Don Massimiliano Nastasi – Solennità del SS. Corpo e Sangue di Cristo / A

Dt 8, 2-3.14-16    Sal 147    1 Cor 10, 16-17    Gv 6, 51-58

La liturgia, dopo la festa della Ss. Trinità, celebra la solennità del Corpo e Sangue di Gesù Cristo, culmine delle celebrazioni pasquali, istituita nel 1264 ad Orvieto da Papa Urbano IV per sottolineare alcuni eventi miracolosi riguardanti l’Eucaristia, come quello di Bolsena. Ma soprattutto e per correggere deviazioni dottrinali portate avanti dal filosofo francese Berengario di Torus (998-1088) il quale affermava nella sua opera De sacra coena adversus Lanfrancum che la presenza di Cristo non è reale, ma solo simbolica (signum sacrum). Egli, successivamente, «dopo una serie di spergiuri e ricadute, ripudiò definitivamente il diniego della transustanziazione, si convertì alla fede cattolica» [G. Bosco, Storia ecclesiastica ad uso della gioventù utile ad ogni grado di persone, LSD, Torino 1904, 247].

Festa precedentemente celebrata di giovedì per creare il rapporto con l’Ultima cena, e divenendo così il nuovo “Giovedì Santo” in clima festoso pasquale.

Le letture, pertanto, si orientano sul tema del cibo e del mangiare dell’esperienza del deserto d’Israele, ponendo come base l’istituzione dell’Eucaristia dove il Signore si fa alimento per il suo popolo. Un memoriale in cui «l’esperienza esodale dell’avvento viene di fatto ad essere vissuta (caritas quaerens intellectum); memoria del passato normativo e fontale della rivelazione, dell’“una volta per sempre” del venire di Dio nella pienezza del tempo e della attualizzazione di questa venuta nella vivente tradizione della fede (fides quaerens intellectum)» [B. Forte, «La Scuola Teologica Napoletana», in Communio 138 (1994) 44].

Questa memoria del passato normativo e fontale si pone in essere nelle parole di Mosè prima di lasciare che Israele entri nella realizzazione della promessa di Dio ad Abramo: «Alla tua discendenza io darò questa terra» (Gen 12, 7). Nel Deuteronomio, una raccolta di omelie attribuite al grande liberatore ambientate nelle steppe di Moab, oltre il Giordano alle porte della Terra promessa, egli invita il suo popolo a fare memoria: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto» (Dt 8, 2).

L’umiliazione e la fame che Israele ha patito, diventano così la consapevolezza dei suoi limiti, ma anche conoscenza viva della mano provvidente di Adonai che lo ha nutrito con la manna, un prodotto naturale del deserto ma che rappresenta il sacramentum con cui il Signore si è fatto vicino come un padre: «Questo tuo alimento manifestava la tua dolcezza verso i figli» (Sap 16, 21).

L’esperienza veterotestamentaria della donazione di Dio ad Israele raggiunge il suo culmine nella promessa di ricevere la vera manna, la Sapienza – «Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei frutti» (Sir 24, 19) – ma ancora in una condizione di peccato che non permette una piena comunione con Dio: «Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me avranno ancora sete» (Sir 24, 21).

Solo quando «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14) e successivamente risorto porta al cielo la carne stessa dell’umanità, la promessa d’Israele trova compimento e l’uomo si rende capace di ricevere pienamente questa presenza in modo permanente: «Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6, 51). Infatti, «dato che il Figlio dell’uomo è colui nel quale Dio e umanità si incontrano, è assai consono che Gesù identifichi l’Eucaristia con se stesso in quanto Figlio dell’Uomo» [B. Vawter, «Il vangelo secondo Giovanni», in Grande Commentario Biblico, Queriniana, Brescia 1973, 1398].

Quando Gesù invita a mangiare la sua carne, intende invitare l’uomo a credere ed accogliere interamente tale presenza. Egli, infatti, «non è stato mandato dal Padre in quando mediatore della salvezza come se la salvezza fosse una terza entità che si può scindere da Gesù, e che Gesù avrebbe soltanto utilizzato per poi congedarsene. Lui stesso è, in quanto uomo in carne ed ossa e totalmente, la salvezza di Dio per il mondo» [K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento. I. Vangeli e Atti degli apostoli, Queriniana, Brescia 20014, 453]. Per ricevere la salvezza non è sufficiente ascoltare le parole di Gesù, ma accoglierlo in sé in quanto sola Parola di Dio, Dio stesso fatto uomo.

Il Cristo, poi, non è venuto semplicemente a soddisfare la fame terrena, ma attraverso lo Spirito Santo, a dare un alimento che avrebbe nutrito la gente per la vita eterna. Egli è, in questo modo, «il Pane di Vita, nel senso che la sua rivelazione costituisce un insegnamento da parte di Dio (6,45), così che si deve credere nel Figlio per avere la vita eterna» [R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 2001, 474]. Come scrive Efrem il Siro, Gesù infatti «chiamò il pane suo corpo vivente, lo riempì di se stesso e del suo Spirito. […] E colui che lo mangia con fede, mangia Fuoco e Spirito. […] Prendetene, mangiatene tutti, e mangiate con esso lo Spirito Santo. Infatti è veramente il mio corpo e colui che lo mangia vivrà eternamente» [Om. IV della Settimana Santa: CSCO 413 / Syr. 182, 55].

Il corpo del Signore risorto è la vera manna e sacramentum di Dio che si rende tale attraverso l’esperienza della memoria che rende presente ciò che è stato e l’esperienza attuale della storia della salvezza. Ma è anche costituzione stessa della comunità cristiana, come scrive Paolo intorno al 53, dopo pochi anni dall’ascensione di Gesù: «Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1 Cor 10, 17).

Un impegno non solo ad entrare in comunione con il Risorto nella sua stessa vita – «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (Gv 6, 56) – ma essere costruttori della comunità ecclesiale, o meglio donarsi nella vita, nell’impegno e atteggiamento costante ad essere uniti al Signore nella sua Chiesa per sentire i benefici della redenzione. Solo così «la nostra unione con Cristo, che è dono e grazia per ciascuno, fa sì che in Lui siamo anche associati all’unità del suo corpo che è la Chiesa. L’Eucaristia rinsalda l’incorporazione a Cristo, stabilita nel Battesimo mediante il dono dello Spirito» [Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Ecclesia de Eucharistia (17 aprile 2003), 13].

«Ciò che si vede ha un aspetto materiale, ciò che si intende produce un effetto spirituale. Se vuoi comprendere [il mistero] del corpo di Cristo, ascolta l’Apostolo che dice ai fedeli: Voi siete il corpo di Cristo e sue membra (1 Cor 12, 27). Se voi dunque siete il corpo e le membra di Cristo, sulla mensa del Signore è deposto il mistero di voi: ricevete il mistero di voi. A ciò che siete rispondete: Amen e rispondendo lo sottoscrivete. Ti si dice infatti, Il Corpo di Cristo, e tu rispondi: Amen. Sii membro del corpo di Cristo, perché sia veritiero il tuo Amen»: Agostino, Serm. 272, 1, in «Opera omnia di sant’Agostino», vol. XXXII/2 («Discorsi [230-272/B]: sui Tempi liturgici», tr. it. P. Bellini – F. Cruciani – V. Tarulli), NBA – Città Nuova, Roma 1984, 1166.

 

Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)