Don Massimiliano Nastasi – Riflessioni sulla XXVI domenica del Tempo Ordinario /A

Ez 18, 25-28    Sal 24    Fil 2, 1-11    Mt 21, 28-32

Questa XXVI domenica del tempo ordinario, inserita tra il quarto (Mt 18) e il quinto grande discorso di Gesù (Mt 24, 1 – 25, 46), e collocata al suo ultimo ingresso a Gerusalemme prima della passione – «Entrò nel tempio e, mentre insegnava, gli si avvicinarono i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo» (Mt 21, 23) –, presenta un’altra parabola che, come la precedente dei lavoratori a giornata (Mt 20, 1-16), si sviluppa nelle azioni quotidiane del suo tempo.

Il primo Vangelo inserisce così tra gli ultimi due grandi discorsi (ecclesiale ed escatologico), una serie di allegorie che mostrano la reazione di Israele alla predicazione di Gesù: «Udite queste parole, i capi dei sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro. Cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla, perché lo consideravano un profeta» (Mt 21, 45-46). Mentre però Marco e Luca ne presentano una solamente, quella dei contadini omicidi (Mc 12, 1-12; Lc 20, 9-19), Matteo sviluppa una propria catechesi con tre parabole aventi la stessa tematica, ossia la testimonianza di un ultimo ed estremo appello alla conversione: i due figli (Mt 21, 28-32); i contadini omicidi (Mt 21, 33-46) e il banchetto di nozze (Mt 22, 1-14).

In particolare, quest’ultime parabole matteane che precedono i discorsi sugli ultimi tempi (Mt 24-25), invitano il lettore ad una più consapevole presa di coscienza sulle pretese del Regno, ossia, «un’accettazione esplicita, talmente sincera da coinvolgere, e sconvolgere, integralmente le sue convinzioni e la sua vita; la disponibilità a riconoscere con schiettezza personali errori e insufficienze; una decisione precisa e immediata per il nuovo e realistico orientamento della vita» [1].

La prima di questa serie di parabole, proposta in questa domenica, narra la vicenda di due figli estremamente diversi tra di loro e del padre proprietario della vigna. Il padre invita il primo figlio ad andare a lavorare nella vigna, che dopo il suo iniziale rifiuto verbale poi cambia decisione: «Ma poi si pentì e vi andò» (Mt 21, 29). Il secondo figlio, invece, ad una prima pronta risposta positiva, decide successivamente di non andarci. Il Maestro, «paragonando le autorità al figlio che dice di voler obbedire al padre ma non lo fa, modella un contrasto altamente polemico: esattori e prostitute che avevano creduto in Giovanni Battista entreranno nel regno di Dio prima delle autorità» [2]. Questo contrasto, quindi, «tra la ribellione a parole e l’ubbidienza di fatto in quanto opposta all’ubbidienza a parole che non si concretizza in azione è evidenziato molto chiaramente, e gli stessi avversari sono costretti ad ammettere che la vera prova dell’ubbidienza sono i fatti» [3].

Rivolta ai capi dei sacerdoti e agli scribi, la parabola si snoda fondamentalmente sul tema della conversione. Essi, rifiutando il messaggio iniziale del Battista – «Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto» (Mt 21, 32a) –, e successivamente del Figlio di Dio, lasceranno che «i pubblicani e le prostitute» (Mt 21, 32b), che contrariamente hanno accolto questo rinnovamento, entrino per primi nel regno di Dio.  I pubblicani e le prostitute, difatti, hanno cambiato vita smettendo di essere peccatori, mentre «gli scribi e i farisei avversari sono criticati per il parlare, o pretendere, non accompagnato dall’azione ed anche perché agiscono per motivi indegni» [4]. Eludendo, poi, la domanda sul Battista – «Il battesimo di Giovanni da dove viene? Dal cielo o dagli uomini? (Mt 21, 25) –, dimostrano anche di non essere in grado di discernere i veri dai falsi profeti.

Le autorità d’Israele professano ma non compiono non tanto l’osservanza della legge, piuttosto le opere della fede. Infatti, non hanno ammesso che la vita secondo la legge va completata dal pentimento (che genera conversione) proclamato dal Battista e da Gesù come condizione necessaria per entrare nel Regno, che significa «la salvezza per l’uomo, ed esattamente la salvezza escatologica, che pone termine ad ogni realtà terrestre» [5]. Essi, invece, rispondono alla suprema richiesta del giudaismo con professioni di ubbidienza, ponendosi così fuori dal regno di Dio [6]. Così facendo «non entrano assolutamente nello spazio dove si trova Gesù, ma rimangono legati alla loro volontà, a preoccupazioni terrene, politiche. Essi non ammettono in genere l’ordine del mandato e della realtà che ha inteso Giovanni e che Gesù intende» [7].

