Articoli / Blog / Rebibbia | 02 Aprile 2019

Agi – Said Mechaquat e Stefano Leo sono dei moderni Caino e Abele

Stefano Leo è stato sgozzato mentre passeggiava per le strade di Torino perché la sua espressione, felice e serena, era insopportabile. A raccontarlo è stato Said Mechaquat, l’assassino che si è costituito.

La forza orribile di questo delitto è tale da catapultarci dentro la storia di Caino ed Abele, e cioè dentro le dinamiche misteriose del cuore dell’uomo. Caino uccide Abele perché è invidioso della felicità del fratello e crede che togliere la gioia a qualcuno gli consenta di rubarla per sé.

Said è un cittadino italiano di origine marocchine ma qui il Marocco non c’entra, c’entra Caino perché, come togliere la vita ad Abele non aggiunge neppure un grammo di felicità alla vita di Caino, così sgozzare Stefano spalanca a Said non la porta della gioia, ma quella del carcere.

Non ci sono attenuanti sociologiche per l’omicidio di Stefano. Caino, invece di uccidere Abele, avrebbe potuto mettersi al lavoro per migliorare la propria vita, per renderla più buona imparando da chi ci stava riuscendo. Allo stesso modo Said avrebbe potuto decidere di imparare dallo sguardo felice di Stefano, che andava a fare il suo lavoro di commesso, come si fa a vivere bene.

Avrebbe potuto chiedersi dove cominciare a cambiare, per cambiare la propria vita. Avrebbe dovuto trasformare il dolore per le proprie sconfitte in voglia di cambiare, in impegno: non in una rabbia disperata. Perché togliere la vita a qualcuno non dà più vita all’assassino, gli dà solo più morte. Aggiunge alla morte della vittima anche quella dell’assassino.

Se non impariamo a trasformare le nostre sconfitte in lavoro, in progetti, in speranze di cambiamento, esse inacidiscono in una rabbia che può tracimare in un’ira assassina. A volte siamo come un bambino che al parco guarda un altro bambino: vede che ha un piccolo gioco in mano e lo guarda felice, e allora va da lui e con una manata glielo fa cadere.

Perché, sia da bambini che da grandi, la gelosia ce l’abbiamo, sempre e solo, per la felicità degli altri non per le cose degli altri: questo dice il delitto di Said. E se gli altri sono felici semplicemente per la vita, perché vivono, allora il Caino che c’è dentro ciascuno di noi, ci fa vedere la felicità degli altri come una minaccia.

Lui sussurra: di felicità non ce n’è per tutti. Lui sussurra: quella che ha lui è tolta a te. Lui sussurra una menzogna, e cioè che tutto quello che hanno gli altri, anche se è poco, è tolto a te. Lui sussurra che tutto quello che fa felice gli altri, è felicità in meno per te. Questo sussurro ha forza dentro di noi quando nel nostro cuore vince la convinzione disperata che nulla possiamo per cambiare la nostra vita: quando avviene questo il Caino che c’è in noi vuole che tutti stiano lontani dalla felicità perché essere contenti è come un’offesa per noi.

Invece l’amore non ruba nulla a nessuno solo che bisogna lavorare su se stessi per scoprirlo. È strano quanto ci sembri più facile cambiare il mondo attorno a noi invece che cambiare noi stessi: eppure molto molto spesso mentre è impossibile cambiare gli altri e invece possibile – l’unica cosa davvero possibile – cambiare noi stessi.

Frequentare il carcere di Rebibbia mi permette di verificarlo spesso. Un detenuto ha pochissimi margini di manovra rispetto alle circostanze, eppure quasi tutti cercano di cambiare le circostanze, che siano la cella, i compagni, il vitto, la biancheria, l’igiene, il vestiario, la durata della pena, invece che se stessi: quando, invece, noi stessi siamo gli unici a portata di mano. Said Mechaquat, che ora in carcere avrà la sua giusta pena, avrà modo di meditare con calma su tutto ciò, mentre le lacrime scorreranno sulle gote di chi amava Stefano. Chi volesse però per Said una pena più dura del carcere, la pena di morte per esempio, dovrebbe riflettere sulla palese verità che abbiamo appena affermato: che togliere la vita a Said non riporterebbe in vita nessuno, neppure Stefano.

Tratto da Agi