
Le Lettere di Alessandra Bialetti – Tavolata senza muri
1Re 19,16b.19-21; Gal 5,1.13-18; Lc 9,51-62
Da Rebibbia a una parrocchia romana, in una domenica di caldo torrido in cui lo Spirito continua a soffiare. Mercoledì scorso la preparazione dei cresimandi in carcere, oggi conferimento della cresima a 7 ragazzi e 4 adulti. Io dentro e fuori, in un continuum che mi rivela la vita, l’esperienza umana, il cammino che non conosce le sbarre.
Il coro intona il canto: “Vieni qui”. Qui, dove c’è bisogno di soffio vitale, dove i giovani accolgono la forza per diventare testimoni, dove gli adulti, confermano una fede forse dimenticata per strada, forse recuperata in extremis prima del matrimonio, forse cercata a lungo. Come in carcere dove la vita non porta solo i segni della perdizione ma di una nuova scommessa, dove gli anni sulle spalle sono tanti e molto di più che nella parrocchia romana. Ma non c’è età per rimettersi in cammino, per riprendere la strada, per scoprire una chiamata in extremis a lavorare nella vigna, prima su di sé poi per gli altri. Arriva il vescovo e invita a stringersi attorno alla mensa eucaristica, un altare arricchito dagli arredi sacri, profumato dall’incenso, abbellito dai fiori. Io lo vedo come un lungo tavolo, forse anche spoglio, essenziale, un tavolo così lungo da unire la Roma “fuori” e la Roma “dentro”, un tavolo il cui unico scopo è quello di accogliere gli invitati anche se non hanno l’abito adatto e la vita in regola. Mi piace questa tavolata che contempla un posto per ciascuno e che varca i portoni del carcere per fare esperienza di un Cristo che è qui, lì, ovunque. In ogni luogo dove il suo uomo vive, soffre, spera, cammina. La tavolata diventa un ponte immaginario che unisce due realtà di vita: i “regolari” e gli “irregolari”, i “liberi” e i “prigionieri”. Chissà dove ci collochiamo… non ha importanza, per ognuno c’è l’invito.
Il coro continua con il Gloria: “pace agli uomini amati dal Signore”. Quante volte recitiamo e cantiamo questa frase. Anche D., S., M., R. ci stanno lavorando da tempo nella messa domenicale. Sentirsi amati e amabili anche se collassati dietro le cadute, inciampati in sassi pesanti come massi lungo la strada, delusi dalle loro stesse scelte rivelatesi un inferno. Pace a noi tutti anche quando non ci sentiamo amabili, quando ci guardiamo allo specchio e non ci riconosciamo, quando la fatica della mancanza di senso rallenta il passo. Siamo già amati e forse proprio per questo, per la nostra imperfezione, perché il giocoliere ci ha voluti così per poter colmare quel vuoto che portiamo dentro, perché viene per i malati e non per i sani, perché se fossimo perfetti che bisogno avremmo di cercare il Cristo e farci cercare da Lui?
