Blog / Rassegna stampa / Rebibbia | 08 Aprile 2020

Don Roberto Guernieri – Carceri sovraffollate, il cappellano di Rebibbia: “Urgente indulto o amnistia, i detenuti nella disperazione”, La Stampa

Il blog conosce da tempo don Roberto Guernieri. In questa intervista a La Stampa eccolo in questa intervista a La Stampa a proposito di Coronavirus e sovraffollamento nelle carceri

ROMA. «Io vorrei che pregassimo per il problema del sovraffollamento nelle carceri. Dove c’è un sovraffollamento c’è il pericolo, in questa pandemia, che finisca in una calamità grave». Per la quarta volta dall’inizio dell’epidemia di coronavirus, Francesco è tornato, lunedì scorso a Santa Marta, a denunciare le condizioni in cui versano migliaia di detenuti in tutto il mondo, rese ancora più precarie e rischiose dalla emergenza sanitaria. Denuncia accolta e rilanciata dal Consiglio d’Europa che, pubblicando ieri le statistiche penali annuali, ha parlato di un «allarme sovraffollamento» particolarmente alto in alcuni Paesi (l’Italia è terza dopo Turchia e Belgio) con un totale di oltre un milione di detenuti in tutto il Continente.

Dati dinanzi ai quali appare inequivocabile il monito del Pontefice: o si trova una soluzione in questo tempo di pandemia, o nelle carceri sarà una strage. Esattamente la paura che provano in questi giorni gli stessi carcerati, seppur ad oggi si registrino un unico decesso di un detenuto a Bologna e 19 contagi su 60mila unità. «Sì, ma tutta questa situazione ha determinato disperazione, incertezza, paura, dolore», dice a La Stampa don Roberto Guernieri, da 29 anni cappellano dello storico carcere romano di Rebibbia che conta attualmente oltre 2600 detenuti, comprese 350 donne con bambini dagli 0 ai 7 anni.

Don Roberto, il Papa lancia l’allarme sovraffollamento negli istituti penitenziari, seguito dal Consiglio d’Europa. A Rebibbia questo problema esiste?

«Eccome se esiste, seppur si tratti di un carcere molto grande. Recentemente ho sentito raccontare da alcuni detenuti: “Hanno aggiunto la settima branda in cella”. Sono frasi preoccupanti, soprattutto in questi momenti di difficoltà. I problemi sono gravissimi, pensiamo che si tratta di una convivenza tra persone che non si sono scelte, costrette a vivere a stretto contatto per tutto il giorno in stanze di tre metri per quattro, con bagno in comune, senza spazio per muoversi. È tutto molto difficile da sopportare».

A ciò si è aggiunge il Covid-19, un terribile virus di facile contagio. Le autorità civili e sanitarie vietano assembramenti e chiudono gli spazi che possano favorirli. In carcere come si fa?

«È una situazione inedita da affrontare. Che io sappia il virus ancora non è entrato a Rebibbia. Sono stato assente negli ultimi giorni ma credo che fino ad oggi non siano stati effettuati tamponi. Guanti e mascherine, quello sì, sono stati distribuiti subito. Naturalmente la pandemia ha stravolto tante cose, a cominciare dal fatto che, per evitare il contagio, le autorità carcerarie hanno deciso di sospendere i colloqui con i familiari. È uno dei motivi che ha determinato la rivolta di inizio marzo».

Ecco, proprio la rivolta. Lei era presente?

«No, ma da quello che mi hanno raccontato posso dire che, in tanti anni che sono qui, una cosa del genere non è mai avvenuta».

Qual è stata la miccia?

«L’allarme coronavirus ha generato disperazione, incertezza, dolore, poca speranza, poca fiducia. Quando una persona vive in questo stato, cosa fa? Una rivolta! Non sto giustificando l’azione, ma voglio dire che non è semplice affrontare la paura di essere lasciati soli, di non farcela, di non riuscire ad essere curati qualora si fosse contagiati e di morire senza nemmeno salutare i parenti».

Adesso la situazione com’è?

