Alessandra Bialetti / Blog | 30 Giugno 2019

Le Lettere di Alessandra Bialetti – Omosessualità. La teologa Cristina Simonelli: “La scrittura può essere riletta”

Alessandra Bialetti segnala questo articolo tratto da Progetto Gionata e lo introduce così:

Un’interessantissima riflessione della teologa  Cristina Simonelli che ci invita ad allargare i confini della nostra comprensione. A considerare che il “vangelo ci precede sempre”, ci indica strade nuove magari faticose ma affascinanti. Ci chiama a mettere in discussione i nostri punti di vista, ad arricchirli, a metterli a confronto. Un vangelo dinamico come lo è la vita stessa: un divenire di esperienze ognuna ricca della presenza di un Cristo che non chiude le porte (e i porti) ma apre portoni. A volte difficili da varcare ma pieni di ricchezze da esplorare. Perché ogni vita, prima di essere giudicata e pregiudicata, va accolta, compresa, sostenuta, riconosciuta e legittimata. Ogni vita, nessuna esclusa.

Intervista di Luciano Moia alla teologa Cristina Simonelli* pubblicata su Noi famiglia & vita, supplemento mensile allegato ad Avvenire del 23 giugno 2019, pp.34-37

Non serve attendere una perfetta conversione ecclesiale prima di promuovere e sostenere un nuovo cammino pastorale. Non saremo “mai pronti” davvero, perché il Vangelo ci precede sempre. Quindi meglio valorizzare quello che già esiste, nella speranza che altri si convincano della necessità di fare altrettanto. E questo vale anche per i percorsi pastorali dedicati alle persone omosessuali. Ne è convinta Cristina Simonelli, presidente del coordinamento delle teologhe italiane, docente di teologia patristica a Milano e a Verona.

La chiesa avviato un difficile percorso per dare concretezza all’invito di Papa Francesco (AL 250) a proposito della necessità di accompagnare le persone omosessuali “a realizzare pienamente la volontà di Dio nella propria vita“, nel rispetto della dignità di ciascuno ed evitando ogni discriminazione. A tre anni dalla pubblicazione della esortazione post sinodale qualcosa si è mosso, ma le resistenze sono ancora tante. Crede che la chiesa non sia ancora pronta ad avviare una pastorale davvero inclusiva verso queste persone?

La chiesa, cioè il soggetto collettivo complesso che insieme formiamo, è di per sé su un crinale: non siamo mai “pronti” del tutto, perché il Vangelo ci precede sempre. E tuttavia possiamo e dobbiamo muovere dei passi, senza attendere di essere perfettamente attrezzati.
Si sente spesso fare un ragionamento simile per quanto riguarda la componente di fedeli più numerosa nella chiesa, cioè le donne tutte: attendere una perfetta conversione ecclesiale e pastorale può portare solo alla paralisi, procrastinando in maniera intollerabile le questioni che ci riguardano.

Nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, quello che è, già ora, in atto e parte della chiesa: non per essere ottimista a tutti i costi o per parlare banalmente dei soliti livelli dei bicchieri, ma per la convinzione che “quello che si è mosso” è importante e, quello che più conta, inarrestabile. Certamente le resistenze sono qualcosa da non sottovalutare: spesso si pensa di poterle affrontare portando ragioni e argomenti, che sono importanti ma non sufficienti, perché chi si oppone in maniera radicale lo fa spesso sulla base di elementi profondi che si manifestano come idee, ma sono molto di più, almeno desideri, timori e fantasmi.

In uno “Studio del mese” che ho curato ormai 4 anni fa (Donne e teologia. Dire la differenza senza ideologie), Lucia Vantini ha espresso magistralmente la questione (Sentieri interrotti. Le resistenze non riconosciute, Il regno attualità 1/2015, p.58), mostrandone la trasversalità.

Anche nel documento finale del Sinodo dei Vescovi sui giovani si sollecitano attenzione pastorali verso le persone omosessuali, ma finora non esistono “linee guida” per impostare un percorso specifico. Su quali criteri bisognerebbe muoversi?

E’ di estremo interesse il percorso sinodale che ha sintetizzato voce e dibattiti che erano molto più ampi; al di là della contrazione del testo finale (DF), che comprensibile da un certo punto di vista, è significativo osservare che due paragrafi che hanno ricevuto più bassa percentuale di approvazione sono proprio il numero 121, sulla forma sinodale della chiesa, e il numero 150, appunto, che contiene anche riferimento alla sessualità. La bassa adesione, in un modo di procedere che a tratti risulta quasi per acclamazione, dà a pensare e viene …. con quanto appena detto. Pur pure in questo quadro, l’indicazione che ne esce mi sembra quella più opportuna in questo momento: “esistono già in molte comunità cristiane cammini di accompagnamento nella fede di persone omosessuali: il sinodo raccomanda di favorire tali percorsi“.

