Don Massimiliano Nastasi – Riflessioni sulla XVI domenica del Tempo Ordinario /A

Sap 12, 13. 16-19    Sal 85    Rm 8, 26-27    Mt 13, 24-43

La XVI domenica del tempo ordinario apre alla seconda parte del cap. 13 di Matteo relativo al terzo grande discorso di Gesù sul Regno ma espresso attraverso la parabola, ossia un «lungo paragone, che diviene racconto con una sua intima coerenza e unità. La storia inventata permette di interpretare facilmente e univocamente la situazione reale a cui è riferita: tra i due livelli, di invenzione e di realtà, ci sono precise e sicure analogie che permettono la comprensione immediata» [L. Pacomio, Gesù. 37 anni che cambiarono la storia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 20004, 126].

Questa sezione del Vangelo, infatti, ha lo scopo di spiegare il fine delle parabole nella realizzazione del Sal 78, 2: «Aprirò la mia bocca con una parabola, rievocherò gli enigmi dei tempi antichi», come compimento delle stesse Scritture. E, quindi, «non hanno il compito specifico di suggerire elementi nuovi entro l’annuncio di Gesù; e tuttavia svolgono al suo interno una funzione di scuotimento e di urgenza» [M. Làconi, «Le parabole evangeliche» in Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, M. Làconi e Coll. (a cura di), Elledici, Torino 20022, 233].

Dopo l’immagine iniziale del seminatore e dei semi gettati nei diversi tipi di terreno (Mt 13, 1-8), ossia della difficoltà di accoglienza della parola di salvezza, oggi la liturgia propone quattro parabole che sottolineano sia la pazienza del padrone del campo sia la crescita del Regno tra gli uomini.

L’uomo fin dalla creazione vive il dramma della compresenza del bene e del male come della sofferenza, narrato fin dall’inizio della storia, dall’uccisione di Abele da parte di Caino (Gen 4, 1-16) fino all’esperienza del male “ingiustificato” fatta da Giobbe. Il testo veterotestamentario e la pietà giudaica, infatti, «non ha chiuso gli occhi davanti alle sofferenze, recate all’uomo dal destino, di cui è intrecciata la sua esistenza. Certamente non le ha viste allo stesso modo dell’uomo di una cultura sviluppata, la cui vita si è allontanata molto dalla natura e la cui esistenza consiste, per molta parte, nel combattere le forze della natura» [R. Bultmann, Gesù, Queriniana, Brescia, 20177, 141].  

La riflessione cristologica, rappresentando comunque una novità di pensiero, resta in parte legata al pensiero giudaico tanto che «nessuna delle similitudini neotestamentarie del mondo vegetale che ci restano conosce la dimensione del male già nella stessa parabola e non solamente nell’interpretazione» [K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento. I. Vangeli e Atti degli apostoli, Queriniana, Brescia, 2014, 88]. Di solito, infatti, le parabole si concentrano nell’ottica del portare frutto (il buon seminatore in Mt 13, 1-23).

In questa seconda similitudine Gesù invece presenta la condizione di crescita del bene (il grano) con il male (la zizzania: “loglio” in molte versioni, un’erbaccia comunemente riconosciuta come zizzania e che assomiglia molto al frumento), e la successiva richiesta dei servi di strappare quest’ultima per poi bruciarla. Il Padrone di casa, però, si oppone «perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano» (Mt 13, 29). Necessaria sarà la crescita di entrambi fino al giorno della mietitura, o meglio sopportare il male presente e lasciare il giudizio a Dio. Infatti, eliminare il male «potrebbe portare a strappare via anche i buoni e, così, la separazione deve essere lasciata ad un giudizio futuro del Figlio dell’uomo» [R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia, 2001, 271].

Il “campo” del padrone pertanto è «il mondo» (Mt 13, 38), che fa crescere i figli del Regno come un granello di senape (Mt 31-32) o come il lievito (Mt 13, 33). Il mondo, rappresentato dalla Chiesa, che però raccoglie scandali e operatori di iniquità. Il problema, così, «non sta nel fatto che i cattivi esistano nel mondo in generale, ma che ci siano dei cattivi dove il Figlio dell’Uomo ha seminato i buoni; la semente sono i membri della Chiesa; non la parola» [J.L. MacKenzie, «Il Vangelo secondo Matteo» in Grande commentario biblico, Queriniana, Brescia 1973, 933]. Una soluzione del problema puramente escatologica ma che parte dal presupposto che la Chiesa non è una comunità formata da puri – come si ritenevano le comunità legate a Qumran –, ma anche di infedeli che trovano la pazienza di Dio fino al giudizio che determinerà il destino finale dei quest’ultimi.

La conclusione della parabola non rappresenta quindi una banale speranza o rassegnazione, ma una comprensione del mistero cristologico relativo al problema del male: Gesù, sofferente mite e paziente, rinuncia a porre fine alla sua passione – «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui» (Mt 27, 42) – affinché il mondo venga cambiato per mezzo della stessa sofferenza.

Ci troviamo di fronte al concetto di tempo che resta superiore allo spazio e alla dinamica di crescita resa più importante ad una semplice una classificazione manichea tra bene (dentro) e male (fuori). Una logica già presente negli ultimi scritti dell’AT, influenzati dal pensiero ellenistico, che ponendo Dio al di sopra di tutto – «Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose» (Sap 12, 13) – lo presentano come «padrone della forza» (Sap 12, 18), che giudica con mitezza e governa con indulgenza. Egli, infatti, non è giudicabile dal suo irrompere nella storia per sradicare il male dal bene, ma nel suo pazientare fino al termine della mietitura finale. E anche il suo entrare nella storia è realizzato attraverso la tenerezza di un infante: Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace» (Is 9, 5).

«Questi è colui che ha annunziato e mostrato nei popoli le sue imperscrutabili ricchezze, affinché le genti fossero coeredi e concorporali (cfr. Ef 3, 6), cioè di questi stesso, sulle cui spalle è la sovranità, cioè il regno e la potenza nella croce. Infatti, esaltato sulla croce, ha attirato tutti a se stesso (cfr. Gv 12, 32). Porterò infatti la pace sui principi, la pace e la salute a lui stesso. Grande sarà il suo dominio e la sua pace non avrà fine» [Basilio il Grande, Interpretazione sul profeta Isaia, 9, 266, in PG 30, 512-513].

 

Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)