Don Massimiliano Nastasi – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario /A

Pr 31, 10-13.19-20.30-31    Sal 127    1 Ts 5, 1-6    Mt 25, 14-30

La liturgia di questa domenica, ormai vicina al termine dell’anno liturgico dedicato alla lettura semicontinua del vangelo di Matteo, propone la seconda delle ultime tre parabole di Gesù inserita nel quinto grande discorso detto escatologico (Mt 24, 1 – 25, 46) [1], ossia riferito agli ultimi tempi della comunità cristiana in attesa del ritorno del Signore risorto.

La parabola delle dieci giovani donne che attendono nella notte l’arrivo dello sposo (Mt 25, 1-13), pur contenendo come tema dominante la fiducia di questo arrivo – «la morale della parabola è la previdenza più che la vigilanza in senso stretto; tutte le ragazze dormono, cinque di esse sono preparate» [2] –, diventa per l’evangelista una rappresentazione del discorso precedente riguardante la venuta del Figlio dell’uomo (Mt 24, 29-41), e l’attesa di questa stessa venuta: «Vegliate, dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà» (Mt 24, 42). Così ora, l’allegoria successiva sui talenti, compresa nella cornice di questa condizione storica, non indica semplicemente il meritare una ricompensa, ma una risposta impegnata e fruttuosa dei cristiani al dono di Dio in e mediante Gesù Cristo.

La parabola è ambientata in un contesto economico dove un uomo, prima di un viaggio, suddivide in talenti il suo patrimonio affidandoli ai suoi tre servi: «A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno» (Mt 25, 15). Nello specifico, un talento, dal significato di “bilancia” (kikkar: כִּכָּר), è una misura di peso equivalente a 58,9kg; ma è anche una unità monetaria che equivale a 10.000 denari (un denaro è la paga giornaliera di un operaio, come descrive Mt 20, 2: «Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna»). Pertanto, una grande ricchezza di circa 80.000 giornate di lavoro, oltre ogni immaginazione. Al ritorno del padrone di quei servi, essi presentano la loro amministrazione e l’ultimo di costui, per paura, dichiara di aver tenuto sottoterra il talento affidatogli. La reazione del padrone è dura fino a giunge a definirlo: «Servo malvagio e pigro» (Mt 25, 26).

Per comprendere l’allegoria ed evitare interpretazioni estranee al suo contesto, è necessario richiamare alla mente che Matteo scrive il vangelo tra l’80 e il 90 d.C. riferendosi alla sua comunità cristiana di Antiochia di Siria, una «chiesa fiorente, di origine palestinese, in una zona in cui numerosi si erano concentrati gli ebrei fuggiti dalla madrepatria dopo il disastro del 70» [3]. Una ekkesía che si trova ad affrontare una forte contrapposizione tra i giudeo-cristiani e i cristiani provenienti dal mondo pagano. Non a caso la missione di Paolo ai gentili, cominciata con Barnaba, parte proprio «sotto gli auspici della chiesa di Antiochia e le obiezioni di alcuni giudeo-cristiani ultraconservatori al suo successo portarono all’incontro di Gerusalemme del 49 d.C. Dopo aver raggiunto l’accordo che i gentili potevano essere ricevuti senza circoncisione, fu ad Antiochia che Paolo, Pietro e gli uomini di Giacomo (il “fratello” del Signore”) si trovarono in forte disaccordo su come le leggi alimentari giudaiche toccassero le relazioni a tavola dei cristiani giudei e gentili» [4]. Una battaglia che Paolo perde lasciando dopo il 50 d.C. Antiochia, sempre più dominata da una prospettiva più conservatrice su come la Legge obblighi i gentili convertiti. Un contesto che si fa più serrato dopo il 70 d.C., quando i gentili diventano la maggioranza e l’ala conservatrice giudeo-cristiana infrange l’unità separandosi e dando vita agli Ebioniti siriani [5].

La parabola dei talenti, letta fuori da questa cornice storica, risulta una metafora di indole etica e spirituale, ove i talenti rappresentano i doni di intelligenza, capacità operative, sensibilità umana e carismi personali che Dio lascia nell’uomo affinché siano ben amministrati. Tutto ciò affinché «l’impegno del discepolo – afferma Gesù – è quello di far fiorire questa dotazione spirituale così che essa cresca a servizio dell’umanità e quindi del Regno di Dio. Chi, invece, rimane inerte, custodendo questi “talenti” in se stesso, alla fine si trova privo di quello che si illude di possedere» [6].

