Don Massimiliano Nastasi – Riflessioni sulla VII Domenica del Tempo ordinario / A

Lv 19, 1-2.17-18   Sal 102    1Cor 3, 16-23   Mt 5, 38-48

La VII domenica del tempo ordinario segue il primo grande discorso di Gesù detto della montagna con le ultime due “antitesi” delle prime tre ascoltate domenica scorsa. Antitesi che, come abbiamo visto, non si contrappongono alla legge degli antichi, ma conducono l’uomo alla piena realizzazione della legge stessa, che è la grazia, come scrive Paolo: «Ora, invece, morti a ciò che ci teneva prigionieri, siamo stati liberati dalla Legge per servire secondo lo Spirito, che è nuovo, e non secondo la lettera, che è antiquata» (Rm 7,6). Infatti, la legge antica è così resa perfetta dalla «legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù» (Rm 8,2).

«Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio» (Mt 5,38-39). La quarta antitesi cita la legge del taglione, lex talionis, termine latino medievale che ha il significato di “tale e quale”, ossia rendere proporzionata la pena alla colpa. Già presente nel Codice di Hammurabi intorno al 1750 a.C., e poi successivamente nel 450 a.C. nelle XII tavole del diritto romano arcaico («Si membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio esto»: Tav. VIII, 2), anche il giudaismo la integra nel codice di santità: «Se uno farà una lesione al suo prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente» (Lv 24,19). Tale statuto, perciò, lontano da una norma fondata sulla vendetta, segue il quadro della giustizia, ossia impone una pena proporzionata alla colpa.

Gesù, non abrogando la disposizione, propone ai suoi discepoli di superare la semplice giustizia retributiva attraverso il dono di grazia che permette di cambiare il cuore dell’uomo. Ciò, infatti, pone fine alla stessa violenza iniziata dal malvagio per costruire un legame di amore.

L’ultima antitesi: «Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico» (Mt 5,43; cfr. Lv 19,18) «fa riflettere su come si diventa figli di Dio, e sul cammino verso la massima somiglianza possibile» [K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia, 2014, 40]. La seconda parte del precetto sull’odiare il proprio nemico, «non si trova nel VT, né può essere considerato come parte dell’insegnamento rabbinico così come è stato preservato» [J.L. MacKenzie, «Il vangelo secondo Matteo», in Grande Commentario Biblico, Queriniana, Brescia 1973, 913]. Esso, invece, rappresenta indubbiamente «l’interpretazione popolare dell’amore per il prossimo; a nessuno può essere comandato di odiare i suoi nemici» [M. Smith, HarvTR 45 (1952) 71-73]. Il Maestro, anche in qui, propone di perfezionare la legge, che di per sé è buona, creando la possibilità dell’incontro anche con il nemico e così offrirgli l’opportunità di una conversione. L’amare il proprio prossimo, infatti, non determina una «ricompensa» (Mt 5,46) in quanto resta un amore immanente comune a tutti; ma è necessario aprirsi all’amore di grazia dove si apprende la capacità di andare oltre l’impossibile.

L’evangelista Matteo nel discorso della montagna, come pienezza della Legge, in sintesi, non intende proporre il semplice imitare Dio, che resta principio stesso dell’etica, riconosciuto anche dal filosofo Seneca nel 60 d.C.: «Se imiti gli dèi […] devi fare del bene anche a coloro che sono ingrati; infatti il sole sorge anche per gli scellerati e i mari sono aperti anche ai pirati» [De beneficiis, 4, 26; tr. it., I benefici, in Tutte le opere, Bompiani, Milano, 2000, 415]. Presenta, invece, una nuova condizione di vita attraverso la grazia di Gesù risorto che rende i discepoli capaci di oltrepassare l’immanente per essere «perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48).

«La carità è la migliore disposizione dell’animo, che nulla preferisce alla conoscenza di Dio. Nessuno tuttavia potrebbe mai raggiungere tale disposizione di carità, se nel suo animo fosse esclusivamente legato alle cose terrene. Chi ama Dio, antepone la conoscenza e la scienza di lui a tutte le cose create, e ricorre continuamente a lui con il desiderio e con l’amore dell’animo. Tutte le cose che esistono hanno Dio per autore e fine ultimo. Dio è di gran lunga più nobile di quelle cose che egli stesso ha fatto come creatore. Perciò colui che abbandona Dio, l’Altissimo, e si lascia attirare dalle realtà create dimostra di stimare l’artefice di tutto molto meno delle cose stesse, che da lui sono fatte. Chi mi ama, dice il Signore, osserverà i miei comandamenti (cfr. Gv 14,15). E aggiunge “Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri” (Gv 15,17). Perciò chi non ama il prossimo, non osserva i comandamenti di Dio, e chi non osserva i comandamenti non può neppure dire di amare il Signore. Beato l’uomo che è capace di amare ugualmente ogni uomo. Chi ama Dio, ama totalmente anche il prossimo, e chi ha una tale disposizione non si affanna ad accumulare denaro, tutto per sé, ma pensa anche a coloro che ne hanno bisogno» (Massimo il confessione, Centuria 1, c. 1, 45. 16-17. 23-24: PG 90, 962-966).

 

Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)