Articoli / Blog / Rebibbia | 16 Aprile 2019

Agi – Come mangia la colomba di Pasqua un detenuto

In occasione delle festività pasquali, il cardinale Angelo De Donatis, in visita a Regina Coeli, ha donato delle colombe a mille detenuti come regalo di una ditta di dolciumi. Per chi è libero ed ha qualche denaro in tasca, non è facile percepire cosa significhi una colomba pasquale, o un panettone natalizio, per un detenuto povero. Frequentando da cappellano volontario il carcere di Rebibbia ho visto, davanti a una colomba, i volti duri dei carcerati, consumati come il legno e rovinati dalla vita, distendersi per un attimo nel profumo della gioia vera. Banalmente potrei dire che li ho visti tornare bambini, ma non è così perché oggi i nostri bambini spesso sono solo dei golosi sempre più frequentemente obesi, che non sanno cosa vuol dire mangiare una colomba. 

Invece, in carcere, i detenuti poveri, lo sanno. L’alimentazione passata dall’istituto è quelle minima per la sussistenza. A me raccontano che quasi sempre la cucina passa wurstel, minestra, un bicchiere di latte o di caffé, e poco altro, spingendo praticamente tutti ad integrare facendo “la spesa” e cucinando nella propria cella con un fornello precario a pochi centimetri dalla “turca” in stanze di tre per quattro metri dove vivono sei persone. Alcuni detenuti sono ricchi e possono acquistare cibo a volontà ma moltissimi non hanno nulla e il cibo in carcere costa. Gli acquisti non si fanno in denaro ma attraverso un complesso sistema di punteggi per cui un chilo di pasta o un sacchetto di caffè costa tre o quattro volte più del normale (così mi raccontano gli interessati).

La maggioranza dei carcerati è povera. Chi visita i carcerati fa, senza proporselo, l’intero filotto delle povertà. Perché dà da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, veste gli ignudi e accoglie i forestieri. E così, quando un detenuto povero riceve un colomba, mangia una colomba come noi liberi non sappiamo. Un detenuto non mangia la colomba tutta di corsa. Ne mangia un pezzo subito, forse un quarto, e il resto dopo.

A noi occidentali con i figli obesi, piace baloccarci con i bussolotti di pensieri, piace pensare che la colomba pasquale sia un simbolo. Invece la colomba pasquale è cibo. È farina, latte, zucchero, burro, mandorle, glassa. E tutto ciò, dai detenuti più esperti, non viene mangiato con voracità, ma preso un po’ subito e un po’ dopo. Da seduti, in modo raccolto, con l’attenzione tesa, non si parla d’altro, non ci si distrae. Perché se fai così la colomba ha la forza di farti dimenticare le mutande del collega che penzolano a pochi centimetri da te, o la puzza che sale dalla turca, o le grida di chi litiga.

E allora ti siedi per bene e te la metti sulla pezzuola stesa sulle gambe e non te ne fai cadere neanche una briciola, e la cominci a mangiare a piccoli morsi. E poi la mastichi. E mentre il profumo del dolce ti riempie la bocca, il naso e tutta la testa e va giù per il corpo, ti accorgi di quanto sono stupidi quelli di fuori, quelli liberi. E di quanto eri stupido anche tu quando eri libero. Che mangiavi e mangiavi, come si mangia quando non si sa quanto è importante la vita. Come si mangia quando si è sventati: patate a padellate, intere cofane di pasta, pezzi di carne grossi così e vino da tracannare finché ti scoppia la pancia. 

A Rebibbia sono arrivate tante colombe per i detenuti, anche se non bastano per tutti, e sono arrivate non dalle ditte ma regalate dalla gente, persone singole. E loro vorrei ringraziare raccontando quello che ho imparato. Che la vita vale non perché è un simbolo, non perché significa qualcosa, ma perché è la vita: la vita semplice. Che va vissuta. Perché a me il carcere regala che è sbagliato mangiare fino a farsi scoppiare la pancia.

Il pensiero, quando si mangia la colomba, deve essere fisso sul cibo. Trovando il momento, quello giusto, in cui puoi sbocconcellare il tuo pezzetto con i denti che lo masticano e la lingua che se lo maciulla a furia di girarselo in bocca e rigirarselo, e risucchiarselo con le guance. Come dovremmo fare coi momenti che passiamo con le persone che amiamo.

Tratto da Agi