Le Lettere di Alessandra Bialetti – Un solo pastore, un solo gregge
Qo 1,2. 2,21-23; Col 3,1-5.9-11; Lc 12,13-21
Dio non va in vacanza e meno male. Ci segue, ci conduce in altri luoghi, in altri pascoli per continuare a parlarci. Questa volta in un monastero di suore trappiste a me caro da tanto tempo. Si ha bisogno, ogni tanto, di ripercorrere sentieri battuti, noti, rassicuranti. Già quando ti avvicini la calma e la serenità di quel luogo ti avvolge e i canti in latino e gregoriano ti trasportano lontano. Nel silenzio e nella meditazione, nel fare un punto sulle cose e su di te mentre ascolti un gruppo di suore che vivono la preghiera e della preghiera. Arrivo e mi colpiscono due scritte vicine: unus pastor e unum ovile. Senza essere fini latinisti mi parlano di questo: un solo pastore e un solo gregge. Uno solo! Se uno solo è il pastore allora siamo tutti figli e soprattutto fratelli. Fuori di qui sembra invece una faida continua: ognuno a pretendere il suo che non è un nostro, ognuno a rivendicare paternità e figliolanze uniche che di fratellanza hanno ben poco. Già c’è qualcosa che non va, non marcia nel verso giusto. Un gregge diviso, individualista, non entra nelle prospettive del Cristo, non l’ha pensato così e continua a dircelo in ogni modo. E noi? Seguitiamo a dividere anziché moltiplicare, a sottrarre anziché addizionare, ad alzare steccati a protezione del proprio ovile, del proprio spazio di sopravvivenza che in realtà diventa un luogo di costrizione e soffocamento. Poniamo etichette sulle fronte anziché il segno di una croce che ci fa unico gregge, a me il segno più, a te il segno meno: sei un minus habens, sei diverso di una diversità che mette paura quindi va confinata, al di là dello steccato. Un meno che mettiamo con i nostri giudizi e pregiudizi, con le nostre presunzioni di verità.
Il paradosso del Qoèlet: “Chi avrà lavorato con sapienza e successo dovrà lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato”. Ecco, siamo a posto. Io devo lavorare a un luogo diverso, accogliente, tranquillo, sereno e lasciare tutto a chi non ci ha messo nemmeno un grammo di fatica? Una pazzia, eppure sappiamo che il Cristo è un folle e ci chiama a una follia: lavorare per lasciare un terreno migliore, per costruire un luogo di condivisione in cui OGNUNO sia accolto, riconosciuto, mai allontanato. E se questo è un vuoto a perdere…pazienza. Nulla si perde, tutto viene seminato. Però che logica assurda, Gesù. Qui ci stiamo sbranando per un pezzetto di terra, per chi sta sulla terraferma e per chi “veleggia” su un barcone, per chi è nato nella parte giusta del mondo e in quella sbagliata. Unico pastore per un unico gregge…
La seconda lettura annuncia un Cristo che è tutto in tutti senza distinzione di circoncisi, schiavi, liberi. Ritorna l’unico pastore. Oggi ti diverti, Gesù, a ribadire i concetti e nel vangelo si parla di condivisione davanti a una eredità. Condivisione: se siamo unico gregge non ci sarebbe nemmeno bisogno di parlarne perché tutto è di tutti, ognuno ha il suo posto al banchetto, non ci sono invitati di serie A e di serie B. Sarebbe bello ma in realtà ci sono tavole imbandite con ogni ben di Dio e tavole povere, piatti straboccanti e piatti vuoti, inviti con abiti buoni e sontuosi e uomini coperti di stracci. E poi abbiamo un concetto di condivisione strano: pensiamo subito al materiale. Il pastore non ci parla solo di quello, di un pane corruttibile che comunque serve ma di condividere se stessi, ciò che si è, ciò che siamo dentro, che portiamo scritto in noi. Facile condividere il panino che, più o meno non manca a nessuno e mette a posto la coscienza, difficile se non impossibile costruire un’eredità fatta di cura, attenzione, protezione, accudimento, servizio, tempo speso per l’altro che ci sembra in realtà sprecato. Una condivisione che è caricare l’altro sulle spalle, la sua storia, la sua quotidianità difficile perché ricca di solitudine, il suo vissuto di fragilità. In una parola la condivisione dell’esistenza, dell’essere occhi, orecchi, bocca aperta e non a sproposito. E invece cosa facciamo? Come dice il vangelo demoliamo magazzini per costruirne di più grandi, per accumulare per noi stessi, per innalzare muri ancora più alti e proteggerci dall’invasione dell’altro, per dividere e condividere sempre meno. Altro che un unico gregge, quell’unico pastore continua a parlarci, oserei dire a sgolarsi, e noi a non sentire, anzi a non voler sentire.
Le suore trappiste sono solite introdurre la messa con il canto di un salmo (il 118 questa volta) che riprende esattamente questi pensieri. Una frase recita: “Io sono straniero sulla terra… che io non resti confuso”. Ho messo insieme questi due concetti e ne esce fuori un programma di vita. Siamo stranieri tutte le volte in cui non riconosciamo nell’altro quella pecora che fa parte dello stesso gregge, quando riteniamo che il pastore sia solo proprietà privata, che giustifichi ogni nostro passo, che sia venuto solo per noi e per dividere buoni e cattivi. Siamo stranieri quando guardiamo passare i barconi sul limitare del mare e speriamo che tirino oltre, che non si avvicinino a turbare i nostri equilibri, il lavoro di accumulo messo su con tanta fatica. Siamo stranieri quando la sera chiudiamo i nostri sicuri recinti e ciò che avviene fuori non ci riguarda. Siamo stranieri quando l’altro non è affar nostro ma solo suo. E così confondiamo e ci confondiamo: non siamo pane di condivisione, non mettiamo in comune i nostri doni e i nostri talenti ma la difesa dei nostri territori, dei nostri averi, delle poche, stracce cose messe insieme che pensiamo ci diano onore e lustro. Ci confondiamo tutte le volte in cui accumuliamo un tutto in cui c’è sempre qualcuno che manca del necessario ma è un problema suo, non è stato capace quindi io ne non me ne devo occupare. Un gregge così non interessa a un Cristo unico pastore anche se “disperatamente” ci invita a cambiare rotta. Siamo noi che confondiamo il Cristo potente delle cattedrali con il Cristo servo e compagno di strada, col pastore dalle vesti logore e senza scarpe che si mette in cerca dell’unica pecora smarrita.
Nella cappella le suore, per la loro vita monastica, sono divise da un cancelletto dal resto dei fedeli, sono rivolte verso l’altare e noi lo vediamo da un lato, non di fronte. Ma tutti siamo orientanti verso lo stesso desco, tutto il gregge verso un unico pastore, verso un’unica tavola imbandita per ognuno, poveramente e sobriamente, questo il bello. Il Cristo per tutti. Lì si celebra l’unione e non la confusione, la condivisione e non la divisione.
Se non ci fosse un unico pastore per un unico gregge perché nel credo dovremmo dire di credere in una chiesa cattolica? Se cattolica vuol dire universale?
Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.