Articoli / Blog / Le interviste | 26 Giugno 2020

Intervista a don Giovanni Carpentieri – Periferie esistenziali e chiesa di Roma

Ho intervistato don Giovanni Carpentieri per L’Osservatore Romano qualche giorno fa. L’articolo è uscito sul numero del 23 giugno 2020 con il titolo “Un catino, un asciugamano, dell’acqua e un grembiule”. Qui oggi pubblichiamo una versione extended della medesima

Don Giovanni, due parole di presentazione. Chi è lei?
Sono romano di nascita, sono prete e sono un educatore professionale. Dico sempre: “scegliete la metà che vi sta simpatica e scartate quella che vi sta antipatica, più di così non posso fare!” La mia famiglia è romana, ho fatto il Seminario Romano e sono stato ordinato dal card. Ruini nel ’92. I miei primi 11 anni di incarico pastorale sono stati quelli di un normalissimo viceparroco. Ho iniziato al Nuovo Salario, poi sono sceso giù al Quadraro, poi Cinecittà Est e infine un pezzettino a Villa Fiorelli: “il pezzettino” ha dato inizio al mio attuale incarico. Compito che porto avanti da 17 anni sotto tre diversi cardinali vicari di Roma: prima Ruini, poi Vallini e attualmente il cardinal Angelo De Donatis. Da 17 anni, quindi, mi occupo di disagio giovanile, cerco cioè di entrare in contatto con quella fascia di ragazzi che va dai 14 ai 22 anni, che purtroppo a Roma è invisibile. Quando se ne avverte la presenza – eppure de macelli ne fanno parecchi e parecchio! – è solo perché esplode in episodi che, in quel momento, diventano conosciuti a tutti.

Perché non si è accontentato di fare il prete normale?
Prima non mi ero affatto accontentato di fare il prete e come lo faccio ora, per me, non è normale, ma normalissimo! Tutto nasce in Seminario. Ricevetti una formazione – mi piace definirla “addestramento”, con riferimento al Salmo 143 dove si dice che “il Signore addestra le mie mani alla “battaglia” – che non fu specifica, anzi, quasi casuale. Conobbi una persona che mi insegnò a fare quello che io adesso sto facendo: volevo diventare prete, mi insegnò come fare il prete. Non è stata una formazione progettata a tavolino ma piano pianino, in maniera casalinga, anzi casareccia, a mozzichi e bocconi. Cominciai a capire come si sta in una comitiva pomeridiana, cosa significava avere un ragazzo in dipendenza, cosa significava una comunità, come s’incontrano i ragazzi in una classe di scuola, in una discoteca o in una famiglia che ha il figlio agli arresti domiciliari, ecc… Lui stesso, questa persona che m’insegnava, veniva da un percorso sofferto, sofferente, che aveva fatto soffrire, ma poi qualcosa lo aveva cambiato, anche grazie ad un prete che nel frattempo era diventato il mio Rettore di Seminario, il vescovo emerito Luigi Conti. E così io, per i primi 11 anni, misi in pratica il proverbio “impara l’arte e mettila da parte”: già da viceparroco mi preoccupavo di tutta quella fascia giovanile che assolutamente non entrava in parrocchia – per come è adesso, io considero la parrocchia una realtà al capezzale di se stessa e bisognosa di ripensarsi in tutto – e così adesso ringrazio il Signore per quegli anni che mi hanno permesso di prepararmi a fare ciò che sto facendo ora.

Arriviamo così nel 2003. Che cosa accadde?
Anche su invito (per non dire pressione, che da sempre definisco provvidenziale!) di una persona conosciuta nei miei primi 11 anni di viceparroco, mi decisi a chiedere al cardinale Ruini, attraverso l’intelligente mediazione dell’allora vescovo vicegerente Mons. Nosiglia, di poter avviare il mio desiderio pastorale: chiesi di occuparmi di disagio giovanile. Una vecchia denominazione parlerebbe di “pastorale di strada”, denominazione per me insulsa, intesa solo a fare colpo:io ad essa, invece, preferisco “periferie esistenziali”, il modo di dire di Papa Francesco. Nel mio caso chiedevo di occuparmi di periferie esistenziali giovanili. Curiosamente, Ruini mi diede tranquillamente questo permesso, forse per mettermi alla prova, forse aspettandosi che io cadessi per potermi inquadrare nuovamente, o chissà cosa: gliene sono sempre stato grato e comunque questa cosà mi colpì non poco, incoraggiandomi al tempo stesso: su consiglio benedetto di quella persona, avevo fatto bene a chiedere! E, così, seppure un pochino attenzionato, partii. E posso dire che tante cose belle sono state fatte in questi 16 anni.

