Le religioni spiegate ai giovani – L’introduzione

L’inter-religiosità è tanto lontana dal sincretismo religioso e dall’indifferentismo, quanto dal fondamentalismo: cerca di mostrare come ogni credente, a partire dal più assoluto rispetto del dogma interno della propria religione, può collaborare nel risolvere i problemi che affliggono attualmente il nostro Paese, nella convinzione che la conoscenza è alla base dell’accoglienza e dell’accettazione fra diversi, e il credo religioso, qualunque esso sia, deve tendere a unire e non a dividere. È questo uno degli obiettivi fondamentali di Le Religioni spiegate ai giovani di cui il sito Cerco il tuo Volto ha pubblicato le pagine introduttive

Se mia figlia sposasse un musulmano, come dovrebbe vivere? Se avesse figli, i miei nipotini dovrebbero diventare musulmani o potrebbero scegliere di essere cristiani? Se la badante di mia madre che abita con me fosse una indù, cosa significherebbe per me vivere con lei? Perché il mio compagno di classe ebreo, il sabato, non usa lo smartphone? Io, che sono battezzata ma che non vado più in chiesa da quando ero bambina, mi trovo a fare dei corsi di yoga strepitosi: perché non diventare buddhista? Anzi, perché non essere tutte e due le cose assieme, ovvero sia cristiana che buddhista? Faccio affari con clienti musulmani: è vero che non rispettano gli impegni quando danno la parola a degli “infedeli”? Perché i fedeli dell’Islam mettono le bombe nella nostra vita? Come devo comportarmi nei miei viaggi in Cina, per non offendere chi mi ospita?

Ecco il genere di domande a cui questo libro va incontro. Data la nostra congiuntura italiana, si aggiungono alle classiche questioni cui si rivolge ogni religione. Dov’ero io prima di nascere? Dove sarò dopo la morte? Cos’è bene e cos’è male? Che senso hanno il dolore e la gioia che sperimento nella mia vita?

Le religioni da sempre hanno cercato di rispondere al bisogno dell’uomo di dare un senso alla sofferenza, alla morte, al male, alla propria esistenza, al perché succedano determinate cose, tipo: perché alle persone buone accadono disgrazie e invece ai cattivi va tutto bene? Il primo passo dell’uomo è cercare delle possibili risposte nelle spiegazioni logiche o scientifiche; finite queste, ci si rivolge alle religioni perché si crede che in esse ci sia un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini: anzi, a volte, un credente arriva a pensare che nella sua religione ci sia non solo un raggio di verità ma la verità tutta intera.

Oltre alle domande “classiche” delle religioni – le domande grandi, infinite e immense che ho appena elencato -, da alcuni anni (non tantissimi) noi italiani sentiamo il bisogno di conoscere le risposte che le altre religioni danno a domande a volte anche non “grandissime”, che però interpellano il nostro quotidiano, come per esempio sapere cosa significa avere un suocero musulmano.

Se non ci si pensa, tutti crediamo di sapere con sicurezza cos’è una religione; ma, appena ci interroghiamo, scopriamo che le cose non sono così semplici. Per esempio, d’istinto tutti penseremmo di annoverare il Confucianesimo tra le religioni, ma poi scopriamo che molti sostengono che in realtà non lo sia, e che anzi perfino altre religioni non siano vere religioni: per esempio, neppure il Buddhismo lo sarebbe, e non parliamo poi di cosa avviene quando si parla di Scientology.

In questo scritto non mi addentro in sottili distinguo ma utilizzo un criterio molto ampio: ho semplicemente considerato “religioni” tutti i culti che determinano in maniera significativa dei modi di vivere rispetto alle questioni “divine” e “misteriose”, e che vengono annoverati come “religioni” nei normali libri sulle religioni; quei libri, tanto per intenderci, che, prima dell’esistenza di Wikipedia, si consultavano per conoscere qualcosa di una religione sconosciuta. Quando tra amici si dice «Hai saputo che Michele ha cambiato religione? Era cattolico ed è diventato…»: ecco in questo libro, vorrei dare nomi e volti a quei “puntini”. Per questo mi sono sforzato non solo di stendere la trattazione più semplice (e corretta) possibile di ogni religione, ma di incontrare anche, per ciascuna di essa, un testimone: qualcuno a cui, quando è stato possibile, ho anche chiesto di leggere e correggere il breve saggio che parlava della sua religione.

