Don Massimiliano Nastasi – Solennità di Pentecoste / A

At 2, 2-11    Sal 103    1Cor 12, 3-7.12-13    Gv 20, 19-23

Il cammino della Chiesa nel tempo liturgico pasquale termina con la grande celebrazione di Pentecoste, memoriale ed invocazione della presenza dello Spirito del Padre rivelato e promesso da Gesù: «Veni, Sancte Spiritus, et emitte caelitus lucis tuae radium» [Stephen Langton, Sequentia]; solenne richiesta nell’ottenere la gioia eterna diventando «figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo “Abbà! Padre» (Rm 8, 15).

Dopo cinquanta giorni dalla Pasqua e l’ascensione di Gesù (At 1, 9), secondo la testimonianza dell’evangelista Luca, lo Spirito si manifesta in potenza agli apostoli insieme a centoventi persone (At 1, 15), tra i quali Maria la madre del Signore, riuniti a Gerusalemme «nella stanza al piano superiore / οἶκος» (At 1, 13). Pertanto, non viene indicato il luogo se non: «dove erano soliti riunirsi», e tuttavia «non va dimenticato che il termine greco oîkos era usato nel giudaismo per indicare il Tempio (cfr. 1 Re 7, 31; Mc 11, 17; Gv 2, 16; Lc 11, 51). Se i centoventi fossero stati riuniti nel Tempio, si potrebbe fare un interessante riferimento a Ez 41, 1ss. ove il fiume di acqua che dà vita sgorga dalla soglia del Tempio» [B. Corsani, «Pentecoste: il discorso di Pietro (At 2, 14-40)», in Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, M. Làconi e coll. (a cura di), Elledici, Torino 20022, 468].

Il motivo del ritrovo dei centoventi con Pietro è fare memoria della ricorrenza giudaica della festa delle Settimane (שבועות / Shavu’òt), commemorazione legata alla mietitura del grano. Essa durava sette settimane dalla Pesach (Dt 16, 9-10), durante la quale si respirava un’atmosfera di gioia: «Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete» (Is 9, 2; cfr. Ger 5, 24; Dt 16, 9-11). Successivamente alla riforma di Esdra e Neemia, al tempo di Ciro di Persia (VII-VI sec.), essa subisce una storicizzazione e resta collegata alla liberazione dall’Egitto divenendo così la festa dell’Alleanza nel dono della Torah e delle Dieci Parole (עֲשֶׂרֶת הַדְּבָרִים / asèret hadvarìm: Dt 4, 13).

Gli apostoli, dunque, mentre leggevano e commentavano la parashah – che contiene il Decalogo – e il libro di Ruth – che invece si riferisce alla festa della mietitura – lo Spirito apparve come lingue di fuoco che si dividevano e «si posarono su ciascuno di loro» (At 2, 3). Il verbo utilizzato da Luca è «eκατσε» (sedette) per meglio indicare come il Paraclito scende per prendere dimora in loro e renderli «tempio dello Spirito Santo» (1 Cor 6, 19). Concetto tipicamente paolino che viene maggiormente rafforzato attraverso la descrizione della teofania (fragore, vento, fuoco) che richiama la presenza di Adonai sul Sinai e nell’Arca dell’Alleanza.

L’evangelista Giovanni, che scrive successivamente agli Atti degli Apostoli, si discosta dall’indicazione temporale di Luca e descrive come il primo giorno della settimana, il giorno stesso della resurrezione, il Risorto appare ai suoi discepoli è effonde su di loro il dono di una nuova creazione conferendo la missione evangelizzatrice: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20, 22-23).

Lo Spirito Santo altro non è che la vita stessa di Gesù che viene comunicata ai suoi discepoli grazie alla resurrezione, ma che in realtà è donata già al momento della sua morte – «E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19, 30) – perché in essa si è donato completamente all’uomo. Sulla croce, infatti, avviene una “tradizione”, ossia il momento culminante della morte di Gesù non è presentato come perdita della vita, bensì come trasmissione della vita stessa («παρέδωκεν τὸ πνεῦμα» / «rese lo spirito»), trasmessa alla madre e al discepolo presenti ai piedi della croce (Gv 19, 26).

Gesù, infatti, li porta ad una relazione madre-figlio e, in tal modo, costituisce una comunità di discepoli che gli sono madre e fratello, la comunità che ha conservato questo Vangelo. «Con questo, il Gesù giovanneo è in grado di pronunciare la sua ultima parola dalla croce: “È compiuto”, e di rimettere il suo spirito alla comunità credente che sta lasciando» [R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia, 2001, 489].

Il dono del Paraclito, pertanto, è donato da Gesù sul Golgota; egli aveva promesso che quando fosse stato glorificato, quelli che credevano in lui avrebbero ricevuto lo Spirito. Soltanto Giovanni, infatti, «parla della morte di Gesù, come di un “dare” lo spirito, indubbiamente perché intende rammentare al lettore che a noi verrà dato lo Spirito quale risultato della glorificazione di Gesù» [B.Vawter, «Il vangelo secondo Giovanni», in Grande Commentario Biblico, Queriniana, Brescia 1973, 1431].