«È rientrata, ma ancora, almeno una volta al giorno, i carcerati si fanno sentire battendo alle sbarre le padelle o quello che hanno in cella. In generale c’è tranquillità, ma non vorrei che fosse una pentola a fagioli che ribolle».

Il Papa chiede di pregare per la situazione delle carceri. Lei, in virtù della sua esperienza sul campo, cosa chiede?

«Chiedo l’indulto o l’amnistia. Ci sono stati capi di Stato stranieri che hanno preso queste decisioni alla luce dell’emergenza dettata dalla pandemia. In Italia ancora no. Chiedo al Governo di fare uscire i detenuti, almeno alcune centinaia, non solo quelli che lo meritano ma anche quelli che hanno la possibilità di ritornare in società. Quindi di favorire le misure alternative».

Sulla questione è in corso un duro scontro politico con il Dl sulle carceri contenuto nel “Cura Italia”…

«Ne sono a conoscenza, ma dobbiamo guardare la realtà. Il coronavirus è una aggravante nella vita già precaria di tanti detenuti, non possiamo “restringerli” ulteriormente. Questa è gente che non può uscire a vedere il sole. C’è bisogno che qualcuno torni nella sua famiglia, che dimostri il suo cambiamento, che i reclusi possano essere aiutati a cominciare un cammino di reinserimento in società».

Il carcere favorisce questa riabilitazione, secondo lei?

«A volte sì, ma spesso è solo un parcheggio dove ci sono tante iniziative. Inoltre c’è il problema che tante persone, una volta uscite, si scontrano con una mentalità forcaiola: “Quello è stato a Rebibbia”, “questo è stato fortunato con l’indulto” e via dicendo. Sì è vero, sono persone che hanno sbagliato, ma sono sempre persone. E, in quanto tali, immagine di Cristo».

Il primo step per un ex detenuto sarebbe quello di trovare un lavoro. In questo momento di crisi, però, il lavoro in tanti lo perdono. Cosa propone?

«Questo è il problema più grave. So bene che mancano occupazioni, mancano alloggi. Peraltro tanti, tanti, detenuti non sanno dove andare, non hanno né casa né famiglia. Le comunità sono piene, anche quelle per il recupero dalla droga, le Caritas e gli organismi di accoglienza hanno grosse difficoltà. Eppure niente è come il carcere dove si vivono situazioni di miseria incredibile. Sono veramente poveri… Poveri di affetti e poveri di biancheria o di altre cose necessarie per la sopravvivenza che è difficile procurarsi. Pensi che anche per lo spazzolino o la carta igienica bisogna fare la richiesta scritta».

Lei in che modo aiuta?

«Con i miei confratelli pensiamo a vestirli, a lavarli, portiamo qualche genere alimentare che riusciamo a recuperare. Tanti ragazzi vengono arrestati in canottiera e mutande, non è possibile! Abbiamo davanti alcuni giovanissimi, meno di 30 anni, di origine africana o dall’Est, venuti in Italia a trovare uno sbocco di vita. Personalmente organizzo la raccolta di tante cose, sto con i più bisognosi, li aiuto, li ascolto. Faccio in modo di mantenere i rapporti con famiglie, avvocati, magistrati per accompagnarli nella loro situazione giuridica dall’esterno».

A livello spirituale cosa fa?

«Li confesso, celebro le messe nella cappella del mio reparto. Adesso abbiamo dovuto rivedere tutto: celebriamo in piccoli gruppi, a turno, mantenendo le distanze. E ora è iniziata la Settimana Santa…».

Come celebrerà Pasqua? Ha inventato qualcosa di nuovo?

«Possiamo fare molto poco. Solitamente in questi momenti forti abbiamo delle tradizioni, come ad esempio a Natale il concorso dei presepi e la colazione con panettone e cioccolato caldo. A Pasqua ripetiamo con le colombe, ma adesso non so se riusciremo a recuperarle. È una Pasqua penalizzata rispetto agli anni passati, ma accontentiamoci di quello che possiamo fare. Il Signore è risorto e ci aiuterà a vincere il virus e porterà speranza nella vita di ognuno».

Tratto da La Stampa