Alessandra Bialetti / Blog | 24 Giugno 2019

Le Lettere di Alessandra Bialetti – Il corpo degli imperfetti

Gen 14, 18-20; 1Cor 11,23-26; Lc 9, 11-17

La domenica degli imperfetti, di un corpo a pezzi, martoriato, lacerato da sbagli e contraddizioni. Un corpo non funzionale ed efficiente perché apparentemente non produttivo, marcio. Il corpo di Rebibbia, in cammino, alla ricerca, a partire da un niente che scopre un tutto, si scopre tutto. Una chiesa contraddittoria che cerca e trova un senso nell’incontro con il suo “sovversivo”.

Arriva M. sempre in ordine, sempre pronto alla messa. E’ estate e, oltre al caldo, lo si intuisce dagli indumenti che si fanno più corti su delle braccia che mettono in risalto i tanti tatuaggi. M. ha un rosario tatuato sulla pelle tutto intorno a un braccio reso muscoloso dalla tanta palestra. Si attorciglia e termina con una croce. Mi sembrava un aquilone a prima vista ma forse non è poi così sbagliato. Un aquilone ben fissato perché il filo non si perda, non si laceri quel legame che tiene M. ancorato a un valore forte in cui crede, un filo che, se si recidesse, significherebbe una libertà che gli ha causato solo prigionia. Quel rosario tatuato è per M. il senso del sacro che cerca in sé e nella relazione col Cristo. Quel senso che sta scavando nel nulla per portarlo a tutto.

Oggi Don Antonello porta la riflessione sul senso del sacro che tanti detenuti rivelano quando entrano in cappella e si inginocchiano davanti all’altare per poi recarsi verso Maria. Si inchinano: fuori al boss di turno in senso di rispetto ma soprattutto di paura, dentro al Gesù che con loro sta costruendo nuove relazioni, nuova sacralità. Quale la differenza tra fuori e dentro, tra il boss e Cristo? E’ un inchino senza paura, un inchino alla meraviglia di essere amati per ciò che si è, attraverso una storia nuova anche se segnata, in una relazione in cui non ci si prostra per deferenza ma ci si siede accanto come compagni di viaggio. Sì, Gesù, non hai mai accettato che qualcuno si prostrasse faccia a terra, invece ti sei abbassato a ogni livello per incontrare gli occhi della tua creatura, sacra senza nemmeno saperlo, senza nemmeno crederci. Mi piace questa chiesa che si abbassa, che si fa polvere, che si spezza come pane ma non dall’alto, mi ricorda il suo pastore, Papa Francesco, quando rifiuta il bacio della mano e dell’anello ma apre le braccia e accoglie le braccia.

Interviene A. sul sacro: “Non sono ancora sacro ma in cammino: Sono entrato da tossicodipendente con la droga in testa a occupare tutto, oggi grazie a Dio, sto facendo un percorso nuovo. Sto cercando di rendere la mia vita sacra dopo averla distrutta, negata, rifiutata. Non cerco il calcolo come prima, non sono ambiguo, parlo in modo diretto e non mi faccio sconti. Il sacro della droga, che era un idolo da rincorrere, si sta trasformando nel sacro dell’incontro con l’altro che mi vede per ciò che sono e mi dice dove sbaglio. Ho bisogno che qualcuno me lo dica. Per non tornare sulla strada”.

