Don Massimiliano Nastasi – Riflessioni sulla XIII Domenica del Tempo Ordinario /A

2 Re 4, 8-11.14-16    Sal 88    Rm 6, 3-4.8-11    Mt 10, 37-42

La XIII Domenica del tempo ordinario conclude il secondo dei cinque grandi discorsi di Gesù. Il cap. 10 di Matteo, infatti, composto prevalentemente da Marco e Q – dal tedesco “Quelle”, un’ipotetica fonte storiografica che si suppone sia stata utilizzata nella composizione dei vangeli sinottici – [D.J. Weaver, Matthew’s Missionary Discourse, JSNTSup 38, Academic, Sheffield 1990], e ambientato in un contesto di missione dei dodici discepoli, con l’autorità sugli spiriti impuri ed il potere di operare guarigioni, per motivi liturgici è stato suddiviso in tre sezioni corrispondenti altrettante domeniche: 9, 36 – 10, 8 (istituzione dei Dodici e conferimento della missione); 10, 26-33 (le prove e le persecuzioni); 10, 37-42 (l’accoglienza del discepolo, nuovo profeta neotestamentario).

Quest’ultima parte del discorso sulla missione, redatta utilizzando dei “detti sapienziali” di Gesù, è caratterizzato fondamentalmente dal concetto di dignità: non può essere discepolo chi pone prima del Maestro gli affetti del passato – «Chi ama padre e madre più di me» – o quelli del futuro – «Chi ama figlio e figlia più di me» (Mt 10, 37) – o, ancora, l’attaccamento a se stesso al presente: «Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me» (Mt 10, 38). Ciò indica come l’adesione a Gesù deve venire prima di ogni altro amore, anche nel paradosso: «Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà» (Mt 10, 39).

Se annunciare il regno dei cieli diventa causa di sofferenza e di morte – «Sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (Mt 10, 22) –, accogliere il discepolo apre la porta alla presenza stessa di Dio: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato» (Mt 10, 40). Una partecipazione, però, che diventa segno di divisione: «Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera, e nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa» (Mt 10, 35). Cosicché «se il Vangelo è causa di divisione nelle famiglie, allora il discepolo non ha altra scelta che quella di preferire la nuova comunità a quella del sangue» [J.L. MacKenzie, «Il vangelo secondo Matteo» in Grande Commentario Biblico, Queriniana, Brescia 1973, 925].

Una sofferenza che trova una ricompensa: «Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anche io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10, 32-33). Ricevere il discepolo è ricevere lui e ricevere lui è ricevere Dio che lo ha mandato.

In questi detti sapienziali è possibile così comprendere come «anche prima di essere crocifisso, Gesù sapeva che altri avevano da giocare un ruolo nella diffusione della buona notizia del regno e le direttive nel discorso hanno una forza permanente nella missione cristiana conosciuta dai lettori di Matteo» [R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia, 2001, 266].

Gerd Theißen, professore di Nuovo Testamento della Facoltà di Teologia evangelica dell’Università di Heidelberg, mette in risalto la radicalità delle esigenze che Gesù propone ai suoi discepoli, nella tradizione evangelica in generale e nella fonte Q in particolare. Particolarmente nei “missionari” di Q, predicatori carismatici itineranti che vivevano effettivamente senza famiglia, senza casa e senza denaro. Così come nell’invio in missione, che suppone l’avversità, la mancanza di mezzi e la dipendenza dall’ospitalità altrui, elementi presenti nel c. 10 di Matteo [Sociologia del cristianesimo primitivo, Marietti, Genova 1987, 5ss e 73ss].  Infatti, «la vita del discepolo rimette in discussione i legami familiari, non solo in ragione del suo carattere itinerante, ma anche a motivo di una scelta che certo non crea unanimità nella comunità familiare» [D. Fricker – N. Siffer, La fonte Q. Il “vangelo” ritrovato di Gesù, Figlio dell’uomo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2011, 195].

Altri “detti” si caratterizzano, invece, sul concetto di accoglienza – «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato» (Mt 10, 40) – ma sviluppato nel gesto di cortesie e di gentilezza: «un solo bicchiere d’acqua fresca» (Mt 10, 42).

Tale accoglienza generosa si riscontra ottocento anni prima di Gesù dall’illustre donna nei confronti di Eliseo, che desidera far costruire una piccola stanza per il profeta (2 Re 4, 10) e che ottiene in ricompensa il dono della maternità: «L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio fra le tue braccia» (2 Re 4, 16). Così come il patriarca Abramo che accogliendo i tre divini ospiti (Gen 18, 1-8) riceve l’anno seguente la nascita del figlio Isacco: «Il Signore visitò Sara, come aveva detto, e fece a Sara come aveva promesso» (Gen 21, 1).

Gli esempi di Eliseo o di Abramo, altro non dicono che «chi accoglie un giusto perché è un giusto, sarà ricompensato come un giusto. E un giusto viene ricompensato con il regno dei cieli. Non vi è in questione nient’altro secondo l’annuncio di Gesù» [K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento. I. Vangeli e Atti degli apostoli, Queriniana, Brescia, 2014, 69-70], che un cristianesimo che punta alle piccole e minime cose di tutti i giorni, alla generosità.

«“Per te ogni giorno siamo messi a morte, siamo stati stimati come pecore da macello” (Sal 44, 23). Quando questo gregge (la Chiesa) ha intrapreso una battaglia di nuovo ordine, dove vive chi era stato ucciso, vince chi era caduto, trova l’anima chi la perde (cfr. Mt 10, 39), allora ha imitato il suo re, ha seguito quella pecora, quell’agnello che come pecora fu condotto al macello e non ha aperto bocca come agnello davanti al suo tosatore (Is 53, 7). Chi tace patisce volendolo; grida chi è dilaniato per forza; né può dolersi della morte colui che la assume con degnazione, non costretto. È segno di fortezza quando uno muore per tutti volendolo; quando viene condotto contro voglia, è effetto di estrema necessità, poiché il primo viene dal disprezzo della morte, il secondo dalla condizione della natura. Cristo, dunque, viene tosato come pecora, volendolo e tacendo, per coprire quella nudità che portò il primo Adamo; è ucciso come agnello affinché, immolato, assolva il peccato di tutto il mondo; dà la propria vita per le pecore (cfr. Gv 10, 11), per adempiere la cura e la pietà del pastore» [Pietro Crisologo di Ravenna, Om. 23, 1: CCL 24, 135].

 

Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)