a morire subivano anche oltraggi, come venire coperti di pelli di animali selvatici ed essere sbranati dai cani, oppure crocefissi ed arsi vivi come torce, per servire, al calar della sera, da illuminazione notturna. Per tali spettacoli Nerone aveva aperto i suoi giardini e offriva giochi nel circo, mescolandosi alla plebe in veste d’auriga o mostrandosi ritto su un cocchio. Per cui, benché si trattasse di colpevoli, che avevano meritato punizioni così particolari, nasceva nei loro confronti anche la pietà, perché vittime sacrificate non al pubblico bene bensì alla crudeltà di uno solo»: Tacito, Annales, 15, 44, in B. Ceva (a cura di), Gli Annali, BUR, Milano 1981, 552.

[10] R. Guardini, Il Signore. Riflessioni sulla persona e sulla vita di Gesù Cristo, Morcelliana, Brescia 2005, 79-80..

[11] Girolamo, Om. Mc., 2, in Commento al Vangelo di San Marco, Città Nuova, Roma 1965, 95.

 

 

Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)