E il corpo? Come può essere sacro? Siamo già sacri perché inseriti in Cristo, rilancia Don Antonello. Ma non basta: serve l’adesione continua, una sacralità da costruire giorno dopo giorno senza paura della propria imperfezione. Il corpo che diventa sacro nella relazione, quando si costruisce con l’altro e non senza l’altro, quando i gesti sono pace e non distruzione, quando le braccia si aprono all’accoglienza e non alla difesa aggressiva di sé. Gesù è teologia di un corpo che abbraccia: i lebbrosi, l’emorroissa impura da sempre, i paralitici, gli storpi dalla mano e dal cuore inaridito. Va bene, giocoliere, allora che bisogno hai di noi e del nostro corpo così imperfetto? La follia di un Cristo che ha bisogno di noi, di quella fragilità, di quella contraddittorietà di cui è piena una vita che di sacro sembra avere ben poco. Un Cristo che, per “giocare” con l’uomo, ha bisogno di un corpo martoriato per far passare il suo amore, di braccia tatuate, di gambe insicure e malferme, di occhi miopi, di orecchie non sempre aperte all’ascolto. Un corpo assurdo… Eppure, Gesù, tu lo scegli, non lo subisci come unica chance sul mercato, ma lo scegli. Scegli lo scarto per stupire il mondo, cerchi l’imperfezione per costruire il tuo regno. Come conduttori d’amore non siamo un granché, siamo piuttosto degli isolanti che spesso non si lasciano attraversare dalla carica positiva ma che tu scegli per sconvolgere con l’amore. Grazie, Gesù, di non coltivare con noi la cultura dello scarto, saremmo già irrimediabilmente persi, inutili, sconsacrati. Invece siamo dei salvati, recuperati, rilanciati, come quell’aquilone che mi sembrava di vedere sul braccio di M. E hai sempre scelto l’immagine di un corpo fatto di tante membra, magari stanche e piagate ma unite le une alle altre. Perché ci insegni che non ci si salva da soli, che stiamo salendo in cordata, che siamo legati in una storia di salvezza pensata, desiderata e voluta per tutti.

E nulla a caso: L. ha un malore, sta per svenire. Tutti si fanno compagni intorno a un corpo che cade, che mostra tutta la sua fragilità, a un corpo in pericolo che ha bisogno della mano degli altri per rimettersi in piedi, per riequilibrare ciò che si è momentaneamente disintegrato. Senti, Gesù, veramente ti diverti a fare il giocoliere. Non bastano le parole del Vangelo per convincerci, tu usi la vita vera, ti “servi” del malore di un uomo per mostrarci cosa voglia dire essere un corpo chiamato alla sua sacralità. La liturgia continua intorno a L.: chi lo sorregge, chi lo porta fuori, chi fa strada, chi lo segue anche solo con lo sguardo. E’attraverso il corpo di L. che Gesù sta passando ed è attraverso le braccia di chi lo sorregge che il corpo diventa sacro. Perché non è solo, perché è relazione, è carità che si fa carne. Il vangelo lo dice chiaro nella versione di Marco “date loro voi stessi da mangiare”. Siate voi pane spezzato, siate cibo che rimette in piedi, siate braccia che accolgono. Anche se non avete altro in realtà avete e siete tutto: quel corpo santo perché rende sacra la vita nei gesti d’amore. La messa è lì, intorno a L. che poco dopo si riprende: quelle mani, quella cura, quell’attenzione che si è accorta del malore prima che ci fosse la caduta, si è trasformata in vangelo vivente, pane di condivisione. Senza questa cura la nostra vita rimane a terra, la vita dell’altro rimane a terra.”Tutto a posto, L.?”. “Si, la pressione, col caldo scende”. Una pressione ora stabile grazie a qualcuno che si è reso vicino: corpo, braccia, accudimento. Sacro nel gesto del servizio.

La messa finisce intorno all’altare, stretti in un unico abbraccio, in un unico corpo. Prima della fine S. saluta e ringrazia tutti del percorso in carcere: è liberante. Una comunità di accoglienza e recupero lo sta aspettando fuori. Una nuova vita. S. ha suonato la chitarra in questi mesi con me. È alto, molto, molto più di me. E mi sono sempre sentita protetta con lui accanto. Mi commuovo e piango tra quelle braccia senza vergognarmene: un pezzettino di corpo parte per la sua strada. Ma niente si divide e si perde. Nulla che il giocoliere non abbia costruito.

 

Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.