Perché non ha pensato di impegnarsi in qualcuna delle realtà ecclesiali già esistenti e che già facevano qualcosa di simile?
Devo dire una cosa che darà certamente fastidio a qualcuno di quelli che leggeranno questa intervista. Ciò che sto per dire però è la mia esperienza di vita e pertanto non la posso tacere. Io considero il modello cattolico dei movimenti, dei gruppi, delle associazioni, un “cartello” superato perché finiscono sempre per essere autoreferenziali e quindi finiscono con l’occuparsi sempre prima e sempre più di se stessi, ovviamente il tutto in nome dell’Evangelo!

Perché usa l’espressione “cartello”? Fa venire in mente il cartello di Medellin…
Non è un caso e La ringrazio di darmi la possibilità di sottolinearlo. Posso richiamare le parole di Paolo “io sono di Apollo, io di Paolo, io di Cefa…io sono di Cristo” (cfr 1Cor 1,10-13): i cartelli sono sempre esistiti. Io celebro l’eucarestia in nome del vescovo e quindi svolgo la mia carità in nome del vescovo. Fin dal seminario, imparai a mettere a disposizione della chiesa locale, in modo trasversale, tutte le mie competenze. Desidero fare il prete facendo crescere nella chiesa locale quello che ho ricevuto a suo tempo. I movimenti purtroppo finiscono sempre per essere autoreferenziali, tendono sempre a lavorare per il proprio carisma: io non mi ci trovo. E devo ringraziare il Signore anche di questo perché se quello che ho detto non lo avessi capito fin dal Seminario avrei finito per essere l’ennesimo fondatore dell’ennesimo movimento che si occupa dell’alettone destro dell’ala sinistra, e mi scuso dell’esempio che fa riferimento alle grandi progettazioni ingegneristiche che si vedono nei documentari americani.

Quindi, quando lei inizia la sua attività pastorale ha presente il vangelo del Buon Samaritano…
Sì. A me la dicitura “prete di strada” non piace: né per me, né per altri. Mi va molto stretta, molto stretta. Io mi sento molto più descritto dalle parole di Papa Francesco dell’Evangelii Gaudium. Non si tratta di fare evangelizzazione di strada. Non si tratta di fare evangelizzazione esplicita, tanto meno si tratta di parlare di Gesù come siamo abituati a fare. L’icona che abbiamo presente è quella del Buon Samaritano. Che fa il Buon Samaritano? Incontrato lo sventurato on the road, attiva una serie di step. Per prima cosa se lo prende in carico, poi lo porta in una locanda, in terzo luogo attiva risorse umane (il locandiere), di spazio (la locanda), poi ci mette anche qualche suo soldino, e infine rimane lì tutta la notte e, promettendo un suo ritorno, garantisce pure quella che noi oggi chiameremmo “una supervisione”! È un progetto di promozione umana. Perché questi ragazzi, ancor prima di aver perso il senso della fede – della quale non importa loro nulla – hanno smarrito il senso della vita. Quindi noi dobbiamo fare come faceva Gesù. Gesù abitava le periferie e comunicava vita. La Buona Notizia di Gesù non è fornire un complesso dottrinale e poi chiedere di aderire a quel complesso, ma consiste nel comunicare vita, dare umanità, umanizzare l’uomo laddove non c’è più né dignità né libertà perché è stato fatto oggetto di sistemi oppressivi religiosi e civili. Sistemi che, nel caso dei ragazzi, sono la dipendenza dalla droga, la dipendenza dall’alcol, le compulsività di diverso genere come lo shopping, il gioco d’azzardo, i disagi familiari, le piccole o micro devianze che poi possono condurre sempre più frequentemente alla macro-criminalità. Quindi sì, noi abbiamo lo stile del Buon Samaritano, il passo dopo passo che insegna lui. Ma, ora Le chiedo: il buon samaritano ha fatto più o meno evangelizzazione di tante evangelizzazioni pre, prima, post, che intendono fare più cassa che altro? Il buon samaritano ha parlato di Evangelo sì o no, come ci esorta a fare Gesù?

