Blog / Le interviste | 22 Luglio 2020

Intervista a Fratel Biagio Conte – Ho digiunato perché i genitori trovino tempo per i figli

In occasione della morte per tumore di Fratel Biagio Conte ripropongo un’interviste che gli feci tre anni fa

Fratel Biagio Conte è una figura conosciutissima a Palermo, in Sicilia e nel resto del mondo, sia laico che cattolico. L’11 luglio, stremato, ha sospeso un digiuno molto lungo fatto soprattutto per richiamare le famiglie al loro impegno primario di dedicare tempo ai figli. Il 20 luglio ho potuto stare a lungo con lui, la sua comunità maschile e femminile, e alcuni poveri presso la sede di Missione Speranza e Carità. Nell’ambito dell’incontro ha rilasciato la lunga intervista al blog che riporto qui sotto (foto di Giacomo Palermo)

I genitori rischiano di non pensare ai figli. Non hanno il tempo. Corrono rischi impressionanti e non hanno tempo per i figli. Per amarli, per guidarli, per formarli, per dare loro un futuro più saldo, più sicuro. Chiedo prudenza. Non c’è più prudenza. Ai figli non si può dire più nulla. Non possono farlo i genitori, non può farlo la scuola: soprattutto per questo ho fatto il digiuno.
Ho sentito di dover fare molta penitenza. Dapprima ho fatto trenta giorni a pane e acqua poi ho voluto rimanere nella grotta perché ho visto che questa società è in sofferenza. Poi ho fatto quaranta giorni solo di acqua, un po’ di miele come Giovanni Battista [ride, ndr] e poi l’Eucarestia, che ogni giorno mi portava don Pino. Ho voluto vivere quello che dice la Parola: chi beve di quest’acqua non avrà mai più sete, chi mangia di questo pane non avrà mai più fame (cfr. Gv 4,5,6). Io sono testimone di tutto ciò. Ho fatto tante volte digiuni e penitenze per dire di non abbandonare i poveri senza casa, senza lavoro, per attirare l’attenzione su di loro.

È molto preoccupato?
Sì. È chiaro che siamo più moderni, avanzati tecnologicamente, però dobbiamo tener presente che la storia ci insegna che ci sono stati momenti difficili. È noi stiamo affrontando uno di questi momenti difficili. Non basta che avanzino la tecnologia, il sapere, le nostre esperienze, ma dobbiamo imparare a coltivarci bene, a coltivare i nostri sentimenti che sono quelli con i valori, con i sani principi.
Tutti corriamo: ma dove andiamo? Lasciamo indietro i più deboli, lasciamo indietro Dio: non c’è più tempo per Dio. E allora come si fa a costruire un mondo migliore? Ciascuno deve fare la sua parte e insieme costruire un mondo migliore senza creare divisioni, disuguaglianze, come se io fossi più di te, meglio di te. Io parlo con tutti, sono aperto a tutti. Omosessuali, trans, musulamni, carcerati, qui abbiamo molti affidati al carcere. Siamo aperti a tutti. A suore, a sacerdoti. A realtà non cattoliche. Siamo in collegamento con l’imam di Palermo, con i Fratelli Musulmani, con le varie realtà evangeliche, con i pentecostali, con gli israeliti, con i buddhisti.
Mi colpiscono le mode che non rispettano più il corpo. C’è una corsa all’esteriorità. Ai giovani diciamo: mi piaci, mi stai bene, ma poi prendo un altro che è meglio di te. Ci usiamo e ci gettiamo via. Lo vedo nelle persone che vengono alla Missione ma anche in quelli che trovo nella città Perché io mi muovo: a piedi, ma mi muovo. I giovani stanno fino all’alba nei locali a bere. L’altro giorno un giornale parlava della fine del mio digiuno e, l’articolo accanto, di giovani che durante una festa in discoteca aveno spaccato delle bottiglie e con dei cocci si erano feriti. Che dolore!

Ma lei, che ha vissuto da eremita o vive qui dentro, come si accorge di questi problemi?
Me ne accorgo per la gente che viene. Tutti queli che accogliamo sono sotto delle dipendenze impressionanti. Vere e proprie schiavitù. Da tante cose. Di tutto e di più. Sono disorientati. Oltre che a livello mentale, sono pieni di sfiducia, di scoraggiamento. Alcol, droghe, sigarette. Le sigarette sembrano meno pericolose ma me ne sono morti tanti: la salute risente in modo impressionante per colpa delle sigarette. Penso anche alle scommesse, che distruggono le famiglie, che causano fallimenti che sgretolano i nuclei familiari. E poi i figli che fine fanno? Da dove prendono esempio?

