Se “mi” racconto mi conosci – Don Ennio Stamile contro la mafia: «Non temo, ogni missione ha la sua croce»

Continua la rubrica di Alessandra Bialetti «Se “mi” racconto mi conosci». Chiunque desidera può contribuire inviando la propria testimonianza a [email protected]


La sera dell’Epifania stava mangiando con alcuni capi Scout della parrocchia di San Benedetto abate in una pizzeria di Cetraro, in provincia di Cosenza. Uscendo del locale ha trovato un’amara sorpresa: qualcuno aveva legato allo specchietto retrovisore esterno della sua macchina un sacco nero, di quelli che si usano per l’immondizia. «Dentro c’era un capretto scuoiato, senza testa né zampe. Quando l’ho visto, ho pensato che mi avessero ucciso la cagnolina», racconta don Ennio Stamile, dal gennaio del 2016 referente regionale per la Calabria di Libera, l’organizzazione fondata e diretta da don Luigi Ciotti per combattere le mafie.

Non è la prima intimidazione a dir poco esplicita ricevuta dal sacerdote, 53 anni, originario di San Giacomo di Cerzeto, sempre nel Cosentino: «Nel 2012 trovai davanti al portone di casa una testa di maiale mozzata con uno straccio in bocca». E poi telefonate, lettere anonime, minacce, gomme tagliate all’automobile. «Ho rifiutato la scorta, perché mi limiterebbe molto nei miei spostamenti in contesti e province diverse, che devo comunque comunicare alle Forze dell’ordine. Paura? «La vivo nella fede. Mi accompagna sempre una frase del gesuita padre Bartolomeo Sorge: “Ogni missione ha la sua croce, altrimenti è una patacca”. Ma a farmi soffrire di più non sono questi “inconvenienti”, quanto la diffusa resistenza e incomprensione di questo servizio da parte della gerarchia e di tanti sacerdoti, mentre è un impegno che prende vita dal Vangelo».

Mentre le indagini sono in corso e si susseguono dichiarazioni di solidarietà nei confronti di don Stamile, lo incontro in un bar di Cosenza; poco prima alcuni imprenditori avevano ascoltato la sua testimonianza alla Camera di commercio.

Il suo impegno di denuncia dei meccanismi e degli effetti della mentalità mafiosa spazia dalle scuole alle parrocchie, facendo tesoro anche dei precedenti studi in Giurisprudenza e dell’esperienza nello studio legale del padre, oltre che in politica. «Sono entrato in seminario a 31 anni. Ma per me non esistono vocazioni adulte, solo risposte adulte. La fede me l’hanno trasmessa anzitutto i miei genitori: mia madre, di fronte alla sofferenza, ha sempre detto: “Sia fatta la volontà di Dio”». E il dolore ha segnato la sua famiglia dieci anni fa, con la morte del fratello maggiore stroncato a 52 anni da un cancro ai polmoni. «La preghiera ci ha sostenuto», prosegue don Ennio, che nella diocesi di San Marco Argentano-Scalea è stato per quasi quindici anni parroco di San Benedetto a Cetraro, oltre a fare l’economo e poi l’animatore al seminario teologico regionale San Pio X di Catanzaro, mentre dal 2006 al 2011 è stato delegato regionale delle Caritas calabresi. Nel frattempo alla Lateranense di Roma ha conseguito il master in Dottrina sociale della Chiesa, ma si può dire che le persone incontrate ogni giorno lo abbiano aiutato a incarnare concretamente gli studi: «Ascoltare i bisogni della gente è una grande cattedra di umanità dove impariamo a conoscere la storia di un popolo», sottolinea con tono pacato, convinto che nei seminari «i formatori dovrebbero avere una provata esperienza pastorale, altrimenti si è scollati dalla realtà».  

I primi contatti diretti con Libera nascono circa un decennio fa, ricorda don Stamile, autore e curatore di diversi volumi per Editoriale Progetto 2000: «Nel 2007 abbiamo pubblicato gli atti di un convegno regionale Caritas, sul tema È Cosa Nostra: una pastorale ecclesiale per l’educazione delle coscienze in contesti di ’ndrangheta. Poi ho conosciuto personalmente don Ciotti e ho cominciato a coniugare la missione di parroco e referente Caritas con l’impegno in Libera, fino all’incarico di coordinatore per la Calabria, un servizio che da due anni mi assorbe totalmente». Infatti, oltre a visitare i presidi territoriali sparsi in un territorio «complesso e diversificato» da Cosenza a Reggio e a Vibo Valentia, don Ennio anima incontri di educazione alla legalità con gli studenti e trascorre molto tempo «accanto ai familiari delle vittime di ’ndrangheta, celebrando l’Eucaristia, facendo memoria dei loro cari».

Perché la fede e la vicinanza aiutano a elaborare lutti tragici, improvvisi e senza giustizia: «Dopo anni i genitori di Celestino Fava sono usciti dall’isolamento: si erano chiusi a causa dell’omicidio del loro figlio di 22 anni, studente universitario, ucciso il 29 novembre 1996 a colpi di lupara a Palizzi, in provincia di Reggio, mentre raccoglieva della legna in campagna. Ora portano la loro testimonianza nelle scuole. E io non tornerei mai indietro; la sofferenza delle vittime mi sta forgiando ed è proprio questa a colpire più di ogni parola le nuove generazioni: il fatto di toccare con mano l’altra faccia della ‘ndrangheta. Innesca in loro la voglia di cambiamento, di riscatto e di denuncia».

Altro compito molto delicato a cui è chiamato il sacerdote calabrese, e che dà particolarmente fastidio ai boss (oltre ai no detti a padrini e madrine di Battesimo o a testimoni di nozze chiaramente collusi con la criminalità organizzata), è quello di affiancare le loro mogli che decidono di lasciare il contesto familiare con i figli minorenni, per sottrarli a un futuro di violenza, cambiando identità e ricostruendo completamente le loro vite sotto protezione, grazie a una rete di tutela. Si tratta del progetto Liberi di scegliere, nato da un accordo tra ministeri della Giustizia e dell’Interno, appoggiato anche dalla Conferenza episcopale italiana: il 2 febbraio il vescovo Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, è intervenuto nella sede della Direzione nazionale antimafia in occasione della firma del protocollo d’intesa tra la Presidenza del Consiglio, Libera, il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria (insieme alla Procura della Repubblica e quella per i minorenni di Reggio e la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo). «La fede sostiene tantissimo queste mamme: una di loro, che sta ultimando il percorso di tutela e ha avuto il coraggio di denunciare il marito, mi ha confidato di sentirsi aiutata solo dal Signore in questo cammino».

Tratto da Credere