Se “mi” racconto mi conosci – Noi angeli custodi dei detenuti

Continua la rubrica di Alessandra Bialetti «Se “mi” racconto mi conosci». Chiunque desidera può contribuire inviando la propria testimonianza a [email protected]


Alcuni gli chiedevano una parola di conforto, altri si mettevano a disposizione per organizzare la catechesi; altri ancora, una volta scarcerati, gli hanno chiesto di celebrare il matrimonio o di battezzare i figli. Con molti è rimasto in contatto, tutti li porta ancora nel cuore. Don Raffaele Grimaldi, oggi a capo dell’Ispettorato generale dei cappellani delle carceri italiane, ha messo piede in una prigione per la prima volta nel 1992, più di 25 anni fa.

Don Grimaldi, come ha iniziato occuparsi di detenuti?

«La mia avventura è iniziata nella casa circondariale di Secondigliano, a Napoli, nel 1992. Varcai la soglia perché dovevo sostituire il cappellano per alcune celebrazioni. A ben vedere, però, il mio ingresso in questo mondo non è stato “un caso”, intravedo un collegamento con le mie esperienze precedenti. Mi sono sempre interessato degli ultimi, prima in Africa — in particolare in Burundi, dove sono stato nel 1983, e dove ho avviato un gemellaggio diocesano che procede ancor oggi con collaborazioni e adozioni a distanza —, poi attraverso i centri di accoglienza a Giugliano».

Cosa le è rimasto dei 23 anni con i detenuti di Secondigliano?

«Custodisco nel cuore l’aspetto umano delle carceri. Con i volontari e i religiosi eravamo diventati una famiglia e abbiamo cercato di instaurare buoni rapporti anche con la polizia penitenziaria. Negli anni abbiamo promosso progetti a sostegno dei detenuti, come la coltivazione di ortaggi in serra con gli ergastolani. Abbiamo scommesso su di loro e oggi una cooperativa vende i prodotti all’esterno dell’istituto».

In che cosa consiste il lavoro del cappellano?

«Il nostro compito è evangelizzare. Siamo impegnati nella catechesi, nelle celebrazioni e negli incontri personali. In generale diamo una mano tutti: il cappellano è una figura riconosciuta dallo Stato, affianchiamo le carceri anche nella promozione di iniziative e progetti».

L’ispettore, il “capo dei cappellani”, che ruolo ha?

«Coordino l’attività pastorale dei diversi cappellani, che mi chiamano per confrontarsi e a volte mi coinvolgono in alcune celebrazioni. Ogni Regione ha un cappellano delegato: con loro ho incontri periodici. Nelle carceri serve pazienza, amore e anche coraggio: per questo, per quanto posso, sto loro vicino».

Come si è sentito quando è stato nominato ispettore?

«Monsignor Angelo Spinillo, vescovo di Aversa, mi chiamò dicendo che ero nella rosa dei candidati Cei. Sarò sincero: anche se sono abituato all’obbedienza, non sapevo proprio cosa rispondere. Il mese precedente avevo festeggiato i 18 anni in parrocchia e avevo chiesto al vescovo di lasciare la chiesa di San Nicola per dedicarmi alle missioni e alle carceri. Infine gli ho detto di sì, anche se è stato un sì sofferto perché significava lasciare la città, la famiglia, la comunità. Inoltre cambiare radicalmente incarico a 60 anni non è facile… Nel giro di 15 giorni il vescovo mi ha richiamato comunicandomi che avevano scelto me. Ho accolto il mandato, in continuità con la mia vocazione. E poi ho affidato il mio incarico».

 

A chi l’ha affidato?

«Ho una grande devozione per Madre Teresa. Appena giunto a Roma sono andato all’istituto delle Suore missionarie della carità, sul colle Celio, dove lei stessa soggiornava; sono stato un’ora nella sua stanza, affidandole il mio nuovo servizio. Non sapevo da dove iniziare, inoltre era una responsabilità nazionale e mi chiedevo se sarei stato in grado!».

 

Ha detto che i cappellani vanno sostenuti. Possiamo definire la vostra una pastorale di frontiera?

«Sì, dentro le carceri c’è tanta povertà, tanta emarginazione! Noi cappellani siamo gli angeli custodi dei detenuti. Spesso sono immigrati, senza fissa dimora, persone senza famiglia».