Prima di tutto si tratta di “riconoscere”: che nelle comunità ecclesiali e non solo davanti ad esse, ci sono persone omosessuali che esistono già molti percorsi di spiritualità, di preghiera, di accompagnamento, molto di più di quanto si potrebbe pensare guardando solo i banner della pastorale nei siti delle diocesi.

In secondo luogo si tratta di “ascoltare”: in senso immediato, in senso radicale, ascoltare le voci, le esperienze, le sofferenze ad esempio: il portale Gionata, portale su Fede e omosessualità è una miniera, con molto spazio anche per AGEDO e 3volteGenitori.
Quest’ultima osservazione potrebbe sembrare “paternalistica”, per il richiamo ai genitori, Ma la ritengo importante per una delle osservazioni che attraversano il mondo ecclesiale: la fobia rispetto al termine “rivendicazione”.
Non la condivido, certo, ma ritengo che in questo caso la voce di genitori e nonni che fanno un cammino “per altri” e non per se soltanto, sia particolarmente eloquente.

In terzo luogo chiedere perdono: delle tante discriminazioni, del disprezzo che va. dalle battute sarcastiche all’esclusione, ma anche di un disagio nei confronti della sessualità che agisce trasversalmente anche in punti che ora paiono dottrinali, ma che possono essere purificati, migliorati, convertiti in un nuovo elemento di purificazione della memoria.
Infine “camminare insieme” che vuol dire mettersi in un cammino comune, senza unilateralizzazioni e senza forzature. Una persona è molto di più di un’apparenza etnica o di un orientamento sessuale: ovvio, ma non sempre semplice. Proprio per tutti questi motivi comunque ritengo che più che “linee guida”, che potrebbero essere precipitose e stringenti, sia importante attivare questo tipo di processualità, vicina tra l’altro ai criteri diEvangelii Gaudium.

Chi critica la decisione delle diocesi di aprire le porte alle persone omosessuali si muove solitamente su due registri. Gli intolleranti assoluti sostengono che non sia giusto dare spazio a persone “colpevoli” di un peccato che, secondo il catechismo di Pio X, “grida vendetta agli occhi di Dio”. Gli intolleranti mascherati ritengono che non sia giusto “ghettizzare” dal punto di vista pastorale queste persone e che sarebbe sufficiente indirizzarli verso le proposte ordinarie. Cosa risponde a queste critiche?

Inizio della seconda, che si può incontrare anche rispetto a pastorali specifiche di gruppi etnici e che spesso, nella domanda è già suggerito, “maschera” comunque il rifiuto.

In primo luogo tuttavia raccoglierei un suggerimento utile: gruppi specifici possono essere importanti proprio perché la pressione è così forte che c’è bisogno di luoghi di riflessione, di approfondimento, di ricerca in cui riconoscersi. Ma queste realtà non devono assolutamente essere dei ghetti, è tutta la comunità, la sua catechesi, la sua liturgia e ogni sua espressione a essere di tutte e di tutti, luogo in cui ognuno possa riconoscersi e sentirsi espresso. Ripeto anche a questo proposito, inoltre, che ogni persona è una realtà complessa, che fra i vari aspetti ha anche quello dell’orientamento affettivo e sessuale, ma nessuno può essere identificato solo per un aspetto.

Aggiungo che conosco anche molte persone, donne uomini e fra questi anche diverse persone che fanno parte del clero, che aumentando la confidenza reciproca, mi dicono anche del loro orientamento non eterosessuale. Sono spesso situazione di sofferenza perché il non detto le/li obbliga a una posizione molto scomoda: ma è importante saperlo, sia perché la loro resistenza a manifestarsi dice del livello di aggressività che le persone omosessuali ancora subiscono, sia perché comunque, come appena detto, nessuno dovrebbe essere costretto a restringere la definizione di se a un elemento solo.

La forma di rifiuto totale, invece, da una parte sta su un livello ormai improponibile sulla dimensione “contro natura” della omosessualità, non più presente nei documenti del Magistero, dall’altra si sposta su un aspetto ancora molto discusso, che è quello che afferma l’accoglienza delle persone, negando però la legittimità della loro vita affettiva e sensuale. Questa seconda posizione tuttavia è, a mio parere, contraddittoria: ritengo dovrebbe avere almeno la forma della questio disputata.

La diocesi di Torino è stata al centro di forti polemiche per la sua decisione di proporre agli omosessuali credenti un percorso sulla fedeltà. L’incontro, dopo le critiche del 2018 si è tenuto poi nello scorso aprile. Gli attacchi si sono ripetuti nella convinzione che sia incoerente parlare di fedeltà a persone che non dovrebbero essere incoraggiate a rimanere “fedeli al peccato”, ma solo a cambiare vita. Come valuta questi “consigli”?

