Alessandra Bialetti / Blog | 17 Agosto 2019

Le Lettere di Alessandra Bialetti – I veri poveri siamo noi

Ap 11,19a 12,1-6a.10ab; 1Cor 15,20-27; Lc 1,39-56

Giorno dell’Assunta. Cercavo una messa da vivere tra gli ultimi ma non per sentirmi grande e arrivata ma proprio per ritrovare in me quella condizione di “ultimo” che mi faccia comprendere di quale fragilità siamo rivestiti e di quanto abbiamo bisogno di essere presi per mano o, meglio, in braccio. Ci fa solo del bene riconoscere continuamente in noi quella dimensione di “ultimità” (il neologismo calza al caso), in cui sentirci sullo stesso piano, fratelli, compagni di viaggio, nessuno superiore all’altro.

Arrivo a Casa Santa Giacinta, struttura della Caritas diocesana di Roma che offre accoglienza e programmi di recupero e reinserimento sociale. Mi viene incontro Ben, sacerdote rumeno che vive stabilmente in comunità dove presta il suo servizio. Mi colpisce immediatamente: a ogni persona che gli si avvicina pone la mano sulla testa e la benedice. Scherza con i capelli di un ospite pieni di gel tanto da pungere e si intenerisce davanti a un altro che fatica a raggiungere la porta della chiesa. Si vede che ha costruito con loro un legame importante e un’intimità fatta di cura. Bene, siamo al posto giusto, giocoliere. Mi tornano in mente le parole del vangelo di qualche giorno fa sul tema del perdere la propria vita. Maria aveva solo da perdere: rispettabilità, futuro, il sogno di una famiglia regolare, la stima, il rispetto della sua gente. E aveva solo da guadagnare: giudizi, rifiuto, condanna, ripudio, la paura della perdita di Giuseppe. Eppure quel “solo” è stata trasformato da un sì. Oggi mi trovo tra persone che hanno perso tutto non per scelta ma per i tanti casi della vita che possono accadere a tutti anche se spesso ce lo dimentichiamo: un tracollo economico, un fallimento affettivo, una malattia, un abbandono. E in un attimo ti trovi senza niente e forse anche senza nessuno accanto. La Maria che oggi vive a Casa Giacinta sta cercando di riannodare i fili di esistenze lacerate e di aiutare a ritrovare il senso della vita nella solidarietà e nell’accompagnamento, non nel giudizio e nella chiusura. Oggi Maria scende tra queste persone e le comprende bene perché sono come lei esposte al pubblico giudizio, ma trova anche in tanti “Giuseppe” la mano che sorregge e vince l’incredulità di sentirsi un caso, una patologia, un rifiuto. La perdita della propria vita che diventa guadagno mentre per noi le cose in perdita sono solo fallimento e vanno chiuse. Così Maria, ad esempio, è Patrizia, in forza a Casa Giacinta da anni, che ti accoglie col sorriso, che ti presenta i suoi fragili amici, che corre in cucina mentre inizia la messa per preparare il sugo per gli ospiti perché si vive della preghiera di Maria ma anche del cibo, che è cura, di Marta. Maria oggi ci ricorda che solo abbracciando la precarietà della vita, la sua imprevedibilità, l’assurdità di un angelo che arriva e ti sconvolge la vita, il rischio di perdere in un attimo tutto e di non dare per scontato nulla, il pericolo di esporsi a una felicità che di “normale” non ha niente, solo affidandosi a una promessa folle ci si può salvare dal non senso di una vita che spesso ci scorre tra le dita senza nemmeno accorgercene. Sull’onda di Mosé, Abramo e delle tante chiamate “assurde” Maria scende in campo tra gli ultimi non rinnegando né rimpiangendo mai il suo sì. Ma per scelta e non per obbligo: come per gli ospiti di casa Giacinta il recupero è un invito e non un’imposizione, come per noi mettere in gioco la vita, rischiando una piatta tranquillità, è un’opportunità non un dovere. Di nuovo il Dio che invita e non costringe e si fa “spalleggiare” da una donna straordinaria: la donna del sì incondizionato anche se pure lei avrà tremato di paura esattamente come noi.

