
Le Lettere di Alessandra Bialetti – Mai a porte chiuse
Gen 18,1-10a; Col 1,24-28; Lc 10, 38-42
Il viso di Don Antonello stamattina tradisce il dispiacere, la tristezza. Prega per T., padre detenuto la cui figlia 13enne versa in coma, si spera farmacologico, per un grave incidente. Siamo appena arrivati in cappella che già il cammino domenicale si fa pesante, faticoso. L’unica forza la preghiera, per questa ragazza, per questo padre che, dalla cella, non può nemmeno sostare seduto fuori della camera d’ospedale ad attendere notizie, a far sentire a sua figlia che, nonostante gli sbagli, lui è lì per lei e che insieme ce la potranno fare. Se solo si pensa a questo non si può reggere il dramma di un padre lontano, di notizie che non arrivano, di mani che non si possono stringere. La preghiera, Maria che ha la parte migliore, Maria che si siede ai piedi del Cristo e trova il senso al suo andare mentre Marta prova rabbia per la mancanza di aiuto. La rabbia si taglia col coltello in carcere e fuori dal carcere. Siamo tutti arrabbiati per tutto. Mi ricordo che a scuola la maestra mi insegnava che solo i cani provano la rabbia mentre le persone sono inquiete. Ringrazio la maestra che mi ha aiutato a crescere ma qui si parla proprio di rabbia. Sorda, profonda, che ferisce, che scatta anche senza volerlo. A.: “la rabbia è il demone, rode dentro, dà il la non a una bella sinfonia ma a gesti inconsulti. La conosco bene perché io il demonio l’ho visto. Nella droga, nell’usa e getta delle donne, negli stravizi, nella mia vita buttata via. La rabbia ha armato la mia mano, la mia mano si è fatta armare dal demone che mi ha corroso dentro. Ora sono qui, cerco di non credere più a quel demone che fa vedere belle tutte le cose e ti lascia subito dopo in ginocchio”. Eh sì A., la stessa rabbia la proviamo fuori anche se non la paghiamo dentro un carcere ma ne facciamo una prigione quando il male ci visita e ci blandisce. L’antidoto? Risponde ancora A., oggi particolarmente “agitato” e ci spiega perché. “Il mio antidoto è avvicinarmi alle porte della cappella e varcare quella soglia. Lì mi sento accolto, al mio posto, trovo pace, la rabbia si placa”. Ma domenica scorsa la messa era in chiesa grande e non tutti vi hanno potuto accedere, anche per la messa bisogna compilare una richiesta e la lista è lunga. La porta della cappella è rimasta chiusa e A. ha accumulato nervosismo, agitazione. Ci dice: “Mai chiudere le porte della chiesa, mai sbarrare quell’ingresso, mai farci saltare quell’appuntamento più importante anche del colloquio con i familiari perché dà forza e senso a tutta la settimana, perché quel pane è veramente viatico (A. non usa questa parola, non sa nemmeno cosa voglia dire, per lui pane è pane anche se ha capito più di noi che senza quello arriva il demone)”. Il pensiero non può non correre alle nostre chiese spesso chiuse, ai cancelli sbarrati, agli orari come fosse un negozio (anzi no, ora i negozi fanno orario continuato). Penso non solo alle porte materiali ma a quelle che noi stessi chiudiamo, alla nostra presunzione di possedere la verità, al mettere dei distinguo sulle persone, a sentirci sempre dalla parte del giusto e nati dalla parte “sana” del mondo. Ci hanno sempre insegnato, fin dal catechismo, che ognuno di noi è tempio perché porta in sé il Cristo. Allora non possiamo permetterci di chiudere le porte ad A., R., M., V., e a tutti quelli che hanno bisogno dell’incontro con quel Gesù che ribalta le vite, le stravolge. Non possiamo vergognarci della vita dell’altro perché crea disagio il suo essere fuori dalle regole a chiama in causa la nostra presunta normalità. Non possiamo essere delle chiese chiuse o delle chiese a orario. Solo full-time.