Quindi, se lei guarda ai 16 anni passati, non le importa dire quanti si sono confessati, quanti si sono battezzati, quanti sono tornati alla vita cristiana?
Cos’ha fatto Gesù? Gesù ha portato Dio fuori dal Tempio. Ha tolto Dio dal sistema sacrificale, dal sistema rituale, dal sistema cultuale, e, mettendosi in fila tra i peccatori, lo ha portato direttamente lì dove c’era bisogno. Non ha portato l’uomo a Dio ma Dio all’uomo. Se tu porti l’uomo a Dio, c’è sempre qualche ragazzo, c’è sempre qualche persona che tu lasci per strada. Lasci da solo un tossico, lasci da solo un omosessuale, un transessuale, un divorziato, lasci qualcuno che non gliela fa ad arrivare a Dio perché non riesce ad affrontare quel complesso sistema di preghiere, di culti, di sacramenti che, in gran parte, abbiamo costruito noi. Gesù ha portato Dio all’uomo. Ha portato il Volto del Padre, la carezza del Padre, la bontà del Padre, all’uomo. E una carezza la capiscono tutti. Noi quindi cerchiamo di fare proprio questo: “generare processi”, direbbe l’Evangelii Gaudium. Cerchiamo di abitare le periferie esistenziali giovanili e di portare lì la carezza di un cristiano che si mette accanto a una persona. Noi non dobbiamo parlare di Cristo ma dobbiamo fare come Cristo. Fare come Cristo vuol dire armarsi delle armi di Cristo. Quali sono? È il programma battesimale che io traduco con “catino, asciugamano, acqua e grembiule”: è portare la carezza di cui parlo. In questo modo noi cristiani siamo più che vincenti. A me chiedono sempre: ma quanti di questi ragazzi entrano poi in Chiesa? E io rispondo: ma quanti di quelli che hanno battezzato i figli si rivedono solo alla prima comunione di questi figli? Quanti poi, fatta la prima comunione, già non fanno più percorsi successivi? Quante volte, ogni anno, la comunità parrocchiale subisce un’emorragia di cresimati peggio della perdita di sangue dell’emorroissa? Come mai, rispondo, ti preoccupi di farmi questa domanda e non ti preoccupi di farmi un’altra domanda: cosa c’è che non va? Allo stesso tempo ho presente carissimi ragazzi che hanno fatto percorsi di vita al termine dei quali, qualche volta – non tutti, non sempre – cominciano a porti in maniera variegata domande sulla fede. Ma possono passare anche dieci, quindici anni. Posso fare degli esempi. Giovanni [nome di fantasia, ndr] era un ragazzo che ho conosciuto a scuola; un bel ragazzo, aveva sofferenze in famiglia, gli piaceva bere e farsi le canne con conseguente vita abbastanza libertina, fino a che c’ha sbattuto il grugno. Adesso è laureato in scienze motorie ed è uno osteopata. Oppure Giovanna [nome di fantasia, ndr], ragazza che conobbi in una delle tante comitive pomeridiane, in uno dei tanti centri commerciali che ho frequentato, che adesso è una semplicissima mamma con due bambini e fa la parrucchiera. Quando l’ho conosciuta spacciava. Giovanni ha cominciato a fare anche un percorso di fede, Giovanna invece no. Il Signore, diceva l’Abbé Pierre, non ci chiederà se siamo stati credenti ma se siamo stati credibili. Questa frase è una delle bussole che mi orienta tutt’oggi.

Don Giovanni perché noi non vediamo le persone che lei incontra? Noi siamo “disponibili” a pensare che esistano solo se le ambientiamo in qualche strada buia malamente illuminata invece lei dice che sono dappertutto, nelle nostre case e nella nostra vita quotidiana. Gli incidenti d’auto di giovani di cui leggiamo in questi giorni sono probabilmente dovuti all’uso di alcol e droghe. Perché sono invisibili?
Io mi diverto ad “invertire” la famosa espressione di Papa Francesco a proposito di “periferie esistenziali” e parlo di “esistenze periferiche”. Queste esistenze periferiche sono dappertutto a Roma: vanno dalla Roma bene alla Roma meno bene. Perché non si tratta di individuare il giovane tossico, o il tossico non giovane, ma si tratta di intercettare esistenze che, svuotate di vita e riempite di mammona, di egoismi, invece di comunicare vita agli altri, succhiano quella di tutti. Queste esistenze periferiche sono dappertutto, ce ne sono tantissime. Si tratta di fare come Gesù. Si tratta di abitare queste realtà con la modalità del servizio: non annetterle ma viverle mettendosi al loro servizio, comunicando loro vita. Il determinismo psicologico per cui da famiglia buona nasce figlio buono e da famiglia cattiva nasce figlio cattivo, non è vero. È mio pane quotidiano verificarlo. Compito di noi cristiani è quello di stare lì ed andare ad intercettare queste esistenze: trovare questa fascia che non arriva ai servizi sociali, non arriva alla scuola, non arriva a un supporto psicologico: è invisibile, esplode all’improvviso solo perché poi leggi i drammi sui giornali.

