Alessandra Bialetti / Blog | 16 Aprile 2019

Le Lettere di Alessandra Bialetti – Una folla di Barabba

Mal d’Africa. Mal di Rebibbia. Inizia la settimana santa. Si può cominciare senza far parte di quel Getsemani? Senza farsi affascinare dal passaggio di Gesù, gran giocoliere, nella periferia esistenziale del carcere? Non si può. Almeno io non voglio, io voglio far parte di quella folla, voglio sentirmi folla con loro. Varco la soglia e il cortile dell’area verde, quella destinata all’incontro con le famiglie. E’ gremita di persone, ognuno con l’ulivo in mano. Canti risuonano nell’aria, c’è chi si saluta, chi si ritrova, chi si riconosce anche al di fuori della cappellina del reparto. Se non ti vedono per una domenica si preoccupano e ti vengono incontro con un abbraccio. Nel mondo fuori, spesso, scompari e nessuno se ne accorge, vivi delle difficoltà ma non fai notizia. Questo il primo regalo della domenica delle palme.

La processione inizia con il saluto del vescovo Mons. Vincenzo Paglia. “Avrei dovuto essere in San Pietro ma oggi ho preferito stare qui con voi”. Giocoliere! La tua chiesa, quella che hai pensato millenni fa, quella per cui hai dato la vita, quella che hai costituito perché fosse più vicina possibile al tuo sogno oggi è qui a Rebibbia. Un suo pastore preferisce chinarsi su questa folla di “disperati”, sceglie l’informalità, smette i panni dell’ufficialità per vestire quelli del pari tra pari. Un pastore che scende tra i tanti Barabba che costituiscono la folla: chi ruba, chi ha a che fare con la droga, chi si è macchiato forse di un omicidio, le guardie carcerarie, i volontari, le persone omosessuali, le persone transessuali, persone in carrozzella perché non possono camminare, persone condotte per mano perché non vedenti. Questa è la processione del gran giocoliere: tutti contaminati gli uni con gli altri, non ci si distingue, non si sa chi ha fatto o non fatto cosa. Non conta. Conta solo l’entrata in Gerusalemme, uno dietro l’altro, uno con l’altro, uno accanto all’altro, con le proprie storie, giuste o sbagliate che siano. Tra noi anche F. il nostro fratello di religione ebraica, una presenza fissa e attenta. Mi avvicino e gli chiedo come mai sia anche lui lì. Mi guarda e con semplicità dice. “Mio padre è cattolico, sarebbe contento di sapermi qui. Per me Gesù è un maestro e l’ulivo che porto in mano è presente nella stella di David”. Quell’ulivo, segno di condivisione e di una pace sempre sotto minaccia ci unisce a F., non c’è bisogno di tante domande. Solo di camminare insieme.

Il vescovo apre la messa nella chiesa grande, stracolma sotto lo sguardo attento e vigile delle guardie carcerarie. Basterebbe una piccola miccia a far scoppiare un incendio, un piccolo gesto a creare un pericolo. Ma nessuno si muove, tutti con profondo rispetto e in gran silenzio sono lì per accogliere un Gesù rivoluzionario ma senza armi. “Abbiamo bisogno di accoglienza, di chi ci tocchi il cuore, di chi dica bene di noi, di chi penetri nella nostra solitudine”: questo è l’uomo di Nazareth che entra nella sua Gerusalemme acclamato dalla gente più strana e inopportuna.

Viene proclamata la Parola. E si arriva al famoso passo di Barabba. Quello che ha segnato la fine, quello che ha consegnato Gesù alla morte tra e con l’acclamazione del popolo. Sorrido tra me e me. Penso a quella scena ripetuta oggi: i tanti Barabba di Rebibbia non sarebbero rimessi in libertà ma chiusi ancora più serratamente nelle loro celle. Hanno sbagliato, hanno sovvertito l’ordine, hanno messo in crisi coscienze, è giusto che stiano dentro. Nessuno sconto per loro. E Gesù? Dentro anche lui insieme a Barabba, in buona compagnia. Anche lui ha sovvertito, ha rivoluzionato, ha infranto la legge del sabato, si è permesso di toccare gli immondi, di farsi contagiare dall’emorroissa e dal suo sangue fetido e contaminato, di mangiare con i peccatori, di scegliere i suoi discepoli tra gli ultimi, di incontrare i lebbrosi col rischio di appestare i sani. Bene, il gran giocoliere e i suoi Barabba tutti insieme dentro. Ora capisco quando ci invitava a visitare i carcerati perché in loro Lui si celava…

E per Gesù non c’è una visita una tantum tra quelle sbarre, Gesù non condivide l’ora d’aria nell’area verde, rimane dentro 24h. Fa parte a pieno diritto, dato che è un pericolo pubblico per le nostre coscienze di benpensanti, della fitta schiera dei “da soli”. Si, non ho commesso un errore ortografico. Due sere fa allo spettacolo di Simone Cristicchi, si parlava dei “da soli” come lui stesso si è sentito da giovane adolescente. I “da soli” sono quelli che non si ritengono degni di essere toccati, visti, abbracciati, stimati. Sono quelli buttati ai margini, i migranti di una vita che non trova mai riposo, i seguaci di quel Gesù che non aveva dove posare il capo. Non sono solo coloro che si sentono soli ma che si autoescludono e si chiudono in una cella della quale loro stessi buttano la chiave per quanto si sentono indegni della vita fuori. Come Cristicchi che, dopo il gran dolore della perdita del padre, si è rintanato in una stanza, si è chiamato fuori. Ecco, il gran giocoliere, sulla croce, si volge al primo “da solo”: il ladrone. Visita e porta con sé il primo carcerato della storia, il primo che libera è uno sbagliato, un condannato, un processato senza appello, un rifiuto della società, un irregolare, un clandestino, un senza valore e senza dignità. Il primo salvato! Il primo luogo che Gesù visita è il carcere accanto a Lui sulla croce.

Il giocoliere diventa il sovversivo che destabilizza un sistema messo su con tanta pazienza e con tale dovizia da essere quasi inattaccabile. Quasi: non avevano fatto i conti con chi ha fatto dell’eversione il suo atto di amore rivoluzionario, la via di salvezza. Ma una salvezza condivisa quando, sotto la fragilità, cede la croce a Simone di Cirene, tirato dentro forse suo malgrado ma inserito nella storia più sorprendente che possa vivere. Come i detenuti che portano le palme in processione, non come amuleti che possano proteggere scaramanticamente un anno di cammino fino alla prossima Pasqua, (quante chiese oggi sono colme solo per strappare il gadget) ma come un esercito di “da soli” che negli occhi di Gesù si sentono visti, accolti, amati.

Mi colpisce che M. raccoglie ogni piccolo rametto d’ulivo rimasto sul terreno: non si può lasciare lì un tentativo di pace con il rischio di essere calpestato. Lo porta con sé. Forse lo condivide in cella con chi non è sceso nella piazza. L’annuncio è anche per loro, per chi è folla chiuso in una cella di rigore. Gesù è 24h anche lì. In silenzio forse, ma c’è. Nella sua Gerusalemme, nella sua folla di Barabba, nel ladrone che lo riconosce sulla croce e non si sente degno di lui. Questa è la chiesa che amo. Forse la chiesa più vicina al sogno del suo giocoliere.

 

Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.