Viene proclamato il vangelo, il racconto di quei “poveri” apostoli che chiedono al loro Signore se invocare un fuoco che distrugga i samaritani colpevoli di non aver saputo ricevere il Cristo. Nella loro umanità i discepoli cadono nella tentazione di formulare un giudizio, vorrebbero un fuoco che brucia la difficoltà dei samaritani, li punisca, li rimetta al loro posto. Quei discepoli siamo tutti noi ammalati di giudizio e pregiudizio, quando pensiamo di avere la verità in tasca in base alla quale catalogare l’altro, i suoi atti, i suoi pensieri, le sue difficoltà di vivere. E arriva, puntuale, preciso, stravolgente il rimprovero di Gesù. Nessun fuoco su nessuno, nessuno giudicato senza appello, forse tristezza per i samaritani che hanno fallito un incontro, ma nessuna condanna. Si riparte, si riprende il cammino…forse i samaritani capiranno e si faranno trovare al prossimo villaggio. E mi torna in mente fortissima la domanda accorata di A. mercoledì scorso alla catechesi: “ma fuori che mondo mi aspetta? Io qui sto facendo un percorso, sto incontrando un Cristo che mi propone il cambiamento interiore ma una volta fuori vedranno il mio nuovo volto o mi chiuderanno la porta perché marchiato dal mio sbaglio?”. Quanta ragione ha A. e quanto è aderente al vangelo il suo interrogativo pieno di incertezza e sofferenza. Ricordiamo il rimprovero di Gesù ai discepoli che invocavano un fuoco per bruciare, ricordiamo la sua mancanza di giudizio, il suo passare e invitare a seguirlo a partire da qualsiasi situazione di vita. Gesù, il 15 luglio in carcere manda forte il tuo Spirito a fare piazza pulita delle nostre paure, della nostra giustizia sommaria che non riabilita nemmeno quando la giustizia civile ha fatto il suo corso, a cambiare i nostri cuori di presunti “regolari” chiamati ad accogliere e a dare speranza ai tanti A. che troveremo sul nostro cammino. Sta a noi preparare il mondo che li aspetta anche se abbiamo paura noi stessi di ciò che viviamo, di chi abbiamo accanto, delle sue morti che richiamano tanto le nostre. Sta ai cresimati di oggi dotarsi di un fuoco che brucia i timori e si riveste di coraggio.
Il vescovo ricorda che nessuno è frutto del caso. Nessuno. Ma chiamati a diventare altri Cristo, dietro le sbarre, fuori dalle sbarre. Penso a quanto non siamo pezzi caotici di un quadro astratto ma tasselli insostituibili di un arazzo meraviglioso che si rivelerà in tutta la sua bellezza alla fine del cammino. Da piccoli, ma anche da grandi, giochiamo a fare i puzzle con testardaggine fino a che non troviamo i pezzetti giusti per completarlo. Il carcere, nei giudizi sommari, è luogo dove giacciono pezzi scoloriti, sformati, inadatti, inutilizzabili, pezzi di scarto anche se papa Francesco ci ricorda che non siamo frutto della “cultura dello scarto”. Invece no, Gesù. Tu ti siedi accanto a tutti i tuoi pezzi difettosi e con amore e infinita pazienza ti dedichi a limare la nostra imperfezione per farci entrare tutti esattamente nel quadro completo. Ognuno con la sua preziosità, con i suoi talenti come anche con le sue fragilità. Perché hai deciso di aver bisogno di ogni singolo pezzo, anche se scrostato e inadeguato, per completare la tua opera. Da giocoliere ad artista di puzzle, mi sembra di vederti.
“Il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. Né tane, ne nidi dove rifugiarsi. Eh sì. Il Cristo, che oggi con lo Spirito consacra i suoi testimoni, è un Dio vagabondo, migrante, clandestino a bordo di tante situazioni in cui è scomodo. E ci invita a “vagabondare”, a non scegliere dove posare il capo, a non scegliere semplicemente. Ma a farsi portare da Lui, dove indicherà. Dove chiede di essere presenti. Anche in un carcere che protegge dalle paure di una libertà che chiede responsabilità, ma che soffoca e confonde un cammino di rinascita. Anche nel mondo che dobbiamo preparare ai tanti A. che cercheranno di abitarlo ancora con un nuovo essere, con un cambiamento che è già in atto e che confidiamo possa giungere a compimento. E per tutto questo ci inviti a non mettere mano all’aratro e voltarci indietro: chi si ferma è perduto. Ma è anche giusto, Gesù, guardarci indietro. Solo per scorgere il solco che hai tracciato sul nostro cammino senza che nemmeno ce ne accorgessimo. In anni, decenni. Sempre il tuo solco in noi e accanto a noi anche quando la nostra strada era una scorciatoia facile ma senza uscita. Abbiamo bisogno di questo voltarci indietro ma solo per rileggere la nostra vita, le nostre prigioni che diventano luoghi di santificazione perché abitate da te. Voltarsi indietro per correre avanti.
La messa finisce. La tavolata che unisce il dentro e il fuori no. Senza muri.
Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.