Nella struttura si trova il supermercato solidale dove le famiglie in difficoltà possono andare a rifornirsi del necessario per vivere dignitosamente: si può mangiare se si accetta di riconoscersi indigenti, mancanti, bisognosi. Una catechesi per noi: se riteniamo di aver tutto, di non aver necessità di un incontro diverso, ma soprattutto di legami forti, di relazioni amorevoli, di cure e accadimento, rimaniamo dei morti di fame per strada. Solo sentendo il nostro vuoto possiamo avere la possibilità di avvicinarci alla fonte e chiedere da bere. Ma abbiamo paura perché mettere in onda la fragilità è un rischio. Non conviene, e in questa mancanza di utilità naufraga la possibilità e il dono di essere presi in braccio e, perché no, coccolati.

Entriamo in chiesa. Una piccolissima cappella che raccoglie un coro di stonati (nel vero senso della parola), di carrozzine, di malati, di anziani senza casa e senza nessuno, di invisibili, di irrecuperabili per qualcuno, di portatori di sindromi varie che proclamano la Parola dall’ambone anche se si capisce poco e suonano un tamburello sempre fuori tono. Bellissima, Gesù, la tua chiesa: colorata, multiforme, sana e malata, ognuno con un suo modo e una testa che va per conto proprio. Il tuo popolo è bellissimo oggi come in carcere. Risplende di una luce più forte del sole di ferragosto, un popolo di chiamati e salvati e non clandestini a bordo. La mia e nostra “normalità” quasi stona perché non consente di cogliere la straordinarietà della chiamata: beati loro invece che, sentendo la propria malattia e la propria indigenza, si stanno imbattendo nelle braccia accudenti di chi li accoglie. I veri poveri siamo noi e la vera disgrazia è che nemmeno ce ne accorgiamo.

Ben ci invita a pregare per tutti i disperati della terra. Meno male, mi dico, anche per noi c’è una preghiera per tutte quelle volte in cui perdiamo la speranza, in cui ci chiudiamo in noi stessi, in cui nessuno ci punta un’arma alla tempia ma viviamo un deserto affettivo e relazionale ancora più forte. Grazie Ben, che ci inviti a sentirci quei disperati che pensano di essere sani ma non lo sono. Anche per noi oggi c’è un ricordo: siamo dei salvati, dei presi per mano da Maria, la donna dell’assurdo. La donna che per tre mesi è rimasta insieme a Elisabetta. Ma perché tre mesi? Non poteva bastare un saluto veloce come i nostri, un chiedere come stai e non ascoltare nemmeno la risposta come spesso ci accade? Un recarsi dall’altro in difficoltà, a volte per dovere, sperando che la sua fragilità mi tocchi il meno possibile e non mi sconvolga più di tanto? Invece tre mesi. Indicano un tempo necessario perché la storia dell’altro diventi la nostra, perché tentiamo di prenderlo in braccio, di caricarlo sulle spalle con il suo vissuto anche travagliato, di farci permeare dalla sua vita. Tre mesi non sono novanta giorni ma simbolo del tempo necessario perché chi incontriamo diventi “affar mio”, il tempo di rivestirsi dell’altro e lasciarlo risuonare in noi. Come il grembo di Maria porta dentro una nuova alleanza, il nostro dovrebbe generare una nuova fratellanza, un sentirsi tutti dalla stessa parte, in un unico ventre materno dove scorre l’unico sangue, l’unico codice genetico.

La messa finisce, esco e appoggio la testa sulla spalla di Ben per accogliere la benedizione, il suo dire bene di me quando io vedo solo i miei fallimenti. Un tempo che mi pare lunghissimo e di cui ho bisogno per continuare a vivere e “narrare” le tante periferie esistenziali dove scopro, ogni volta con stupore e meraviglia, l’opera di un Cristo incredibile e affascinante. Perché raccontarle è dare voce e dare voce è portare a esistenza. Generare. In molto più di tre mesi…

 

Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.