Don Massimiliano Nastasi – Riflessioni sulla XXVIII domenica del Tempo Ordinario /A

Is 25, 6-10    Sal 22    Fil 4, 12-14.19-20    Mt 22, 1-14

La pericope proposta in questa liturgia domenicale, del banchetto di nozze (Mt 22, 1-10), è l’ultima delle tre parabole del Maestro durante la sua permanenza a Gerusalemme prima di essere consegnato dai «capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo» (Mt 26, 3) al supplizio della croce. Unita redazionalmente alle due precedenti – i due figli (Mt 21, 28-32) e i contadini omicidi (Mt 21, 33-42) – sviluppa in un crescendo storico il tema del rifiuto da parte d’Israele dell’amicizia di Adonai inserito nell’irruzione del regno di Dio. Gesù, infatti, secondo Matteo, «nella sua persona e nella sua presenza era venuto e continuava a venire il regno di Dio. In quanto narratore delle parabole, per esempio, egli apparteneva al Regno e ne realizzava la potente presenza» [1].

La parabola narra della preparazione di un banchetto di nozze per il figlio del re, il quale manda «i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze» (Mt 22, 2), che però rifiutano. Non demordendo, manda altri servi con lo stesso scopo, ma anch’essi non trovano persone per il convivio del figlio, presi piuttosto dai loro impegni. Anzi, infastiditi dal loro invito, li insultano ed uccidono. Ciò indigna il re che invia i suoi soldati per farli uccidere e dare alle fiamme la loro città. La festa comunque è pronta, e così per ultimo apre la sua casa a tutti coloro che vi vogliono partecipare: «Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze» (Mt 22, 9).

L’allegoria delle nozze, presente nella fonte Q 14, 16-18.19-20?.21-23 [2], e ripresa da Lc 14, 15-24 e dal Ev. Thom. 64 [3], è immagine veterotestamentaria dell’amore sponsale tra Adonai e il suo popolo scelto e sostenuto, e sviluppa l’oracolo di salvezza su Sion del profeta Isaia 62, 5: «Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te». Con l’incarnazione, letta da Paolo come «pienezza del tempo» (Gal 4, 4), «Dio è entrato nella storia e ha assunto su di sé un “destino”» [4], e prende come Messia il posto dello sposo d’Israele, ma spostando l’attenzione dalle nozze all’immagine del banchetto, rappresentando così la valutazione del tempo presente in un rapporto causa-effetto tra l’atteggiamento attuale e le sue conseguenze sul giudizio.

Il fatto, poi, «che l’avvenimento escatologico sia già iniziato, in vista della sua realizzazione, o sia già pienamente presente» [5], indica in Matteo il porsi in essere del regno di Dio nell’umanità [6], simboleggiato proprio dal pranzo, che rappresenta «la signoria gloriosa e grandiosa di Dio sul cosmo e sulla storia, cioè nello spazio e nel tempo; è il progetto divino sull’intera creazione che si sviluppa con forza e senza clamore» [7].

Un porsi del Regno in una storia fatta di rifiuti: prima da parte di molti Ebrei precedentemente l’incarnazione – «Mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono» (Mt 21, 34-35), fino al rifiuto dell’ultimo dei profeti: «Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto» (Mt 21, 32). Poi rigettando l’autore stesso della storia – «Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero» (Mt 21, 32) – e conseguentemente i suoi Apostoli: «Presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero» (Mt 22, 6).

Atteggiamento di rigetto al banchetto di nozze che causa la fine della centralità del tempio – «Vi sarà tolto il regno di Dio» (Mt 21, 43) – e la sua definitiva caduta: «Mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città» (Mt 22, 7) [8]. Dio, però, mantiene la sua promessa di salvezza fatta all’Israele che ha riconosciuto il Figlio, e la estende anche ogni popolo – «Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali» (Mt 22, 10) – adempiendo così all’oracolo di Isaia 26, 1: «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto». Nella logica del Padre, infatti, «La morte del Figlio non è l’ultima parola. L’Ucciso non resta nella morte, non resta “scartato”. Diventa un nuovo inizio» [9], aprendo la promessa di Abramo all’umanità intera.

Nella parabola del convivio nuziale, Matteo unisce un’altra allegoria (Mt 22, 11-13), originariamente indipendente, dell’uomo che non indossa l’abito nuziale, e per questo viene gettato fuori. Nella chiesa che l’evangelista ben conosce, infatti, «sono stati condotti cattivi e buoni, così che quelli che hanno accettato la chiamata iniziale devono sostenere un ulteriore giudizio. I cristiani che non sono degni soffriranno lo stesso destino di quelli che precedentemente avevano il regno, ma non erano degni di custodirlo (Mt 8, 11-12)» [10].

L’abito nuziale è la vita cristiana corrispondente al dono di grazia; abitudine (virtù, o meglio “habitus[11]) al bene illuminato dallo Spirito Santo operante dal Risorto, come riferisce il libro della Rivelazione: «La veste di lino sono le opere giuste dei santi» (Ap 19, 8). Pertanto, non basta entrare nella chiesa per essere sicuri di trovare la salvezza, perché «molti sono chiamati, ma pochi eletti» (Mt 22, 14) [12]. Questi chiamati sono i giudei che hanno creduto nel Risorto e i cristiani provenienti dal paganesimo che entrano nella bellezza soteriologica del regno di Dio – «Beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello!» (Ap 19, 9) –, o meglio sono resi figli adottivi dal Cristo mediante il battesimo, e pertanto «non devono vantarsi perché sono stati chiamati a sostituire quelli che erano chiamati per primi. Dio resta esigente» [13].

