Don Massimiliano Nastasi – Riflessioni sulla XXV domenica del Tempo Ordinario /A

Is 55, 6-9    Sal 144    Fil 1, 20-24.27    Mt 20, 1-16 

La liturgia di questa domenica, dopo il quarto grande discorso di Gesù sulla comunità cristiana (Mt 18), ci propone un’altra parabola propria dell’evangelista Matteo che colloca come sfondo la quotidianità del lavoro e il suo rapporto con il denaro per giungere alla comprensione della realtà del regno di Dio.

Il Maestro, in cammino dalla Galilea alla Giudea – «Terminati questi discorsi, Gesù lasciò la Galilea e andò nella regione della Giudea, al di là del Giordano» (Mt 19, 1) –, e prima di salire da Gerico a Gerusalemme, dopo aver «rivelato l’intenzione di fondare la sua chiesa e ha dato istruzioni circa gli atteggiamenti che devono caratterizzarla» [1], si intrattiene in dialogo con i farisei. Essi, infatti, cercano di provocarlo sul tema del divorzio: «E’ lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?» (Mt 19, 3). La risposta di Gesù abbraccia il significato originario del matrimonio nella visione ebraica, e non giudaica [2] – «Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto» (Mt 19, 6) –, e fonda la motivazione alla verginità per il regno dei cieli: «Vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli» (Mt 19, 12).

Continuando la discussione con i farisei, il Maestro racconta la parabola dei lavoratori a giornata nella vigna (Mt 20, 1-16), che trova riferimenti nella teologia sia veterotestamentaria sia paolina. Essa, infatti, è «considerata da alcuni come un’illustrazione interpretativa dell’evangelista, per evidenziale la sovranità di Dio ed una benignità che non è basata sul merito» [3], e qualunque tentativo di giustificarla in termini di giustizia sociale o di relazioni con il lavoro ne allontana il suo significato.

Un padrone offrendo «un denaro al giorno» (Mt 20, 2) chiama operai nelle diverse ore della giornata, fino agli ultimi dell’undicesima ora, ossia l’equivalente delle cinque del pomeriggio (perché alle sei, secondo lo schema antico, termina la giornata con il tramontare del sole). Venuto il momento della paga, tutti ricevono un denaro, ma ciò crea mormorazione da parte dei lavoratori delle prime ore che pretendono di ricevere qualcosa di più. La risposta del padrone è dura – «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro?» (Mt 20, 13) – tanto che Matteo utilizza il sostantivo maschili «ἕταιρος» e non «φίλος», che può essere tradotto con “compagno” o “socio”, tenendo così un rapporto del tutto distaccato con l’interlocutore.

Dietro il discorso della vigna, nel linguaggio semitico, c’è in realtà una storia di amore dove la vigna rappresenta l’amata, lo stare con il Signore e non fatica per portare a casa una paga. Essa, infatti, è simbolo di benessere e di pace, immagine del popolo eletto da Adonai: «Hai sradicato una vite dall’Egitto, hai schiacciato le genti e l’hai trapiantata» (Sal 80, 9); «Io ti avevo pianata come vigna pregiata, tutta di vigneti genuini» (Ger 2, 21); «Scelse un germoglio del paese e lo depose in un campo da seme; lungo il corso di grandi acque, lo piantò come un salice, perché germogliasse e diventasse una vite estesa, poco elevata, che verso l’aquila volgesse i rami e le radici crescessero sotto di essa. Divenne una vite, che fece crescere i tralci e mise i rami» (Ez 17, 5-6); «Tua madre era come una vite piantata vicino alle acque» (Ez 19, 10). Il vigneto è, pertanto, quel popolo «che aveva ricevuto tutte le cure e le attenzioni necessarie perché potessero crescere i frutti migliori» [4].

Partecipare alla vigna è ricevere il suo padrone e con esso la paga, la vita eterna: «I giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro» (Mt 13, 43). Un salario che è dato a tutti nella stessa misura. Matteo pone così un problema rilevante nella prima comunità tra i giudeocristiani e i cristiani di provenienza pagana, già inizialmente toccato con la parabola del servo spietato (Mt 18, 23-35), inserita nel discorso sulla chiesa. Anche se i primi lavorano nella vigna da sempre, rappresentati dai patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe e Giuseppe, questi ultimi, invece, sono chiamati «quando venne la pienezza del tempo» (Gal 4, 4), cosicché «lo scopo del racconto non riguarda il denaro, ma il superamento della differenza tra i primi e ultimi» [5]. Per i giudeocristiani, infatti, l’uguaglianza nell’ambito della signoria divina diventa un problema, come sottolinea anche l’evangelista Luca con l’immagine del fratello maggiore invidioso del minore che riceve l’accoglienza del Padre (Lc 15, 11-32).

La parabola matteana, oltre questo significato rivelatore di una controversia riguardante l’ammissione dei pagani nella chiesa apostolica, contiene anche altri livelli di interpretazione. Essa, infatti, è preceduta dalla promessa che i dodici sederanno sui dodici troni (Mt 19, 28), ed è seguita dalla richiesta dei figli di Zebedeo di avere assegnati i primi posti nel regno: «Dì che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno» (Mt 20, 21). Pertanto, potrebbe anche indicare come «una vocazione anteriore non ha alcuna importanza sulla posizione assegnata nel Regno di Dio. Quando uno viene ammesso, viene ammesso alla piena partecipazione; il Regno non diventa la proprietà privata di coloro che lo cercano per primi, anche se in essa hanno posti di comando» [6].