Ciascun testimone – anche nel caso di Scientology, anche nel caso del Buddhismo… – ha detto di appartenere a una religione, non a una semplice “organizzazione”: mentivano o dicevano la verità? Non so: ma è certo che, se si vuole parlare con qualcuno, la prima cosa da fare è accettare le parole con cui quella persona definisce sé stessa e quindi, se vogliamo parlare con uomini o donne che si definiscono fedeli di Scientology o del Buddhismo, dobbiamo accettare che siano religioni, almeno nel senso che loro intendono, e non semplici filosofie.

Sgombriamo in primo luogo il campo da un dubbio. In questo libro si parla di fede e di religioni, non di sette (anche se anche all’interno delle grandi religioni possono esserci gruppi o movimenti fondamentalisti a propria volta assimilabili a una setta). Se oltre alle grandi religioni qui trovano spazio anche “altre religioni”, è perché a me le persone coinvolte in esse si sono presentate come fedeli di quelle religioni e non come persone appartenenti a sette: ho incontrato anche rappresentanti di altre religioni che non hanno voluto partecipare al progetto di questo libro e per queste, devo dire, mi rimane il sospetto che le loro, in realtà, siano sette.

Tornando invece alle persone con le quali mi sono relazionato, non solo mi hanno assicurato di non mentire ma hanno detto anche di essere aperte al dialogo con le altre religioni e hanno concordato sull’idea che attualmente nel nostro paese è necessario spiegare ai giovani che la conoscenza è alla base dell’accoglienza e dell’accettazione fra diversi, e che il credo religioso, qualunque esso sia, è uno dei cementi più importanti di quella forza che deve tendere a unire e non a dividere.

Prendiamo il caso di Scientology, che è forse, tra quelle di cui parlo nel libro, l’agenzia religiosa che viene più frequentemente etichettata come “settaria”: finché non ha avuto il libro fra le mani, il suo portavoce non credeva possibile venisse annoverata qui, visto la diffusa nomea con la quale viene definita come setta. Eppure c’è. Non solo perché Massimo Introvigne, uno dei maggiori esperti italiani di religioni, la ritiene tale, ma perché ci sono delle sentenze dello Stato italiano a dirlo e soprattutto perché Luigi Brambani, il responsabile degli Affari Pubblici di Scientology, mi ha dichiarato che i trecentomila scientologist di cui a volte si trova scritto sono solo persone che hanno frequentato qualche attività ma che in realtà gli assidui sono circa un decimo: ciò significa che ci si può avvicinare a Scientology e poi ce ne si può tranquillamente allontanare, e che quindi Scientology non è una setta.

Perché una delle caratteristiche della setta è proprio la sua opacità. Quando si entra in una setta, di essa agli inizi si sa pochissimo e quanto più ci si addentra tanto più se ne rimane invischiati e diventa difficile uscirne. San Cipriano – un Padre della Chiesa cristiano – diceva che « Extra ecclesiam nulla salis», ovvero che al di fuori della Chiesa non c’è salvezza, e questa frase potrebbe sembrare la descrizione di una setta. Ma il Cristianesimo sa da molto tempo che ci sono molti modi per appartenere alla Chiesa, un modo visibile e un altro invisibile; perfino il Catechismo di san Pio X, usando una metafora, spiegava che si può appartenere all’anima della chiesa oppure che si può appartenere al suo corpo. Per mille motivi -ignoranza, errore, cultura, storia personale – il cristiano sa che moltissime persone che conoscono Cristo nominalmente non conoscono davvero Cristo e, viceversa, sa di molti che non lo conoscono ma che ce l’hanno nel cuore inconsapevolmente; per questo nessun cristiano si permette di dire se, nel suo intimo, una determinata persona è davvero vicina o è davvero lontana da Dio. Il cristiano lascia, o dovrebbe lasciare, tale decisione a Dio. Il capo di una setta invece non agisce così. Il capo di una setta è convinto che al di fuori dell’appartenenza esplicita e visibile all’organizzazione che lui indica, ci sia solo la morte: e quindi tanto vale dare la morte a chi vuole uscirne. E così avviene: sempre con l’emarginazione e l’esilio, a volte anche letteralmente.