Qual è la sua storia? Perché si veste così? Quanti anni ha?
Io sono del ’63. Non mi ha obbligato il buon Dio. Io ho sentito di dovermi staccare da tutto, dagli abiti civili del mondo e di indossare un saio di color verde olivo (il colore della pace e della speranza). Poi ho un copricapo, con un velo, che mi ripara dal freddo e dal caldo.
Io ho iniziato da eremita. Tutto comincia da qui. Mi trovai davanti a questa immagine di bambini che muoiono di fame nel terzo mondo. Ne sentivo parlare a scuola, ne parlano tutti. È un’immagine che parla della Giornata Mondiale dell’Infanzia Missionaria. La presi e la mise nella mia stanzetta. Questi occhi [l’mmagine raffigura il volto di un bimbo, ndr] mi hanno toccato profondamente e soprattutto una frase che c’è scritta: la nostra indifferenza uccide.
Quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ho detto: io non voglio più essere complice di questa società egoistica e indifferente. Neanche più un minuto di un andare avanti che lascia indietro i più deboli. Questa è stata la parola che mi è risuonata dentro. Ero nella mia stanzetta. Una società che lascia indietro i più deboli non può essere una giusta società. Prima o poi si sfalderà, crollerà.
La sede di Missione Speranza e Carità era un vecchio disinfettatoio comunale in macerie. La gente moriva per strada, io ho fatto un digiuno e così l’abbiamo ricostruito. Ho dovuto digiunare qui, davanti al cancello. Lo tenevano chiuso e abbandonato con il progetto di farne chissà che cosa – qualcosa comunque che non sarebbe andato ai poveri. Qui, dove abbiamo celebrato, nasce la Cappella della Misericordia. La Missione non riunisce solo i poveri e i senza tetto ma anche gli anziani della zona perché anche loro hanno bisogno di sentirsi attenzionati.

E da dove mi venne questa forza? Non dal mondo, dalla società dagli amici, dalle comitive, ma guardando il Crocefisso che i miei avevano messo sopra la porta della mia stanzetta fin da quando ero piccolo. Avevo 26 anni. Ero in piena gioventù. Mio padre mi voleva nell’azienda ero l’unico figlio maschio. Ma io ho ridato tutto. Ho lasciato tutto. sono andato via, nelle montagne e non ho dato più notizie. Ho vissuto da eremita. Nel silenzio ho ritrovato me stesso. La pace. La vera pace la vera libertà. Non quella che ci rende schiavi. Dopo un anno di eremitaggio, feci il primo pellegrinaggio. Dall’interno della Sicilia arrivai fino ad Assisi. Perché la figura di Francesco mi affascina. Mia madre me ne parlava. E così arrivo a piedi fino ad Assisi. Quando arrivai lì, sulle prime pensavo di andare in Africa o in India, ma il buon Dio mi disse: l’Africa è anche qui, è qui. Bisogna cominciare dalla tua città. Mi ha riportato dove non volevo più ritornare. Io di Palermo non ne volevo più sapere.
È un impegno enorme, grautito. Noi non chiediamo nulla. Io dico a tutti che la prima cosa è rispettare il corpo: e ognuno deve fare la sua parte. Rispetto di Dio e di tutto il creato. Come san Francesco. Che è, un po’, il mio ideale. Però non solo lui. C’è anche Madre Teresa di Calcutta e il Beato Padre Pino Puglisi. Io, prima di convertirmi, ero fans dei giocatori, dei cantanti, degli attori, adesso lo sono dei santi. Di Gesù, di Maria, di san Giuseppe. Di san Francesco, di Madre Teresa, del Beato Puglisi, di tutti i santi e le sante di Dio. Sono figure che oggi mi sconvolgono. Sono persone come noi che hanno donato la vita

E lei ha cominciato con i poveri della Stazione?
Sì. Nel viaggio a piedi ho incontrato tanti senza tetto, tanti abbandonati, con i quali ho condiviso dando coraggio, dando speranza. Ed è lì che ho capito che il buon Dio mi chiamava. Io avrei voluto tornare a fare l’eremita, ad isolarmi, ma invece Dio mi ha chiamato ad andare incontro alla gente, soprattutto a quelli che rimangono indietro. Da lì è iniziato un cammino impressionante. Spiegarlo è impossibile. Come si fa a dedicarsi ai senza tetto? È difficile, è complesso, nessuno ti appoggia. Il senza tetto viene abbandonato. Quando muore, si prende e lo si porta al cimitero. Io invece ho fatto di tutto per dare loro dignità, speranza, farli rinascere a vita nuova.