 

Fra i detenuti ci sono anche credenti di altre confessioni e fedi. State vicino anche a loro?

«Nelle carceri operano anche sacerdoti ortodossi, ma sono pochi e non riescono a raggiungere tutti i loro fedeli. Anche gli imam entrano sporadicamente. Per questo i cappellani sono richiesti da tutti, fedeli di altre confessioni e religioni compresi. Generalmente siamo ben accolti, i detenuti vedono in noi dei punti di riferimento spirituali, umani e materiali, preziosi anche per ricucire situazioni familiari complesse».

 

Le carceri e “il mondo esterno” spesso sono percepiti come due realtà separate. Lei, che è stato contemporaneamente parroco e cappellano, ha mai cercato di fare interagire “dentro” e “fuori”?

«Certamente. Creare un ponte fra carceri e territorio è sempre stato un mio desiderio. Un passo dopo l’altro la parrocchia di San Nicola a Giugliano (dove è stato parroco per 18 anni, ndr) è diventata molto attenta ai problemi delle carceri. Abbiamo promosso diversi scambi e attività con le famiglie dei detenuti. Inoltre a Giugliano è sorta anche una Casa della misericordia per chi, in permesso speciale, non saprebbe dove andare».

 

Qual è la differenza fra l’essere impegnato in parrocchia e nelle carceri?

«In parrocchia si sta molto con i gruppi e le persone, e le soddisfazioni pastorali — anche immediate — non mancano. Nelle carceri invece si semina nei solchi della vita, è raro godere dei frutti del proprio lavoro. Una volta scontata la pena perdiamo di vista la maggior parte dei detenuti, ma ci resta la gioia di aver seminato. La certezza cristiana è che il seme gettato prima o poi porterà frutto».

 

Oggi quali sono le urgenze dietro le sbarre?

«La depressione, ahimè, è un problema conclamato. Tante situazioni di difficoltà si fanno largo perché nelle carceri c’è poco da fare. Ed è proprio per questo che i cappellani impostano progetti e si danno da fare: per aiutare i detenuti a uscire dall’isolamento».

 

Lei oggi gira per le carceri italiane. Quali ricchezze inaspettate vi trova?

«Innanzitutto l’amore, a partire da quello dei detenuti per i loro cari. Poi alcune disponibilità inaspettate come chi chiede di essere catechizzato o di collaborare con noi nel far conoscere la Parola ai compagni di cella. A volte deleghiamo a loro anche gli incarichi di preghiera! A maggio, ad esempio, i detenuti si radunano per recitare il rosario, leggere il Vangelo o discutere di temi di fede e attualità: molti lo fanno senza cappellano!».

 

Lei ha seminato tanto, ha già raccolto qualche soddisfazione?

«Molto tempo fa un giovane di Secondigliano, dopo un profondo cammino di fede e un grande cambiamento di cuore, mi ha espresso il desiderio di diventare sacerdote! Per me, che allora ero alle prime armi, è stata una grande gioia: significava che aveva preso sul serio il contatto con la Parola. Scontata la pena ha fatto il catechista e oggi vive una vita cristiana!».

 

A 35 anni dalla sua ordinazione, come rilegge la chiamata al sacerdozio e alle carceri?

«Non ho avuto una folgorazione eclatante come san Paolo, la mia è stata una vocazione semplice; fin dalla prima Comunione ho portato dentro di me il desiderio di incontrare Gesù. Poi negli anni la vocazione si è chiarita con l’aiuto dei padri spirituali e dell’esperienza che ho potuto fare. Per la mia consacrazione, il 20 ottobre 1984, scelsi la frase del buon pastore “e ho anche altre pecore che non sono di questo ovile, che io devo condurre”. Devo dire che è stata profetica: per me i detenuti rappresentano proprio quelle “altre pecore”».

 

Incontrasse papa Francesco, che cosa gli direbbe?

«Gli direi grazie! Fin da subito ha preso a cuore i carcerati. Francesco richiama alla conversione con parole forti e quando parla di scomunica i detenuti recepiscono il messaggio con sofferenza. Le sue, però, sono le parole di un padre che vuole bene ai suoi figli. La Chiesa non calpesta chi ha vissuto l’esperienza del peccato, ma tende la mano! Per questo al Papa va il mio grazie, assieme a quello di tutti i cappellani».

Tratto da Credere