L’uomo si pone delle domande che non riguardano solo lo spazio e il tempo della fisica, ovvero dove finisca l’universo o quando abbia avuto inizio, ma anche rispetto al senso e al significato dell’universo stesso e della propria vita.

Quando le risposte a domande di questo genere implicano una relazione con un principio primigenio, sia qualcuno o qualcosa, visto che queste risposte generano motivazioni e indicazioni per il modo di agire nel mondo e che da esse originano riti e comportamenti morali, nasce per quelle persone un modello esistenziale che in qualche modo le lega in una comunità: questo fenomeno, complesso e articolato, nel suo insieme viene definito “religione”.

A volte il principio primigenio di una religione viene pensato come trascendente il mondo e l’uomo, altre volte come immanente; a volte questo principio viene personificato in una o più divinità, altre volte invece questa personificazione non avviene, per cui ci si trova di fronte a una religione “atea”, come avviene per il Buddhismo (almeno in molte delle sue forme), il Taoismo (soprattutto nella sua forma più antica), il Confucianesimo o Scientology.

Per moltissimo tempo le diverse religioni erano collegate ad alcuni territori e a contesti specifici. Era così anche nel caso delle religioni che oggettivamente hanno più influenzato la storia del mondo, fatti salvi gli emigranti. Il Cristianesimo per esempio era soprattutto presente in Occidente, l’Islam nei paesi arabi e in parte dell’Asia e dell’Africa, l’Ebraismo in Israele e nella diaspora, il Confucianesimo in Cina, il Buddhismo in parti dell’India, del Nepal e del Giappone, l’Induismo in India, nella penisola coreana e in Indonesia: con la globalizzazione però non è più così. Ecco perché nasce questo libro. In un Paese come l’Italia è possibile trovare, con delle modalità esistenziali importanti, fedeli di diverse religioni. E il fenomeno non si esaurisce in questo. Esistono ormai moltissime concezioni pratiche, idee, prospettive esistenziali che permeano la nostra vita e che, ne siamo consapevoli o meno, appartengono a diverse religioni. Per esempio, quanto Buddhismo c’è in Guerre Stellari o in Avatar, e quanta sensibilità indù è presente in chi decide di vivere in modo vegano o ha un certo tipo di amore per gli animali?

Ciò detto, bisogna aggiungere che un conto è la fede e un conto è la religione. La religione è un fatto culturale, sociale. Consiglio a chi vuole approfondire la cosa di leggere Durkeim, Le forme elementari della religione, un libro del 1912 che sembra scritto oggi. Religione che cos’è? È re-ligio, è legame, è la società che pensa sé stessa “divinamente”, cioè in relazione al “divino” inteso come quell’aspetto misterioso della realtà che sopravanza la mia piccolezza. Ogni generazione ha bisogno di pensare come il suo proprio fare società risponda al bisogno del “divino immanente”, cioè al bisogno di quel “divino” inteso come la rappresentazione di qualcosa che eccede le nostre forze e che ha delle caratteristiche superlative.

Per capire cosa intendo si provi a riflettere a cosa diciamo quando diciamo «Ho visto un tramonto». Bisogna pensare all’inizio del film Tree of life di Terence Malick, L’albero della vita. Le esplosioni dei vulcani, le stelle che implodono. Quando mi chiedo perché esistano quelle cose così misteriose e penso che tutto questo dipenda da qualcosa che eccede la possibilità della spiegazione scientifica, fisica e sperimentale, noi uomini chiamiamo tutto ciò “divino” e, se ad esso aggiungiamo in più tutto il nostro essere “legati insieme”, quella è la religione. Perché re-ligio vuol dire legare insieme: noi siamo “legati insieme” in questa società a proposito di un certo fatto “divino”, dove “il fatto” che ho in mente può essere quanto dice Vittorio Sgarbi, agnostico dichiarato, quando parla del presepe. Oppure il fare la comunione eucaristica avendo una collezione di immaginette di Cristo e della Madonna perché si è in una cella del 41bis di Rebibbia a causa di una condanna per associazione mafiosa. Ancora, sono religione” le discussioni a proposito del crocefisso esposto o meno in un’aula, la corona del rosario impugnata in un comizio politico, il litigare da parte dei cristiani sull’interpretazione del versetto evangelico «Ero forestiero e mi avete accolto» (Mt 25) a proposito di migranti, o dire che il suono delle campane è più bello del salmodiare di un muezzin dall’alto di un minareto. Tutto questo, e ancor di più, è religione. Religione è come una società concreta, reale, pensa sé stessa quando socialmente cerca il senso e il significato del misterioso che riguarda tutto ciò che nell’esperienza soggettiva come in quella oggettiva eccede l’umano, eccede la possibilità di darsi una spiegazione: sto pensando a quando, nell’antichità, si diceva comunemente che qualcosa era divino o anche solo trascendente.