Chi le è stato vicino soprattutto?In primo luogo don Pino Vitrano. Lui era salesiano [ora è incardinato alla diocesi di Palermo, ndr]. Poteva stare comodo negli edifici che non mancavano, ecco invece che ci siamo incontrati. Cercava, per riportarlo a casa, un giovane che se n’era andato via con dei compagni. Qualcuno gli disse: vai alla stazione che c’è uno che si dedica ai senzatetto, magari ne sa qualcosa. Così ci conoscemmo mentre dividevo il mangiare ai poveri.
Io davo ai poveri da mangiare, le coperte, ma poi loro mi chiedavano i sacramenti, confessione, battesimo, eucarestia e io come facevo? Ho detto al Signore, cosa vuoi, che faccio pure il sacerdote? E così il buon Dio mi ha mandato don Pino. E da allora, sono quasi 28 anni, mi ha sempre sostenuto. In ogni digiuno mi portava l’eucarestia. Quando feci il digiuno davanti al cancello lui venne e fece la Messa. Disse: che questo piccolo altarino possa entrare all’interno di questo edificio. E il giorno dopo, finalmente, entrammo. Si abbatté il muro che ci separava dai più poveri e sofferenti. Da allora nasce Missione di Speranza e Carità.

Da allora lei è molto amato a Palermo e in tutta la Sicilia
Tanti sono vicini e ci sostengono. Però c’è anche chi ancora non ha capito e giudica. Ma sa, di Gesù c’era chi parlava bene e chi parlava male. Ben vengano. Beati voi quando sarete perseguitati o parleranno male di voi.

Durante la Messa ho visto delle suore e dei frati vestiti come lei.
Io non pensai assolutamente che fosse possibile. Io iniziai. E poi vennero alcuni per aiutarmi, e sono i religiosi: maschili. Ma poi mi ero trovato che per strada non c’erano solo gli uomini abbandonati ma anche le donne abbandonate. E questo era difficile perché le donne si chiudevano e rischiavano di non farsi aiutare. E arrivarono due studentesse dell’università, una di Botanica e l’altra di Psicologia, ad aiutarci quando eravamo entrati da poco qui. Loro ci aiutarono con le prime donne accolte. Dopo quattro anni quelle ragazze chiesero di lasciare tutto e nacque così la Comunità anche femminile. Agli inizi provai a fare uomini e donne qui ma non si riesce. E allora ho dovuto fare un’altra umiliazione e aprire la casa delle donne. Qui avevo già ottanta uomini accolti e dopo le prime tre o quattro donne, mi accorsi che veniva difficile. Poi una era in gravidanza nei vagoni. Come Fai? devi fare la culla, avere un luogo più protetto

E i vescovi l’hanno capita subito?
Sì! Prima ho avuto Salvatore Pappalardo, che mi è stato vicino. Addirittura lui, una cardinale, venne a celebrare la Messa quando ancora le autorità civili non mi davano la risposta per l’edificio. La facemmo all’aperto, sotto il porticato, per poter accogliere settanta – ottanta senza tetto. Lì comincia il mio rapporto profondo con la Chiesa. Al finale della Messa io andai a ringraziarlo con i poveri, e lui ha abbracciato i poveri. Da lì mi son sentito accolto, amato dalla Chiesa. Da allora, guai chi mi tocca la Chiesa. Dopo Papalardo ci sono stati Salvatore De Giorgi, Paolo Romeo, e adesso Corrado Lorefice. C’è una continuità. Ci sentiamo accolti e sostenuti. I nostri vescovi partecipano non solo con la preghiera ma anche standoci vicino. La società è in emergenza ma se ciascuno fa la sua parte insieme con gli altri, la Chiesa, le istituzioni civili, le varie tradizioni religiose, anche chi non crede, insieme con gli altri, c’è speranza di costruire un mondo migliore.

Cosa le ha detto Papa Francesco quando l’ha incontrata?
Mi ha sempre raccomandato l’attenzione ai poveri e al prossimo. A chi è più debole. Il Papa è venuto a mangiare coi poveri. Poteva andare in tanti altri posti ed ha deciso di venire qui a condividere con i poveri. Ho incontrato anche Papa Benedetto al quale ho abbracciato i piedi e dal quale ho ricevuto la benedizione.
Bisogna ringraziare il Papa per le tre giaculatorie che ha inserito nel Rosario. Una, quella della pace e della speranza, l’avevamo già. Ora abbiamo inserito la giaculatoria che si riferisce ai migranti e alla Misericordia.