Comunque sia, l’allegoria sottolinea fortemente l’ammonimento di Adonai al profeta «Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55, 8) e di come «questa volontà crea giustizia, nella quale è insito che noi riconosciamo a Dio il suo diritto e in ciò troviamo il criterio su cui misurare il diritto tra gli uomini» [7]. Non ha senso, infatti, porre l’occhio invidioso per chi entra successivamente in Cristo, ma l’importante è che si entri nel campo della vita con il pieno impegno personale poiché «la vera imparzialità è quella dell’amore che mette sullo stesso livello chi ha ricevuto molto e chi ha avuto poco nella vita, ma si è autenticamente consacrato alla sua vocazione, anche se semplice» [8].

La conclusione della parabola è emblematica – «Così gli ultimi saranno i primi e i primi, ultimi» (Mt 20, 16) – come è emblematico il discorso di Gesù sulle beatitudini (Mt 5, 1-12), che rappresenta un capovolgimento della logica umana. La citazione, antecedente al vangelo di Marco, è presente nella Fonte Q 13, 30 [9], così come nel vangelo di Tommaso 4, 2: «Giacché molti primi saranno ultimi, e diverranno uno solo» [10], e va compresa solo nell’orizzonte della rivelazione in cui «la “giustizia” non è una legge che stia al di sopra di tutto, ma Dio stesso è la giustizia» [11]. Con questo metro è possibili, allora, comprendere anche le altre parabole che poggiano nella vera giustizia che è bontà: «Solo quando l’uomo ha imparato alla scuola dell’amore di Dio a vedere l’altro e inoltre se stesso realmente, diviene capace di giustizia» [12].

Il regno di Dio è la vigna che offre ad ogni uomo la pienezza della vita in Cristo risorto, e il farne parte è gioia grande ma soprattutto speranza per gli ultimi, che toccati da tale grazia posso cantare come il vescovo di Ippona:

«Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace» [13].

[1] R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia, 2001, 281.

[2] Gesù, differentemente dai rabbini (scribi e farisei), riporta l’interpretazione della legge alla fonte ebraica precedente all’imporsi del giudaismo, dopo l’esilio in Babilonia con la riforma di Esdra e Neemia. Essa, infatti, ha “circondato” la legge di insegnamenti orali che lentamente hanno dimenticato il fondamento stesso per cui era stata costituita, riducendo la volontà di Dio e la legge ad uno statuto legale con cui non si deve entrare in conflitto e che pretende di penetrare in tutti gli ambiti della vita. Così che «mentre la legge diviene qualcosa di molto formale, l’obbedienza diviene altrettanto “esteriore” e materiale, qualcosa di misurabile»: M. Bordoni, Gesù di Nazaret Signore e Cristo. Saggio di cristologia sistematica. 2. Gesù al fondamento della cristologia, N. Ciola – A. Sabetta – P. Sguazzardo (a cura di), EDB, Bologna 2017, 138. L’autorità di Gesù (exousia regale), pertanto, non poggia sulle interpretazioni sinagogali ma sulla rivelazione, ponendo come orizzonte di comprensione l’annuncio del regno di Dio perché egli stesso è la causa. «Egli [Gesù] non si assunse soltanto il compito di criticare la legge orale in quanto contraria ai doveri umani fondamentali (Mc 7, 9-13 par.), ma anche quello di accantonare la stessa legge scritta su materie come la retribuzione, il divorzio e il cibo (Mt 5, 21-48 par.; Mc 7, 15.19 par.). […] Esso comunque implicava, in qualche senso, la rivendicazione che la missione di Gesù nei confronti di Israele era quella di apportare una nuova relazione fra Dio e il popolo, relazione che avrebbe relativizzato il luogo centrale della relazione precedente: il tempio di Gerusalemme»: G. O’Collins, Cristologia. Uno studio biblico, storico e sistematico su Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 20184, 65.

[3] R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, cit., 282.

[4] R.K. Harrison – F.N. Hepper, «Vino, vite, vigneto», in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1997, 1129.

[5] K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 2014, 119.

[6] J.L. MacKenzie, «Il Vangelo secondo Matteo», in Grande commentario biblico, Queriniana, Brescia 1973, 946.

[7] Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, 176.

[8] G. Ravasi, Le pietre di inciampo del vangelo. Le parole scandalose di Gesù, Mondadori, Milano 2015, 77.

[9] J.M. Robison, «Il vangelo di detti Q», in Gesù secondo il testimone più antico, Paideia, Brescia 2009, 250.

[10] L. Moraldi, «Il vangelo copto di Tomaso», in Vangeli apocrifi, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1996, 220.

[11] R. Guardini, Il Signore. Riflessioni sulla persona e sulla vita di Gesù Cristo, Morcelliana, Brescia 2005, 347.

[12] Ibid., 348.

[13] Agostino, Confessionum libri tredicim, 10, 27, 38, in «Opera omnia di sant’Agostino», vol. I («Le confessioni», tr. it. di M. Pellegrino – C. Carena – A. Trapè – F. Monteverde), NBA – Città Nuova, Roma 19915, 225.

 

Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)