L’uomo, quando tocca quel limite, quel confine, dice che quello è religione. Quel limite è forse la parte più profonda dell’uomo, e lo è a prescindere che sia ateo o creda in un Dio diverso dal mondo. Tanto è così che gli studiosi, per decidere se certi reperti archeologici siano umani o di scimmie, cercano di rinvenire tracce di riti funerari, per esempio accumulo di pollini, che indicherebbero la presenza massiccia di fiori su quelle che erano delle tombe. Si comportano così perché pensano che gesti come quelli siano i primi indizi dell’esistenza dell’umano. Gli scienziati, cioè, pensano che la dimensione religiosa sia parte costitutiva dell’identità umana.

Dalla religione bisogna distinguere la fede, tenendola separata ma non contrapponendola, anzi armonizzando l’una con l’altra. Si passa dalla religione alla fede attraverso il salto nell’assoluto trascendente. Il primo a usare questo criterio è stato Karl Barth, ma questa ormai è la distinzione usata da tutti, anche da Joseph Ratzinger (cfr. per esempio l’importante Messaggio del Papa Emerito Benedetto XVI alla Pontificia Università Urbaniana, 21 ottobre 2014). La fede come differenza rispetto alla religione è l’adesione soggettiva al divino, è la scelta personale dell’appartenenza non come prodotto culturale o sociale ma come fatto personale, individuale. C’è un fondatore, un iniziatore della religione, pensiamo per esempio ad Abramo, a Joseph Smith o a Maometto, e questi ha fede; attraverso i suoi discepoli si forma una comunità e questa comunità fa diventare la fede una religione. La fede iniziale è l’acqua, l’acqua diventa un fiume che costruisce da sé il proprio letto, la comunità costruisce e rafforza gli argini del letto. Nella religione cristiana si narra l’episodio della trasfigurazione del Cristo (cfr. Mt 17, 1-8 e paralleli). È un momento nel quale Gesù fa intravvedere qualcosa della sua divinità a Pietro, Giacomo e Giovanni. Pietro, che per definizione perfino etimologica è l’uomo che costruisce l’istituzione, propone di costruire delle tende. Secondo la sua logica, ovvero la logica dell’istituzione, ovvero la logica della religione, le tende servono per custodire l’approdo visibile all’assoluto trascendente, quella fede che in quel momento si realizza nella visione di un Cristo splendente. Il vangelo dice che Pietro «Non sapeva quello che diceva» (Le 9,33) perché quando si è in paradiso – e quello della trasfigurazione era un momento di “paradiso” – le istituzioni terrene non servono, e infatti Giovanni dice nell’Apocalisse che nella Gerusalemme celeste non ci sono né templi né chiese. Ma, terminata la trasfigurazione, le istituzioni sono necessarie. Nel qui, “le tende” servono. L’incontro con il divino nel momento della scaturigine non ha bisogno di essere custodito: sarebbe un non senso, un ostacolo. Sarebbe come voler riscaldare il fuoco. Però, non appena il momento della trasfigurazione è finito, ecco che le tende servono: allora c’è bisogno delle istituzioni, c’è bisogno della religione. Ovviamente è necessario ricordare che le istituzioni sono al servizio della fede, e non il contrario: la religione nella sua espressione migliore è l’insieme dei fenomeni comunitari tesi a proteggere e alimentare la fede. Però, non di rado, la religione dimentica di essere al servizio della fede. Scorda di mettersi a un servizio che è quello di rinnovare la fede, trascura di promuovere quelle condizioni che consentono alle persone di riprendere la prima esperienza religiosa, quando fede e religione non si distinguevano e o si distinguevamo con grande fatica, e comincia a servire sé stessa. Le istituzioni dimenticano di essere al servizio delle persone e cominciano a pensare a salvare sé stesse, come quando Caifa, a proposito di Cristo, dice: «Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera» (Gv 11, 49-50).