S. riprende il concetto di rabbia: “A me scatta quando da solo mi dico che sono perso, che non valgo più nulla, che la mia vita è solo uno sbaglio e io solo un rifiuto. E che Dio si è dimenticato di me. Poi però mi fermo e ci penso: è una tentazione. Ecco il demone che arma la mia rabbia: il farmi credere perso, uno scarto, un senza speranza. Ma non c’è un Dio che dimentica, sono io che me lo immagino così, allora mi dico S. ce devi da riprovà e questa volta non ti far fregare”. Il linguaggio è colorito ma il concetto chiarissimo e forse più diretto di mille altri discorsi forbiti. Ricorda tanto il passo di Isaia in cui Dio ribadisce che non si dimenticherà mai della sua creatura anche laddove la madre lo facesse. I detenuti scrivono il vangelo, a modo loro, con le loro parole, con le loro vite recluse, con le loro esperienze di gente di strada.
Di nuovo A. ricorda la preghiera in cui si parla di un Signore che prende in braccio e lascia solo due orme sul cammino, le sue. Dice che è vangelo e se lo è scritto in cella. Don Antonello fa chiarezza ma A. non ascolta, per lui è il vangelo che si porta dentro. Scriviamo vangelo se siamo vangelo, se siamo voce, testimoni, discepoli, apostoli. A. se lo dice e lo dice a tutti noi. Si alza agitato, animato da una forza che aumenta di domenica in domenica: “Sarò vangelo quando fuori di qui combatterò per i compagni che restano dentro, per preparargli qualcosa di diverso, un cammino non più segnato dallo sballo. Sarò vangelo quando non esisterò più solo per me ma per gli altri, quando, come dice Don Antonello, essere altro Cristo vorrà dire aiutare l’altro a recuperare le ferite di una vita, diventare esempio dopo essere stato feccia”. Ora ditemi voi se questo non è vangelo. Non proclamato da un ambone rinascimentale ma da un leggio sgangherato che si regge in piedi a malapena.
Per M. non esiste un Dio che abbandona: “Siamo noi che lo abbandoniamo, che manchiamo quell’incontro che potrebbe cambiare la vita, che rendiamo impotente un amore che la nostra autosufficienza rifiuta perché vogliamo salvarci da soli. Abbiamo vicino un Dio che implora di starci accanto, che elemosina la nostra attenzione e nemmeno ce ne accorgiamo”. Scoppia il caos, agitazione generale, tutti si parlano uno sull’altro, quasi quasi interviene la guardia carceraria per riportare ordine. Un Dio che elemosina la sua creatura è veramente troppo, scandalizza, è scomodo, è troppo estremo, fa sul serio e mette paura, un Dio pazzamente innamorato fa sentire in difetto, chiama troppo in causa. Giocoliere, sei un mito!
Niente da fare: oggi A. è incontenibile. Per farlo star tranquillo Don Antonello lo chiama accanto a sé, su quell’altare che a malapena ha una tovaglietta (nota personale: io amo l’altare del giovedì santo quando viene tolto ogni arredo e rimane solo la nudità di un tavolo povero). A. si avvicina e si placa, segue attentissimo la consacrazione, sembra un altro. Non è un miracolo è semplicemente l’essersi fatto prossimo di quel Dio che lo cerca di continuo, essersi avvicinato a quella presenza che lo ha raccolto dagli scarti e lo tiene accanto a sé. Finalmente la quiete in lui e nel resto dei presenti.
Alla fine della messa D. prende la parola: mercoledì uscirà, sarà di nuovo libero. Ma prima ringrazia i compagni che gli sono stati accanto nell’ascesa al calvario in cui non ha perso solo la libertà ma ha rischiato di perdere tutto se stesso se non avesse avuto qualcuno vicino. Saluta e si scusa: chiede perdono per non essere riuscito a essere di aiuto a tutti, con un gesto, una parola, un’attenzione, chiede perdono per non essersi fatto prossimo. Grazie D., ci vedremo fuori, ci hai promesso la pasta con i tartufi che coltivi. Ci contiamo.
Ma dentro mi resta una domanda: e noi chiediamo quel perdono a chi non riusciamo ad avvicinare, proteggere e custodire? Il vangelo scritto dalle sbarre…
Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.