In sintesi, le tre parabole di Gesù, unite da Matteo in un’unica sezione narrativa, nell’orizzonte di comprensione della storia della salvezza, rappresentano un ultimo appello alla conversione e «sono indirizzate contro coloro che non possono comprendere che cosa sia la grazia e il perdono di Dio, che non capiscono come l’uomo può ricevere la bontà di Dio soltanto quale dono, e come perciò propriamente soltanto il peccatore sa che cosa sia la grazia» [14]. Il regno di Dio è offerto a tutti nella gratuità della paternità divina, ma solo coloro che «hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap 14-15), ovverosia credono che «Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio» (Gv 20, 30) con le parole e con la coerenza della loro condotta, possederanno la vita eterna.

«Per la dignità appunto di quella cena, fratelli miei, quanto sarà la concordia e l’esultanza di coloro che mangeranno in quella mensa celeste! Certamente ci nutriranno di cibi, non tuttavia di quelli che si dovranno evacuare, ma di quelli che producono la vita eterna. Chi sarà degno di quella adunanza? Chi così felice da meritare di essere chiamato a quella divina cena? Beato veramente colui che mangerà il pane nel tuo regno (cfr. Lc 14, 15)! Colui, cioè, che ha meritato la chiamata celeste e è diventato santo a motivo di questa stessa vocazione» [15].

[1] G. O’Collins, Cristologia. Uno studio biblico, storico e sistematico su Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 20184, 61.

[2] J.M. Robinson, «Il vangelo di detti Q», in Gesù secondo il testimone più antico, Paideia, Brescia 2009, 250-251.

[3] M. Erbetta, «Il vangelo di Tommaso» in Gli apocrifi del Nuovo Testamento, vol. I/1, Marietti, Casale Monferrato (Al), 19832, 274-275. Rappresenta la pericope più estesa dello scritto e anche la più elaborata con una conclusione di tipo gnostica: avversione per quanti si occupano e trafficano i beni materiali, dimenticando il banchetto della felicità eterna.

[4] R. Guardini, Il Signore. Riflessioni sulla persona e sulla vita di Gesù Cristo, Morcelliana, Brescia 2005, 37.

[5] D. Fricker – N. Siffer, La fonte Q. Il “vangelo” ritrovato di Gesù, Figlio dell’uomo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2011, 172.

[6] Matteo, infatti, «riprende i passi di Marco e Q che parlano della basileía e, specie nell’introduzione delle parabole, arricchisce il materiale proprio di Marco con interventi redazionali (13, 24; 18, 23; 25, 1)»: H. Merklein, La Signoria di Dio nell’annuncio di Gesù, Paideia, Brescia 1994, 23.

[7] B. Marconcini, «Il Regno di Dio nel vangelo di Matteo», in Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, M. Làconi e Coll. (a cura di), Elledici, Leumann (Torino) 2002, 231.

[8] Il riferimento che Matteo fa della distruzione della città è quello di Gerusalemme nel 70 d.C. ad opera dell’esercito romano condotto da Tito Flavio Vespasiano (futuro imperatore Tito), come riporta lo storico del tempo: «La città venne abbattuta dalla rivoluzione, poi i Romani abbatterono la rivoluzione, che era molto più forte delle sue mura; e di questa disgrazia si potrebbe attribuirne la causa all’odio di chi si trovava al suo interno, ai Romani il merito di aver ripristinato la giustizia. Ma ognuno può pensarla come crede, vedendo come accaddero i fatti realmente»: Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, V 6.1.257, P.L. Lovari (a cura di), DigitalSoul Editore, Marsala (TP) 2017.

[9] Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2005, 301.

[10] R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, cit., 284.

[11] La virtù simboleggiata nell’abito delle nozze è quella buona qualità della mente, grazie alla quale si vive rettamente, per la quale nessuna cosa è usata male, o che Dio opera in noi senza di noi: infatti la buona qualità o habitus è la forma della mente, è la materia nella quale «recte vivitur»; è il fine che Dio opera, causa efficiente «de infusis dempta ultima particula de acquisitis»: Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-III, q.55, a.4.

[12] «Viene qui usato quel linguaggio che divenne più tardi il linguaggio della predestinazione. Al v. non sottostà alcuna teoria teologica complicata. La parabola rappresenta Dio che compie ogni sforzo per introdurre gli ospiti al banchetto escatologico; qui c’è chiaramente un invito ricolto a tutti coloro che si trovano sui crocicchi delle strade, senza distinzione tra “buoni e cattivi” (in quanto contrapposti ai poveri, storpi, ciechi e zoppi di Lc)»: J.L. MacKenzie, «Il Vangelo secondo Matteo», in Grande commentario biblico, Queriniana, Brescia 1973, 950.

[13] K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 2007, 126.

[14] R. Bultmann, Gesù, Queriniana, Brescia 20177, 174.

[15] Atanasio di Alessandria, Lettere festali, 7, 8-9: PG 26, 1395.

 

 

Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)