Talvolta si può verificare il decadere di una religione o di im movimento religioso, e tale decadenza si può descrivere attraverso il modello delle tre fasi di Max Weber: fase carismatica, fase tradizionale, fase burocratica (o legale e razionale). Ancora, si potrebbe dire che la religione è la priorità dell’istituzione sulla persona, mentre la fede è la priorità della persona rispetto all’istituzione. La fede vuol dire l’incontro personale con il divino, la relazione personale con il misterioso – che, nel Cristianesimo è un volto («Trascinami con te, corriamo!» da Ct 1,4) – e la religione dovrebbe essere quell’insieme di pratiche sociali tese a vivere concretamente le fede: perché esse vogliono promuovere e corroborare la fede, ovvero la relazione con il divino che ho appena detto, così come a trasmettere in modo vivo e sempre attuale la tradizione di fede che fonda la religione stessa. Per esempio, l’Islam non dovrebbe dimenticare che il musulmano è tanto più perfetto quanto più si avvicina all’esperienza di Maometto; il fedele della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni che è tanto più perfetto quanto più si avvicina all’esperienza di Joseph Smith, l’ebreo a quella di Mosè.

A volte i cattolici si spaventano quando sentono parlare di fede e di religione perché questa distinzione, nata con Barth e consolidatasi con Bonhoeffer, è fortemente sbilanciata contro la religione e a favore della fede. Se però si ha l’equilibrio di armonizzare le due visioni, se ne trae grande giovamento. Ecco cosa disse da papa emerito Benedetto XVI da par suo: «Il teologo evangelico Karl Barth mise in contrapposizione religione e fede, giudicando la prima in modo assolutamente negativo quale comportamento arbitrario dell’uomo che tenta, a partire da sé stesso, di afferrare Dio. Dietrich Bonhoeffer ha ripreso questa impostazione pronunciandosi a favore di un Cristianesimo “senza religione”. Si tratta senza dubbio di una visione unilaterale che non può essere accettata. E tuttavia è corretto affermare che ogni religione, per rimanere nel giusto, al tempo stesso deve anche essere sempre critica della religione. Chiaramente questo vale, sin dalle sue origini e in base alla sua natura, per la fede cristiana, che, da un lato, guarda con grande rispetto alla profonda attesa e alla profonda ricchezza delle religioni, ma, dall’altro, vede in modo critico anche ciò che è negativo. Va da sé che la fede cristiana deve sempre di nuovo sviluppare tale forza critica anche rispetto alla propria storia religiosa» (cfr. Papa emerito Benedetto XVI, Messaggio alla Pontificia Università Urbaniana).

Avere consapevolezza della differenza tra fede e religione serve per distinguere la fede dalla religione come fatto osservabile, ovvero ciò per il quale si chiama religioso un fatto inspiegabile. La religione è il modo in cui una società concepisce sé stessa rispetto al divino. Una generazione fa la società nel modo in cui pensa la religione. Se si capisce cosa voglio dire, si può comprendere l’affermazione per cui “la religione è ovunque”. Se penso alla devozione a Padre Pio, cioè al fatto culturale che diventa sociale, quella è religione: intendo dire con ciò che la devozione a Padre Pio può veicolare una vera fede a Cristo e un corretto culto al santo, ma può anche essere solo un fatto religioso del tutto senza fede. Una processione in cui si fa “l’inchino”, che in realtà è un omaggio al capo mafioso, è religione, non è fede. Le nostrane diatribe italiche sui migranti, o sulle tematiche nazionaliste e sovraniste, sono diatribe politiche, certo, ma non solo: sono discussione anche strettamente legate a quel “religioso” di cui sto parlando.