Come appena detto, c’è una contraddizione nel dire di accogliere le persone, imponendo però loro un celibato coatto. Preferisco parlare di “celibato” (anche se molto maschile, su questo ritorno a breve) più che di castità, perché castità significa anche rapporto rispettoso e fedele: sono d’accordo su questa impostazione, mi sembra seria e capace di accogliere le coppie che già sono formate vivono con profondità il loro amore.
Come sono d’accordo con chi sostiene che gli atti all’interno di una coppia omosessuale dovrebbero essere valutati sulla base dei frutti spirituali che producono. Dobbiamo chiederci: sono ordinati o meno, cioè a costruire il bene della persona?

Papa Francesco parla spesso di inclusività, integrazione, misericordia, accoglienza. Esistono fondamenti biblici per estendere questi atteggiamenti pastorali anche alle persone omosessuali?

Fino a tempi molto recenti non avevo misurato l’uso restrittivo che facciamo di molti passi evangelici che invitano all’accoglienza, al riconoscimento reciproco, alla pienezza della legge riconoscibile nell’Agape, alla benedizione, è infine alla potenza, anche in questo senso, dell’affresco escatologico del capitolo 25 di Matteo: “l’avete fatto a Me“. Devo alla riflessione e alla pastorale LGBT il suggerimento di una lettura inclusiva di questi e di molti altri passi, compreso Atti 11, 17 (“Se Dio ha dato loro lo stesso dono che a noi, per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?”), che ho sentito commentare magistralmente da James Allison. Compreso anche il versetto che guidava la giornata contro omofobia di quest’anno (“non temere, perché io ti ho riconosciuto, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni, sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno e io ti amo“, Isaia 43, 1-4); compreso lo starsi difronte nella reciprocità, l’ezer kenegdo di Genesi 2,18.

Del resto, è noto, abbiamo un rapporto spesso ambiguo con la scrittura, anche se probabilmente in buona fede: alcuni passi il blocchiamo in un rigido letteralismo (ad esempio i codici familiari, i passi sulla sottomissione delle donne), altri li passiamo tranquillamente ha un registro di varie ed eventuali (ad esempio porgere l’altra guancia, non prendere ne sacco, ne bisaccia).

Come avvenuto nel terzo secolo, quando la crisi della comunità dopo la persecuzione ha “obbligato” a rileggere in termini più ampi i passi sul perdono, così può cadere ancora oggi, se la vita delle persone ci aiuta a purificare ed approfondire la nostra lettura. Non “sugli” altri, ma insieme agli altri.

Evangelizzare il mondo gay è davvero possibile? Crede che un atteggiamento  diverso da parte della chiesa posso indurre colore che oggi sono decisamente lontani a guardare con maggiore attenzione a un percorso di fede?

Ecco qui mi permetto, come prima cosa, una critica che forse avrei dovuto esprimere subito: posso arrivare a capire che alla sigla lgbt/iq possa venire preferita la lezione “omosessuali/omosessualità”, ritenuta forse meno trasgressiva e immobile. Ma se poi questa si restringe ancora e diventa “gay”, è unicamente maschile, questo non posso lasciarlo tranquillamente passare.

Un difetto della lingua, una scelta comunicativa? Come quella che in “uomo” ha pensato nei secoli di poter dire, o meglio occultare, tutte le donne? Le parole hanno la loro importanza inviterei a maggior vigilanza. Del resto, nonostante una presenza e una riflessione lesbica importante anche in Italia, sono spesso gli uomini che prendono la parola in questo senso: tutto a posto? Bisognerebbe fare molta attenzione, per non avere in questo caso un’esclusione dell’esperienza femminile, in certo, al quadrato. I movimenti delle donne transfemministi si sono aperti a posizioni molto inclusive di ogni differenza, ma questo richiede una sorta di reciprocità attenta.

Venendo a quello che era il centro della domanda, la reindirizzerei: è possibile che il mondo LGBT possa evangelizzare la chiesa portando a una comprensione migliore del Vangelo? Penso che sia possibile. Inoltre, è possibile che le persone omosessuali che non sono parte della chiesa e magari del suo clero possono fare un percorso con il resto della comunità? Sì, lo penso possibile. Infine, questo ha che vedere anche con le persone che sono parte della chiesa?
Penso che sia comunque un aspetto molto importante, perché essere disprezzati, ferisce comunque, dunque anche a chi non si riconosce più nella chiesa “importa” come ci esprimiamo nei loro confronti.

Da qui nasceranno conversioni? Speriamo le nostre, mi auguro. Per quelle altrui, “non sta a noi conoscere i tempi e i momenti” (Atti 1,7) di un cammino di cui possiamo essere testimoni, non proprietari.

* Cristina Signorelli, laica (Firenze, 1956), insegna storia della chiesa e teologia patristica a Milano (alla facoltà teologica dell’Italia settentrionale e al Seminario Arcivescovile) e a Verona (studio Teologico S. Zeno e istituto di studi religiosi S. Pietro Martire). Ha vissuto in contesto Rom dal 1976 al 2012 e ritiene di dovere a questa esperienza