Questa interpretazione, però, non rispecchia l’intento originario dell’evangelista; infatti, «anche la presentazione della dottrina di Gesù è concepita in funzione dei bisogni della Chiesa di Matteo» [7], così come «le spiegazioni delle parabole sono tutte compenetrate dalla vita cristiana al tempo di Matteo» [8]. Il racconto dei talenti possiede come idea centrale non l’incertezza del tempo della parusia ma una verifica dei conti; e come la parabola precedente delle dieci giovani donne non è riferita al vegliare l’arrivo dello sposo – infatti tutte e dieci dormono – ma a custodire l’olio della fede, così anche questa non è una verifica dei doni personali ricevuti da Dio nel battesimo che necessitano di crescere al servizio dell’umanità, bensì ancora il custodire la fede [9].

In una comunità cristiana in difficoltà dove è pressante la tentazione di lasciare tutto e tornare alle precedenti passioni, resta forte infatti il monito di Matteo a restare fedeli, come Paolo prima di lui alla comunità di Efeso: «Ma a voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità» (Ef 4, 20-14).

I talenti, come l’olio, quindi, mantengono lo stesso significato, ossia quello di essere immagine del deposito della fede. Essi rappresentano ciò che il Signore ha lasciato affinché fosse custodito fino al suo ritorno, ossia il Vangelo che: «per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti» (Mt 24, 11); Vangelo che significa grazia, sacramenti, presenza dello Spirito Santo che guida l’uomo alla vita buona. Così il servo malvagio e pigro è chi «non ha perso nulla, ma non ha guadagnato nulla [10], ovvero chi possiede questo deposito della grazia ma non l’ha custodito per la propria santità, vivendo come se non l’avesse mai ricevuto.

«Questo avverrà quando si verificherà ciò che sta scritto in Daniele: “i libri furono aperti e la corte si sedette”. Ci sarà infatti una specie di rassegna di tutte le parole dette, di tutte le azioni compiute e di tutte le cose pensate, e per potenza divina tutto ciò che a noi è nascosto sarà portato alla luce e quanto è celato sarà rivelato […]. Infatti, volendo ravvivare nelle memorie di tutti noi gli eventi avvenuti nell’intero corso del tempo (al fine che ciascuno possa prendere coscienza del bene o del male compiuto), Dio realizzerà ciò in un solo istante, con ineffabile potenza. Noi, quando vogliamo richiamare qualcosa alla memoria, abbiamo bisogno di lungo tempo per ripercorrere interamente le cose che andiamo dicendo, che portano al ricordo ciò che vogliamo evocare; non è così che farà Dio, volendo farci ricordare di ciò che abbiamo fatto nel corso di questa vita, affinché col prendere coscienza delle azioni compiute, possiamo capire le cose per cui siamo puniti o premiati [11].

[1] Il quinto grande discorso di Matteo contiene in 24, 1-36 materiale preso largamente nel discorso escatologico di Mc 13 e nel resto del c. 24 e nel c. 25 materiale proveniente dalla fonte Q e da una tradizione propria di Matteo. Il risultato è un discorso lungo quasi il doppio rispetto a quello di Marco. Cfr. F.W. Burnett, The Testament of Jesus-Sophia. A Redaction-Critical study of the Eschatological Discourse in Matthew, University of America, Washington, DC 1981.

[2] J.L. MacKenzie, «Il Vangelo secondo Matteo», in Grande commentario biblico, Queriniana, Brescia 1973, 958.

[3] M. Làconi, «I Vangeli sinottici nella chiesa delle origini», in Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, M. Làconi e Coll. (a cura di), Elledici, Leumann (Torino) 2002, 148.

[4] R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 2001, 305-306.

[5] Gli Ebioniti sono un gruppo eretico giudeo-cristiano che osservano parti della Legge mosaica e possiedono una opinione cristologica bassa di Gesù, ossia negando l’origine divina come il concepimento verginale, elementi che, invece, evidenza il vangelo di Matteo.

[6] G. ravasi, Le pietre di inciampo del Vangelo. Le parole scandalose di Gesù, Mondadori, Milano 2015, 88.

[7] X. Léon-Dufour, I vangeli e la storia di Gesù, Edizioni Paoline, Milano 19682, 228.

[8] Ivi, 229.

[9] Cfr. R. Scognamiglio, «Grazia o profitto? La parabola dei talenti (Mt 25,14-30) nell’esegesi di Origene», in Nicolaus 21 (1994) 246s.

[10] J.L. MacKenzie, «Il Vangelo secondo Matteo», cit., 958.

[11] Origene, In Mt. Ev. tr., lib. XIV, 9, in M.I. Danieli – R. Scognamiglio (a cura di), Commento al vangelo di Matteo /2 (Libri XIII-XV), Città Nuova, Roma 1999, pp.137-138.

 

Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)