Quindi secondo lei l’obiettivo di questa intervista quale potrebbe essere? Lei di cosa ha bisogno?
Per dieci anni abbiamo fatto accoglienza di tasca nostra! E lo continuiamo a fare! In più, adesso, ci sono due case-famiglia per minori a rischio. Sono ragazzi che vengono dal tribunale dei minori. Sono ragazzi e ragazze tra i 12 e i 18 anni che non hanno fatto alcun reato, non hanno commesso nessun crimine, hanno solo avuto la sfortuna di trovarsi senza famiglia, e questo incide molto: alcuni saranno segnati per tutta la vita. Ho anche una struttura semi residenziale dove poter ospitare ragazzi usciti dalle case famiglia. Alla sua domanda vorrei rispondere dicendo che io non ho bisogno di nulla. Mi piacerebbe però che questa intervista spingesse tutta quella “prossimità adulta” a riflettere su quella vita “periferica” di cui abbiamo parlato qui. Penso a quella realtà adulta magari non credente, o non più credente, o diversamente credente, o non ancora credente, che però ha a cuore la fascia giovanile di cui stiamo parlando. È importante abitare queste periferie, questi mondi giovanili, con una prossimità adulta e matura. Questo tipo d’intervento sarebbe richiesto semplicemente dalla giustizia visto che esistono tanti adulti per cui questa realtà giovanile è solo business economico, è solo motivo di soldi: penso alla droga, penso al gioco d’azzardo, penso alla prostituzione minorile, e l’elenco potrebbe proseguire. Pertanto se dovessi dire qual è l’obiettivo di questa intervista, direi che è quella del conoscerci e dell’incontrarci. Poi, certo, esiste anche il bisogno di un’altra struttura, perché molti ragazzi hanno una casa, hanno una famiglia ma hanno anche impicci a vario titolo annegando dentro l’alcol e le droghe e le tradizionali case-famiglia NON sono assolutamente adatte. Su questo punto ci sto lavorando e chiedo aiuto a tutti voi che mi leggete!

La struttura di cui lei parla ha un nome?
Nel tempo abbiamo dovuto creare un’associazione perché per le istituzioni c’è bisogno di un soggetto giuridico. Sono nate Gabriele Onlus (casafamigliasimpatia.it) e fuoridellaporta.it dove si spiega cosa facciamo. Lì ci sono i percorsi – fatti anche a livello diocesano o nell’Università di Roma 3 per i corsi di laurea afferenti al lavoro sociale – che noi offriamo a tutti coloro che vogliono essere presenti a livello giovanile.

Quindi per esempio lei è disponibile ad andare laddove la chiamano e a spiegare come abitare queste periferie, ho capito bene?
Sì. Adesso, per esempio, io faccio due volte all’anno una formazione smart, veloce, rivolta non solo alle parrocchie ma ad ogni realtà ecclesiale che desidera incontrare ragazzi negli ambienti giovanili. In fin dei conti si tratta di imparare a fare il prete come dice la Presbyterorum ordinis quando parla di ministeri parrocchiali o di ministeri sopraparrocchiali (cap. 2, n. 8). A mio modo di vedere quando il Concilio usava queste espressioni non intendeva semplicemente parlare delle cappellanie ma pensava proprio al modo di Gesù di abitare le periferie. Ciò di cui sto parlando è qualcosa che sta iniziando con l’attuale vicario, cardinale De Donatis. Con lui, si sta pensando come riaggiornare (o meglio resettare) il discorso di formazione del prete. Secondo la mia personale opinione: non si può più andare avanti così dal punto di vista pastorale! Ed ecco una proposta per tutti i lettori: con tanto affetto, colgo l’occasione per presentare un’iniziativa diocesana tutta romana, che si chiama: “Ospedale da Campo per giovani”: nasce a cura di un gruppo di diaconi permanenti della diocesi. L’iniziativa è aperta a tutti coloro che ne condividono gli obiettivi e desidera avviare una collaborazione, rivolgendosi a quanti – educatori professionali, assistenti sociali, insegnanti, genitori, medici, avvocati, forze dell’ordine, credenti e non, volontari, ecc. – incontrano nei loro percorsi professionali e di vita quotidiana adolescenti e giovani in dipendenza o con comportamenti difficili da trattare e, al contempo, vogliano dare risposte concrete a tragiche situazioni: facciamolo insieme! Seguiteci su Fb: “Ospedale da campo per giovani”. Il sottoscritto resta a disposizione. Chiunque mi può scrivere o telefonare. La mia mail è [email protected] e il cellulare è 338-1863803

Qui sotto un minuto di don Giovanni Carpentieri a Beati Voi di tv2000

https://youtu.be/6QZUr3O2Epo