Nell’episodio della domenica di Pasqua (Gv 20, 19-23), l’evangelista preserva invece la tradizione condivisa da altri vangeli che il Gesù risorto appare agli apostoli (Gv 20, 24), gli antenati della più vasta chiesa. Infatti, è proprio nello stile di Giovanni, anche senza rifiutare i Dodici (specialmente Pietro), dare la priorità al discepolo che Gesù amava. Allora, probabilmente, «Giovanni vuol dire che quando Gesù chinò il capo verso coloro che erano presso la croce, vale a dire i credenti che furono poi ricordati come gli antenati della comunità giovannea, egli consegnò loro lo Spirito Santo. Essi, così, sarebbero stati i primi ad essere costituiti figli di Dio dal Gesù vittorioso, quando fu innalzato sulla croce ma prima che risorgesse dai morti» [R.E. Brown, La morte del Messia, Queriniana, Brescia, 20033, 1220-1221].

La sera di Pasqua il Risorto, quindi, si presenta successivamente ai suoi discepoli in piedi – segno del vivente – augurando la pace – indicazione della pace messianica che è la piena realizzazione del progetto di Dio – e mostrando i segni dei chiodi e della lancia, soffia su di loro il Paraclito.

L’azione del soffiare del Creatore è un esplicito riferimento alle origini quando «Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita» (Gen 1, 7) rendendolo «capax Dei» [Agostino, De Trin. 14, 8, in «Opera omnia di sant’Agostino», vol. IV («La Trinità», tr. it. G. Beschin – F. Cruciani – V. Tarulli), NBA – Città Nuova, Roma 19872, 977; Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I.II, 113, 10], capace così di relazionarsi con la divinità. Il Cristo risorto compie pertanto un gesto simbolico nel comunicare il proprio respiro, che è quello di Dio, trasformando gli apostoli in nuove creature. Infatti, «sotto questo aspetto, adesso, la “Parola” di Gv 1,1s. raggiunge il suo obiettivo. Per mezzo di questa parola tutto è stato creato, l’intero mondo. Essa è presente innanzitutto in Gesù (Gv 1,14). Nel potere che egli ora trasmette ai discepoli hanno anch’essi parte alla sua forza creatrice, che ora mira al fondamentale rinnovamento degli uomini» [K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia, 2014, 530].

Lo Spirito Santo, quindi, non viene offerto all’umanità la sera del giorno di Pasqua o cinquanta giorni dopo, bensì è dato completamente nel mistero pasquale di morte e resurrezione, non circoscrivibile nel tempo e nello spazio, e manifestato in diversi modi. Egli poi, come Paraclito, conferma, santifica e rafforza la fede dei discepoli del Risorto, ma fondamentalmente ricrea in loro, attraverso il battesimo, l’immagine e somiglianza della Trinità che si era guastata con il peccato originale, come afferma Paolo: «Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (2 Cor 5, 12). Tutto poi affinché l’uomo possa compiere in pieno il vero comandamento del Maestro: «Che vi amiate gli uni e gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12).

«Dobbiamo dunque concludere che chi ama ha lo Spirito Santo, e, avendolo, merita di averlo con maggiore abbondanza, e avendolo con maggiore abbondanza, riesce ad amare di più. I discepoli avevano già lo Spirito Santo, che il Signore prometteva loro senza del quale non avrebbero potuto riconoscerlo come Signore; e tuttavia non lo avevano con quella pienezza che il Signore prometteva. Cioè, lo avevano e insieme non lo avevano, nel senso che ancora non lo avevano con quella pienezza con cui dovevano averlo. Lo avevano in misura limitata, e doveva essere loro donato più abbondantemente. Lo possedevano in modo nascosto, e dovevano riceverlo in modo manifesto; perché il dono maggiore dello Spirito Santo consisteva anche in una coscienza più viva di esso. […] Forse questo dono fu elargito visibilmente due volte perché due sono i precetti dell’amore: l’amore di Dio e quello del prossimo, e per sottolineare che l’amore dipende dallo Spirito Santo. […] Senza lo Spirito Santo noi non possiamo né amare Cristo né osservare i suoi comandamenti, e che tanto meno possiamo farlo quanto meno abbiamo di Spirito Santo, mentre tanto più possiamo farlo quanto maggiore è l’abbondanza che ne abbiamo»: Agostino, In Io. Ev. Tr., 74, 1-2, in «Opera omnia di sant’Agostino», vol. XXIV/2 («Commento al Vangelo di San Giovanni [51-124]», tr. it. E. Gandolfo), NBA – Città Nuova, Roma 19852, 1114.

 

Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)