Ancora: quando i cattolici sono contro quello che dice papa Francesco, spesso sono cristiani di religione ma senza la fede; se chi vuole le chiese e non le moschee, il campanile e non il minareto, prescinde da un rapporto personale con il divino e ha presente solo le dimensioni culturali e tradizionali, quella è religione non è fede. Se chiediamo battesimo, cresima, prima comunione, esclusivamente per la festa religiosa, quella, ancora, è religione non fede.

Chi dice che il Confucianesimo non è una religione, spesso aggiunge invece che il Tao lo è, e lo fa perché confonde religione e fede. Se distinguesse dovrebbe dire: il Confucianesimo è una religione ma non è una fede, invece il Tao è anche una fede, oltre che essere una religione, perché, almeno secondo alcuni, ha un “tu”, una sorta di personalizzazione radicale della natura.

Il nostro libro parla di religione, religioni e fede. E lo fa guardando ai giovani. Nei giovani c’è una grande domanda religiosa. Il problema però è la questione del linguaggio, la questione concettuale. Il giovane che ha la domanda religiosa, la sa esprimere? E, in caso affermativo, quando la esprime come la esprime? E, ancora, sempre in caso di risposta positiva, c’è qualcuno capace di raccogliere quella domanda, di recepirla?

Ho detto che nel giovane c’è una grande domanda religiosa rispetto al divino perché do per scontato il superamento di un primo scoglio. Ho detto che la domanda religiosa è possibile quando si accetta di trovarsi di fronte a qualcosa di non gestibile dalla scienza e dalla tecnologia. Credo die esista nelle giovani generazioni la possibilità di ammettere che la tecnologia abbia dei confini. Se qualche giovane pensasse che la tecnologia sa spiegare ogni cosa, in questo caso la domanda diverrebbe: i giovani sanno riconoscere quale prezzo d’insoddisfazione viene pagato da chi crede che la tecnologia dà ogni risposta? Credo che prima o poi la risposta ovvia arrivi ma, certo, può accadere che l’approdo all’evidenza dei limiti della tecnologia giunga quando ormai non si è più giovani. In ogni caso, a questo livello di domande e di risposte si è sempre confinati alla più moderna, anche se ho preferito anteporre il buddhismo all’ebraismo per omogeneità di contenuti: il primo con l’induismo, il secondo con il cristianesimo e l’islam. Lo stesso criterio è stato seguito per le “altre religioni”, e ho intercettato alcune di quelle che si possono più facilmente trovare in Italia. Per tutte però c’è stata una regola: quella dell’incontro con un testimone, ovvero una persona che sta vivendo quella religione, adesso, in Italia. In qualche caso i testimoni sono stati anche persone che avevano ruoli importanti nell’ambito del loro credo, ma questo non era un requisito necessario: ciò che più importava è che vivessero con sincerità la loro fede.

Per il Cattolicesimo le personalità sono state due non perché quella cattolica sia ancora la religione con più fedeli in Italia, ma perché mi è sembrato importante incontrare una persona sposata (Chiara Giaccardi) e una che vivesse il celibato (don Juliàn Carrón). Il Cristianesimo è, storicamente, l’unica religione che ha bisogno di uomini che vivano il celibato per poter esistere in completezza; infatti, se è vero che quasi tutte le religioni hanno al loro interno persone che vivono il celibato per scelta “religiosa”, solo il Cristianesimo – e ciò è vero sia per i cattolici che per gli ortodossi – ha bisogno per il sacerdozio in senso pieno di persone che scelgano di essere celibi “per amore di Dio”. Per questo mi è sembrato necessario incontrare due cristiani che testimoniassero due modi di vivere così diversi.

Concludo dicendo che quando ho accettato di raccogliere la sfida, bella, avvincente, ma anche complicata, di scrivere questo libro, l’ho fatto perché mi è sembrata un’altra occasione per lavorare sulla via della pace, visto che conoscere l’altro è il primo passo per rispettarlo. Da parte mia, sapendo che l’occhio neutrale non esiste, ho cercato degli interlocutori non solo competenti sulla propria religione ma che condividessero il progetto del libro: quando ho potuto, come ho detto, non solo ho dato loro lo spazio dell’intervista ma anche la possibilità di leggere e suggerire cambiamenti per la religione di loro competenza. E mi scuso, data la sterminata massa di nozioni contenute, delle inevitabili inesattezze che per errore posso aver scritto.

Anche su Lode a Te!