Appartenere alla realtà di Dio non significa soltanto accettare l’invito ad entrarvi, ma poi non cambiare nulla di se stessi – «Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò» (Mt 21, 30) –, ma richiede una collaborazione in quanto «è gratuita offerta di salvezza che chiama l’uomo a dare una risposta positiva, non limitata a un puro desiderio (“Signore, Signore…”), ma realizzantesi nell’impegno a “fare la volontà del Padre “(Mt 7, 21)» [8]. Esso comporta la conversione e il riconoscimento dell’impossibilità a salvarsi con le proprie forze. Infatti, «secondo l’annuncio di Gesù, per come ce lo descrive Matteo, tutto dipende dalle buone opere dei cristiani. Se esse vengono meno, l’iniziale sì alla chiamata non serve a nulla» [9].

Entrare a far parte del Regno attraverso le opere (lavorare nella vigna), infine, significa riconoscere il perdono che Dio concede e rispondere «nel mantenerci sempre in quella sana tensione tra una dignitosa vergogna e una dignità che sa vergognarsi: atteggiamento di chi per sé stesso cerca di umiliarsi e abbassarsi, ma è capace di accettare che il Signore lo innalzi per il bene della missione, senza compiacersene» [10]. Solo in esso, infatti, vi si trova la vera vita e la salvezza, come chiarisce Agostino nella polemica contro i pelagiani [11]: «È una novità mai udita prima, nella Chiesa, che esista una vita eterna al di fuori del regno dei cieli e che esista una salvezza eterna al di fuori del regno di Dio. Ad evitare che tu, fratello, debba assecondarci al riguardo senza convinzione, rifletti anzitutto che è riservata inevitabilmente la dannazione a chiunque non spetta il regno di Dio» [12].

[1] M. Làconi, «Le parabole evangeliche», in Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, M. Làconi e Coll. (a cura di), Elledici, Leumann (Torino) 2002, 233.

[2] R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia, 2001, 284.

[3] J.L. MacKenzie, «Il Vangelo secondo Matteo», in Grande commentario biblico, Queriniana, Brescia 1973, 949.

[4] R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, cit., 285.

[5] R. Bultmann, Gesù, Queriniana, Brescia 20177, 33.

[6] La piaga maggiore che Gesù rivolge alle autorità d’Israele è l’atteggiamento di presunzione della propria giustizia che rende tali giusti in realtà dei separati e lontani da Dio. Di fatto: «questo grave difetto può essere individuato da un lato nella perdita del senso del peccato: là ove il giudaismo aveva una coscienza molto spiccata e vivace del peccato come rifiuto di fedeltà a Dio, il fariseismo ne aveva soffocato il senso nella casistica; dall’altro poi la considerazione del merito costituiva il contrappeso del peccato fino al punto di poter superare, con i meriti, le trasgressioni sì da creare nell’uomo un’ostentata sicurezza, una presunzione di sé, delle proprie opere, che si risolveva in definitiva in un’autogiustificazione»: M. Bordoni, Gesù di Nazaret Signore e Cristo. Saggio di cristologia sistematica. 2. Gesù al fondamento della cristologia, N. Ciola – A. Sabetta – P. Sguazzardo (a cura di) EDB, Bologna 2017, 161.

[7] R. Guardini, Il Signore. Riflessioni sulla persona e sulla vita di Gesù Cristo, Morcelliana, Brescia 2005, 419.

[8] B. Marconcini, «Il regno di Dio nel vangelo di Matteo», in Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, cit., 539.

[9] K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 2014, 120.

[10] Francesco, La nostra fatica è preziosa per Gesù. Omelie nelle Messe crismali, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2019, 48.

[11] Il pelagianesimo, dottrina cristiana nata per opera del monaco britannico Pelagio (360-420), sostiene come l’uomo «in base alla propria essenza di creatura fatta ad immagine di Dio (cfr. Gen 1, 26), è in possesso della grazia che lo pone in grado di decidersi liberamente per Dio, di obbedire ai suoi comandamenti, di imitare Cristo inteso come l’exemplum più elevato di vita cristiana e di conseguenza in tal modo la salvezza. Ne consegue che la colpa di Adamo non è quella di un peccato originale, trasmesso di generazione in generazione, ma una colpa personale ed un impulso ad imitarlo; a tale stimolo è possibile opporsi facendo ricorso alla sola propria ferma e libera volontà»: M. Nastasi, La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona, Edizioni Sant’Antonio, Beau Bassin (Mauritius) 2019, 43.

[12] Agostino, Serm. 294, 3, 3, in «Opera omnia di sant’Agostino», vol. XXXIII («Discorsi [273-340/A: su i Santi», tr. it. di M. Recchia), NBA – Città Nuova, Roma 1986, 255.