Le Lettere di Luciano Sesta – Oltre le semplificazioni di parte il vero significato della sentenza sul suicidio assistito
La Corte Costituzionale ha stabilito la non punibilità, a certe condizioni, di chi aiuta un disperato a morire. Ma ha mantenuto il divieto di prestare aiuto al suicidio. Una contraddizione? Niente affatto. Riconoscere delle attenuanti non equivale a legittimare l’atto, ma a scusare chi lo compie. Una cosa, infatti, è la funzione pedagogica della legge, che orienta gli individui a scegliere la migliore soluzione, altra cosa è la sua funzione sanzionatoria, che deve fare i conti con i drammi umani delle persone.
Che la legge consideri reato ciò che, a determinate condizioni, rinuncia a sanzionare, ha un preciso senso nel nostro caso: il suicidio assistito, se vi si arriva, deve rimanere un’eccezione, diciamo un’uscita di sicurezza in casi di rara emergenza, non l’ingresso principale. Distoglierebbe dalla ricerca di alternative e da una più decisa politica di prevenzione delle condizioni che inducono a richiederlo. Seguendo questa apprezzabile politica giuridica, la Corte ha dimostrato a mio avviso una saggezza superiore a quella che molti sbrigativi commentatori di queste ore sono disposti a riconoscerle. Contrariamente a quanto pensano, su fronti opposti, Cappato e i vescovi, infatti, la Corte non ha aperto le porte al “suicidio assistito”. Se avesse voluto legittimarlo, e non soltanto depenalizzarlo in certe condizioni, avrebbe dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 580. Non lo ha fatto.
Né si può dire, come ripetono in tanti, che non lo abbia fatto per non sovrapporsi alle competenze del Parlamento, lasciando a quest’ultimo il compito di legalizzare la condotta dichiarata non punibile. Se così fosse, la Corte starebbe suggerendo al Parlamento di introdurre nell’ordinamento una legge che contraddice quello stesso art. 580 che, pure, proprio la Corte ha appena dichiarato conforme alla Costituzione. Una simile legge, se approvata, si esporrebbe a un nuovo dubbio di costituzionalità.
Rispetto alla sentenza della Consulta, insomma, Cappato e i vescovi, mentre credono di litigare, sono sostanzialmente d’accordo. Sia l’uno sia gli altri, infatti, pensano che adesso l’aiuto al suicidio sia non solo condotta “non punibile” a certe condizioni, come ha affermato la Corte, ma anche condotta “legittima”, e persino un “diritto” per chi la richiede. Come se avesse senso dire che, in presenza di un “diritto”, chi lo garantisce non deve essere punito, quando è chiaro, viceversa, che la “non punibilità” può esistere solo in relazione a una condotta che è e rimane reato. Se chiedere aiuto a morire fosse davvero un “diritto”, peraltro, non ci sarebbe spazio per alcuna obiezione di coscienza, e il legislatore dovrebbe obbligare il personale sanitario a prestare aiuto al suicidio. Elemento che complicherebbe, ulteriormente, la ribadita costituzionalità dell’art. 580, e che dunque non può essere considerato una logica conseguenza della decisione della Corte.
Luciano Sesta, sposato e padre di quattro bambini, è docente di Storia e Filosofia nei Licei Statali Insegna Antropologia filosofica e bioetica all’Università di Palermo, ed è stato membro dell’Ufficio della Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo. Ha pubblicato numerosi saggi nell’ambito della teologia morale, della bioetica e dell’etica